Donne slave internate al campo delle Fraschette |
Si tratta di un episodio sfuggito
all'attenzione degli storici locali, ma in provincia di Cremona, nel
periodo compreso tra il 1942 ed il 1945, sono esistiti anche dei veri
e propri campi di internamento destinati agli oppositori del regime,
veri e propri centri di raccolta per coloro inviati poi al famigerato
campo di concentramento delle Fraschette di Alatri, campi di lavoro
per i prigionieri di guerra, e campi di internamento destinati agli
stranieri ritenuti nemici dello stato, per lo più di origine greca.
La ricerca storica, di cui si possono trovare i primi risultati sul
portale www.campifascisti.it, è ancora all'inizio e di questi ultimi
si conoscono solo i nominativi ed i luoghi di internamento, contenuti
in un elenco della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza,
Divisione Affari Generali e Riservati del 6 dicembre 1944, conservato
all'Archivio Centrale dello Stato tra i documenti della Croce Rossa
Italiana, riguardante gli internati stranieri e lo spionaggio tra il
1939 ed il 1945. Sappiamo dunque che ad Izano era internata una
famiglia di nazionalità inglese, costituita da Arturo Alves, sua
moglie Giuditta Danenberg e la loro figlia Elsa, provenienti da Hong
Kong; a Pandino era sorvegliato speciale Panajotis Mauridis, greco
nato in Turchia; a Soncino risiedevano altri tre greci ariani:
Giovanni Monastiriotis di Corfù, Giorgio Karanicas di Arta e
Costantino Ragopulus di Patrasso; a Robecco d'Oglio erano sorvegliati
due greci ariani, Giorgio Kafritsas di Karditsa e Nicolas Kuniadis di
Chios e un americano, Antonio Perniciaro; altri due greci erano a
Soresina, Giovanni Sakellaropulos di Santavlese e Pericle Katsanos di
Larissa; Costantino Princos di Valos a Pescarolo; all'ospizio di
Vescovato Sottirio Dejannis di Chalia e Giorgio Hagiantoniu di
Smirne; a Piadena Giovanni Giannopulos di Lafco e Panajiotis
Nicolacakos di Chidio; ed infine a Casalmaggiore era internato
Kiriakos Vorvis di Spartis. Per i quattordici internati greci il 3
aprile 1945 il Ministero delle Forze Armate dette il parere
favorevole allo scambio con gli 84 prigionieri italiani degli
equipaggi delle due pirocisterne Taigete ed Arcola catturati dagli
alleati ed internati a loro volta a Capo Verde. Da un documento di un
mese prima del Capo della Polizia della Repubblica Italiana relativo
alla possibilità di effettuare questo scambio, veniamo a sapere che
gli stranieri appartenenti a stati esteri internati nel territorio
della RSI erano 229. Non sappiamo se tutti gli stranieri internati
nel cremonese rientrarono poi nello scambio proposto.
In provincia di Cremona esistevano
anche altri due campi di lavoro per prigionieri di guerra a Torlino
Vimercati e a Trigolo. Se ne parla in un documento dello Stato
Maggiore, ufficio prigionieri di guerra,
del 12 marzo 1943, senza, peraltro che venga specificato da quale
centro dipendessero. Cinquanta prigionieri erano destinati
all'azienda agricola del cavalier Fortunato Marazzi a Torlino e 60
alla ditta Guerrini e Ronchetti di Trigolo.
Una vecchia foto dell'ospedale Germani a Cingia de' Botti |
Ma
la località di internamento più importante della Provincia era
Cingia de' Botti. Infatti secondo un documento segreto dello Stato
Maggiore del reale Esercito, Ufficio protezione impianti a difesa
Antiparacadutisti del 3 settembre 1942, nell'ospedale della frazione
di Pieve Gurata sarebbero stati internati 72 congiunti di ribelli del
Carnaro deportati dai territori della provincia annessa di Fiume,
affidandone la sorveglianza a sette militari della stazione dei
Carabinieri: “Risulta, inoltre – scrive il Capo dell'Esercito
Vittorio Ambrosio - che per altri elementi del genere sarebbero in
corso provvedimenti di sgombero e sistemazione nel Regno con modalità
analoghe. Pur condividendo l'opportunità dell'allontanamento dalla
Venezia Giulia dei congiunti dei ribelli, non sembra che la sua
attuazione, con le modalità suaccennate, offra tutte le garanzie che
appaiono neessarie e ciò perchè trattandosi di individui da
considerarsi pericolosi, siccome aderenti e facenti parte di vere e
prorpie organizzazioni a noi contrarie, particolarmente sviluppate
nei territori della frontiera orientale non è da escludere che,
lasciati relativamente liberi, anche se vigilati, possano cercare di
concorrere ad atti di sabotaggio ed attentati promossi dalle
organizzazioni stesse, svolgere facile propaganda ai nostri danni,
(specie verso i contadini e le classi meno colte) e,
comunque,dedicarsi ad attività incontrollate, in collegamento con le
ripetute organizzazioni sia direttamente sia per corrispondenza (dato
che questa ultima, con la sistemazione in esame, può assai
facilmente eludere da censura. Quanto sopra – conclude Ambrosio –
m'indusse a prospettare a codesto Ministero l'opportunità di
raccogliere gli elementi in questione in appositi luoghi di
concentramento, fuori dal contatto con la popolazione civile ed
adeguatamente vigilati dalle forze di polizia”. Il generale
Ambrosio, d'altronde, conosceva bene la situazione dei territori
occupati, in quanto aveva partecipato alle operazioni sul fronte
jugoslavo ottenendo in pochi giorni notevoli successi personali che
gli procurarono la nomina a Commendatore dell'Ordine militare di
Savoia e, all'inizio di quell'anno, la nomina a Capo di Stato
Maggiore dell'Esercito.
