Il diploma all'esposizione di Genova nel 1855 |
Scienziato
pazzo, genio della chimica, o impostore? Sul cremonese Angelo Motta
pesa il giudizio del direttore del manicomio provinciale Giuseppe
Amadei che, nel 1889, dopo la sua morte, lo definì un “mattoide”
(Amadei Giuseppe, Una
scoperta mattoide. La metallizzazione dei corpi organici di Angelo
Motta,
Cremona, Ronzi e Signori, 1889). In realtà il professor Angelo Motta
apparteneva a quella schiera di scienziati positivisti che, dalla
metà dell'Ottocento, inseguiva il miraggio di preservare i corpi
dalla decomposizione. Una schiera che, tra gli altri, annovera
illustri personalità come il pavese Paolo Gorini, Girolamo Segato,
Efisio Marini, Raimondo di Sangro. Personaggi eccentrici e misteriosi
che hanno in comune il fatto di aver portato il loro segreto con sè
nella tomba. Visti con diffidenza, osteggiati in quanto appartenenti,
come quasi tutti gli scienziati del tempo, alla massoneria, bollati
come stregoni. Famoso resta il caso di Paolo Gorini, nei cui
confronti a Lodi si era diffusa la voce che,
bussando alla porta del suo laboratorio, si poteva venire accolti da
una delle sue mummie.
L'orrore per la putrefazione e, di conseguenza, il desiderio di
conservare i corpi umani, nasceva da diverse esigenze di tipo
igienico, sanitario e scientifico, in un periodo storico in cui
l'assenza di norme igieniche era all'origine del susseguirsi di
epidemie coleriche e di febbre tifoide e la difficoltà di
conservazione dei reperti anatomici impediva l'approfondimento degli
studi in materia. Ma come conservare i corpi? Se Gorini e Segato
avevano sperimentato tecniche di pietrificazione, il nostro Motta,
esperto di oreficeria e galvanoplastica, era noto come il
“metallizzatore”: prima di morire in miseria nel 1888, a Torino
aveva trasformato in rame la testa di una bambina cremonese, Fanny
Podestà, avvelenata per errore con acido solforico dalla
inserviente, che aveva subito un discusso processo. Angelo Motta,
nato a Cremona nel 1826, affermava di poter trasformare in metallo,
tramite l’utilizzo della corrente elettrica, qualsiasi corpo
immerso in una soluzione, in maniera che di questo rimanesse la
struttura fino al livello molecolare, ma la sostanza non sarebbe
stata altro che metallo. Osteggiato a Cremona, ma difeso da giornali
come “Il Corriere cremonese”, Motta aveva trovato ferventi
sostenitori in Paolo Gorini, in Giuseppe Frisi, direttore del
“Corriere cremonese”, Guglielmo Calderoni, nello stesso medico
onorario della real Casa Gioachino Stampacchia, ed aveva reso
partecipe delle sue difficoltà e dei suoi segreti, un professore
cremonese, un certo Pizzi, che in un manoscritto conservato
all'Archivio di Stato (Comune di Cremona, manoscritti, n. 205)
racconta la serie di incontri avuti con lo scienziato dal 23 agosto
al 3 settembre 1868. Come avviene anche nel caso di Gorini, le
scoperte di Motta sarebbero state del tutto casuali: “E in quanto
ai suoi studi narrò – racconta Pizzi – che egli stesso deve in
gran parte alle fortuite combinazioni le sue scoperte. Un giorno
attendeva ad ottenere su un gesso per altre vie i risultati della
galvanoplastica. Quando gli viene a cadere di mano entro un vaso
contenente un fortissimo acido un altro gesso. E osservò con
meraviglia che invece di decomporsi quel gesso anneriva, ed era
veramente nero. Meravigliato, lo tocchò e lo raccolse con una
verghetta di vetro. Allora riflettendo alla natura della composizione
degli acidi ch'era nel vaso, trovò che per quella via si trovava
ossia si giungeva subito alla carbonizzazione, vale a dire a rendere
positivo il corpo a ricevere l'azione dell'elettricità e
dell'immissione del solfato di rame, ossia alla già nota
metallizzazione. Pensò e provò tosto a metallizzare quel gesso,
vale a dire a sostituire nel corpo carbonato la mollecola metallica.
Da quella scoperta -aggiunge Pizzi – passò all'idea della
metallizzazione della carne”.
Il diploma all'esposizione cremonese del 1863 |
L'anno
prima, d'altronde, Motta aveva dato corpo ai suoi progetti andando a
San Fiorano, nel Lodigiano, per riprodurre la mano destra di
Garibaldi oggi conservata al museo civico di Cremona. In realtà il
nostro professore, prima di ricorrere all'eroe dei due mondi, aveva
fatto un tentativo con l'Ospedale maggiore di Cremona per ottenere
una mano da metallizzare. Ma il Prefetto aveva declinato l'invito,
suggerendogli, in una lettera del 6 settembre 1864, di rivolgersi
altrove: “Lo scrivente nel mentre esprime alla S.V. Ill.ma le
proprie congratulazioni per l'amore che professa alla Galvano
Plastica, studiandosi di dare a questa scienza maggiore incremento e
di farne l'applicazione ad oggetti anatomici, è nella dispiacenza di
non poterle accordare il permesso di esportare da questo Civico
Ospedale la mano di un cadavere per farne esperimenti di
metallizzazione, essendo questo un procedimento a cui si oppongono
particolari discipline sanitarie, e che produrrebbe un triste effetto
morale nel pubblico, segnatamente in coloro che nell'interno di
questo stabilimento hanno a lamentare la morte dei loro cari. Per ora
trovi la S.V. argomenti dei proprio studi nelle membra di qualunque
siasi animale bruto, e quando avrà constatato potersi ripromettere
felici risultati potrà rivolgersi a questa Compagnia di Carità che
presi i propri concerti col corpo sanitario dello Spedale, le
somministrerà nella camera anatomica quei mezzi che valgano ad
assecondarla ne' suoi studi di più elevata utilità
anatomopatologica”. Ma Motta non si era dato per vinto, forte della
celebrità conquistata sui giornali e dell'amicizia riservatagli da
Paolo Gorini. Lo stesso Fulvio Cazzaniga scrive il 17 luglio 1865 un
articolo entusiasta sul “Corriere cremonese” dopo aver visitato
il suo laboratorio. E si capisce che ormai Motta ha valicato il
confine e fatto il salto di qualità, senza attendere l'Ospedale
Maggiore. Nel suo studio non vi sono, infatti, solamente “mazzi di
fiori, animaletti, gambi di melgone, frutta, penne d'oca, cigari,
canestri, e perfino merletti riprodotti tali quali in rame, essendo
che questo metallo si è surrogato alle molecole organiche e ne
riproduce esattamente tutte le forme e le foggie più minute e
delicate”. E Cazzaniga sottolinea che “i suoi processi sono tali
che si può ottenere la metallizzazione completa di un oggetto, per
modo che la sostanza di questo scompaja affatto per essere sostituita
integralmente dal rame in tutte le parti sue; ovvero si riesce ad una
semplice rivestitura esterna che lasciando intatta la sostanza ne
porge le forme estere mascherate completamente di rame”. Ma c'è
ben altro: “Abbiamo visto nel suo studio un cranio umano, non più
osseo, ma tutto di rame, colla riproduzione la più esatta e squisita
delle più piccole forme, delle più delicate particelle che lo
costituiscono. E' una vera meraviglia. V'ha di più ancora; questa
metallizzazione il Motta l'ha ottenuta non solo delle parti ossee
dello scheletro, ma delle molli eziandio, e con pari fortuna;
poich'egli riproduce in rame nientemeno che tutto un cadavere, il
quale si rifa di metallo senza perdere menomamente della sua identità
quasi diremmo fotografica, e senza per nulla scemare nella freschezza
che possedea prima dell'operazione. Esso infatti possiede la testa di
una bambina, di cui gli inconsolabili genitori vollero conservare una
immagine fedele. Essa è tal quale, è un maschera metallica
stupenda, quasi fosse di raso, di un rame finissimo e splendido, che
non si potrebbe desiderare né più somigliante né più vera. Così
abbiamo visto una piccola mano d'un altra bambina, e un pezzo di
cuore di majale”. Tuttavia anche Cazzaniga mostra di non capire
esattamente come avvenga il processo di trasformazione, confuso
ancora con la galvanoplastica. “E' questa una bella e nuova
scoperta di applicazione della galvanoplastica, della quale le arti,
le scienze e la stessa pietà delle famiglie ne possono grandemente
vantaggiare- scrive Cazzaniga - Se il segreto di conservare i
cadaveri del Segato è perduto, ora possiamo rallegrarci che il Motta
ha discoperto il modo di perpetuare le forme di qualsiasi sostanza
organica animale e vegetale in guisa da tramandarne fino alla fine
dei secoli la esatta riproduzione. E però la conservazione dei
cadaveri e delle loro forme è però poco meno che eterna, si si
vogliano soltanto rivestire di rame sia che la loro metallizzazione
la si voglia completa rifacendo esattamente non solo tutte le forme,
ma tutti i visceri e le ossa interne per la più tarda posterità”.
Una vecchia foto della mano di Giuseppe Garibaldi |
Il
silenzio di Motta sul procedimento da lui adottato per la
conservazione dei corpi è destinato ad alimentare lo scetticismo, e
lui lo sa bene. Ma la sua è una scelta consapevole. Motta era nato
come orefice ed aveva lavorato anche alla Zecca, partecipato come
volontario alla prima colonna Tibaldi del 1848, per poi trasferirsi
in Sardegna come impiegato presso gli uffici del ministero delle
miniere piemontese. Di ritorno si era stabilito a Genova, dove fece
fortuna effettuando analisi chimiche sui coloranti per conto di
grossi negozianti e perizie per il tribunale. A Genova nel 1855 era
stato premiato con menzione onorevole all'Esposizione industriale per
un cartello ed una cornice di zinco, nel 1863 aveva ottenuto la
medaglia d'argento all'Esposizione industriale di Cremona e nel 1864
all'Esposizione del Comizio agrario di Crema, mentre negli stessi
anni realizzava una navicella d'oro e d'argento raffigurante la città
di Cremona per il conte Cavour. Motta, come racconta Pizzi “studiava
la galvanoplastica, tentando altre vie”. Quali fossero, possiamo
immaginarcelo, dal momento che Pizzi nel suo racconto accosta Motta a
Segato, che “pietrificava i cadaveri” e a Gorini, “ricco
professore di Lodi” che “studiava ed operava alla conservazione
dei cadaveri”, che per questo era riuscito ad ottenere dal Governo
il “cavalierato e la pensione di L: 2500”. Intanto “Motta
studiava esperienze”, racconta Pizzi, seguendo da vicino gli
esperimenti di Gorini “e toccando della sua gran ricerca della
Metallizzazione dei cadaveri, parve accennare che producendo una
certa temperatura intorno al pezzo anatomico ci lo conservi e difenda
dalla putredine. E questa temperatura osservò qual'è nel ghiaccio
ordinario, e che s'accresce unendo al ghiaccio il sale, e che si
moltiplica a dismisura con altri silicati, i quali in parte si hanno
in commercio, altri invece no, e sono o un preparato dei chimici, o,
per quelli ch'egli adopera nelle sue operazioni, una composizione e
un segreto tutto suo”. Ma Motta, per proseguire le sue ricerche, ha
bisogno di risollevarsi dalla crisi finanziaria in cui è caduto.
Divulgare il suo segreto non avrebbe senso, è l'unico asso nella
manica che possiede per aspirare ad ottenere quella pensione che gli
potrebbe consentire di vivere serenamente. Ed ecco allora che, come
ultima spiaggia, si rivolge a Pizzi. “Gli articoli di giornali non
mi fan nulla – dice – Io avrei bisogno di trarmi la spina dal
piede e poi saprei ben io camminare da me. Avrei bisogno sanare i
miei debiti, ridivenire tranquillo, avere mezzi bastevoli, poi: ecco
la via. Interessare un Accademia alla Metallizzazione del
Bassorilievo invicto (era un lavoro che Motta aveva proposto al
Seleroni, ndr)
oppure in quella d'un Bambino. Fare constatare dall'Accademia in
tutti i modi l'oggetto nello stato di natura, poi presentarlo
metallizzato. Quando l'Accademia abbia riconosciuta per mia l'opera,
per mio il segreto, va constatarne la proprietà in faccia
all'Europa, ed a qualsiasi, allora vi sono anche disposto a spiegare
il mio metodo e insegnare eziandjo all'Accademia anche tutte le mie
memorie delle mie esperienze e le copiose note. Tanto più che allora
avrei anche provveduto alla mia esistenza, dappoichè per legge,
colle scoperte ho un diritto alla pensione”.
Pressato
dalle insistenze di Pizzi, Angelo Motta qualcosa aveva, in realtà,
già rivelato all'amico: “Ma come ridurre a carbonato la carne,
volendone pure conservarne l'anatomia, le forme, l'identità, siccome
anche gli è riuscito in molti esperimenti? - si chiedeva Pizzi –
Coll'isolamento dall'aria. Egli chiude ermeticamente il corpo in un
suo apparecchio. Poi vi lavora con gli acidi a carbonarlo, ossia,
forse, ridottolo colle temperature ad uno stato momentaneo di
pietrificazione, lo circonda cogli acidi, lo isola dall'aria,
preparatevi attorno le punte dei conduttori elettrici, poi lo
riscalda e da luogo consecutivamente alle due operazioni,carbonare e
metallizzare la quale seconda è anche lenta e lunghissima”:
La lettera di Garibaldi a Motta (Archivio di Stato di Cremona) |
Con
questo sistema, al momento dell'incontro con Pizzi, il 23 agosto
1868, Motta aveva già metallizzato un cranio coi denti e la
mascella, la mano di una bambina, “ma – aggiunge Pizzi - temo non
la mano reale, sibbene per tipologia”; otto mani umane “ben
naturali, vantaggiando sempre nella semplicità e nella precisione”;
una testa di uomo “che gli riescì con un difetto nelle orecchie
che s'erano molto ristrette, ed un buco li presso per bruciatura
d'una corrente elettrica apertasi ivi”, ed una di una ragazzina
dodicenne. Ma poi accade un fatto destinato a pesanti conseguenze.
“Ei temeva – racconta Pizzi – però che nell'interno i cervelli
non fossero ridotti a perfezione e però aperti, avessero a tradire
il segreto dei suoi apparecchii”. E' un periodo di grave crisi
finanziaria, il creditori bussano alla porta, ed uno di essi, un
certo Donati per una cambiale scaduta spedisce nell'appartamento del
Motta ammalato due giovinastri, certi Barbarina e Furini, che
sequestrano tutto quello che riescono a recuperare. E' in quel
momento che Motta, seppur sofferente, temendo che possano scoprire il
suo segreto, in piena notte si alza dal letto e scioglie nell'acido
tutti gli oggetti metallizzati che in quel momento si trovano nel suo
laboratorio.
Qualche
anno dopo, nel 1871, Motta si trasferisce a Torino, dove tutti lodano
la metallizzazione della mano di Garibaldi, «quella mano che par
viva e ognora spirante i fremiti dell’eroe battagliero e i sussulti
del vincitore», che però poi risulta finta, un modello ricoperto di
rame, come conclude una severa commissione del Ministero della
Pubblica Istruzione nel 1880. Motta prima dice alla commissione che è
vero, che in realtà non fa altro che rivestire i corpi di metallo,
senza metallizzarli completamente, ma subito dopo invia al Ministero
una sua piccata e irosa protesta, in cui si rimangia tutto e dice
che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto metallizzare davvero
qualunque cosa. In una relazione consegnata personalmente al re
Umberto in un'udienza concessagli al Quirinale il 1 febbraio 1880,
Motta insiste: “Io posso affermare che la metallizzazione è
completa, ciò che è ben diverso dal galvanismo, il quale si arresta
alla superficie dei corpi. La sostanza prima è appieno scomparsa.
Coll'uso delle correnti elettriche, dei liquidi e dei solidi da me
preparati, coll'uso della pila, coll'apparecchio d'altre forze, messe
in relazione con un dato processo, l'oggetto passa da una sostanza
all'altra, il corpo da metallizzare è, si può dire, come assorbito
da una sostanza metallica, per cui della sostanza primitiva non
rimane che la forma, e questa poi nella più perfetta naturale
configurazione, meno il peso ed il colore che si può applicare
poscia a piacimento. In una parola, rimane tutto l'organismo naturale
del corpo, colla perfetta e, direi, matematica conservazione di forme
anche microscopiche. E questo è appunto il risultato vagheggiato dai
miei desideri ed al quale diressi tutto lo sforzo della mia
pochezza”. Motta riesce a convincere il re che gli conferisce la
croce di cavaliere dell'Ordine mauriziano, riesce a convincere Paolo
Gorini che scrive una sua difesa appassionata, il dottor Gioachino
Stampacchia, che pubblica un articolo sulla Gazzetta di Torino del 24
settembre 1877. Comunque passano gli anni, la sua fama cresce, anche
se il suo «mirabile trovato» rimane un enigma; Motta sta male,
promette di scrivere nel testamento il segreto della sua
metallizzazione per la «dilettissima Cremona», ma alla fine,
ovviamente, se lo porta nella tomba. Un anno dopo il suo strenuo
detrattore, Giuseppe Amadei, scriverà che la sua metallizzazione
«non è un fatto di fisica o di chimica, ma un fenomeno psicologico»
o un’idea, equiparabile alla ricerca della pietra filosofale degli
alchimisti. E Motta è appunto «un alchimista de’ nostri giorni»,
portatore di un’“idea fissa”, un “delirio di grandezza”, e
una “cocciutaggine nevrotica”.
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