Tuttavia,
la Difesa
Territoriale di Milano, sotto
la cui giurisdizione ricade anche il territorio del comune
di Cingia de' Botti, considera
non adeguata la sistemazione degli internati in quanto vi è troppo
contatto con la popolazione civile, e propone al Ministero
degli Interni di
trasferire i "congiunti di ribelli" in un campo
di concentramento.
Il 24 ottobre 1942 l'Ispettorato per i servizi di guerra del
Ministero dell'Interno rispondendo alle osservazioni del Capo di
Stato Maggiore informa che ha
interessato la Prefettura di Milano affinché i congiunti di ribelli
vengano internati nei ricoveri di mendicità della provincia, onde
limitare la loro libertà di azione e assicurare una conveniente
sorveglianza. “Disposizioni analoghe – scrive il prefetto
Giuseppe Stracca, ispettore per i servizi di guerra – sono state
impartite per la sistemazione degli sfollati dalla frontiera
orientale avviati in altre Provincie del Regno. E poiché lo stesso
Stato Maggiore del Regio E. aveva, nei primi giorni del mese in
corso, richiesto a questo Ispettorato ed alla Direzione Generale
della Pubblica Sicurezza di provvedere alla ricezione e sistemazione
nella penisola di altro contingente di sfollati, ammontante a circa
50 mila unità, il problema è stato oggetto di nuovo, attento esame
sotto l'aspetto politico-militare.
L'incendio di un villaggio jugoslavo |
In
un appunto al Duce, di cui si unisce copia -aggiunge Stracca –
questo Ispettorato pose in evidenza che detti elementi costituivano
un serio pericolo per la compagine politica e per l'ordine pubblico
del Paese e rappresentò la opportunità che quelli pericolosi e
sospetti dovessero essere mantenuti nei Campi di concentramento di
cui dispone la stessa Autorità Militare. Questo Ispettorato avrebbe,
tutt'al più, potuto provvedere alla ricezione e sistemazione nelle
Provincie delle sole popolazioni che avevano chiesto la nostra
protezione, delle donne abbandonate da mariti e dei bambini rimasti
privi di assistenza da parte dei loro congiunti. Questi stessi
concetti confermò il rappresentante di questo Ispettorato nella
riunione tenutasi il giorno 3 corrente mese, presso il Comando
Supremo – Ufficio Affari Generali, Reparto III, per l'esame delle
questioni relative alla sistemazione degli internati civili sgombrati
dai territori della frontiera orientale in seguito ad azioni di
polizia militare”.
In
un'altra nota della Direzione di Pubblica Sicurezza si osserva che
“dato l'intenso, continuo afflusso dalle nuove Provincie e dai
territori occupati d'internandi politicamente pericolosi, i campi di
concentramento sono quasi completamente saturi e pertanto non si ha
alcuna possibilità di sistemare le persone succitate nei campi
stessi: si soggiunge che i vari comuni del Regno e le altre località
a disposizione dell'Ispettorato dei Servizi di Guerra sono del pari
quasi interamente sature e soltanto con grandi difficoltà si è
riusciti finora a sistemare le persone di cui sopra nelle pochissime
zone rimaste disponibili. Si soggiunge infine che recentemente questo
ufficio, in dipendenza delle difficoltà di cui sopra, ha dovuto
rispondere in senso negativo ad una richiesta del Comando Supremo
tendente ad immettere nei campi di concentramento per internati
civili 18000 elementi sospetti rastrellati dalle autorità militari
nel corso delle operazioni effettuate nelle nuove provincie e nei
territori occupati. Si assicura tuttavia che gli elementi di cui
sopra, destinati nei vari comuni del Regno, sono sottoposti ad
opportuna vigilanza da parte degli organi di polizia”.
Sembra
che a Cingia de' Botti gli internati fossero alloggiati presso un
istituto ospedaliero, ma certamente lo fu un gruppo di altri 27
familiari di ribelli che arrivò a Cremona il 28 luglio 1942 e due
giorni dopo venne internato presso l'Ospedale Germani, come si
apprende da una nota della Prefettura all'Ispettorato Servizi di
Guerra del 23 novembre 1942: “Si precisa che il secondo gruppo di
27 congiunti di ribelli giunto a Cremona il 28 luglio senza alcun
preavviso, venne trattenuto fino al 30 detto (epoca in cui venne
sistemato presso l 'Ospedale Germani di Cingia de' Botti) per
stabilire se trattavasi di congiunti di ribelli e quindi da
internare, oppure di amici dell'Italia e quindi da proteggere e
sistemare in Cremona”.
L'hotel Al Parco di Lovran |
Non
è nota l'identità di questi internati ed il loro destino, se non di
alcuni di essi. Una di questi, Eleonora Mateicic, come informa una
nota della Prefettura del Carnaro alla Direzione Generale per i
Servizi di Guerra del 12 gennaio 1943, aveva chiesto di essere
inviata all'internamento presso i fratelli Zvonimir e Mario che, dopo
essere stati arrestati a Podhum. erano stati inviati prima nel campo
di concentramento provvisorio di Lovran nei pressi di Fiume e poi a
Cingia de' Botti. La Prefettura spiega che “allo scopo di prevenire
la possibilità che la predetta possa, spinta dal bisogno, svolgere
attività deleteria, si propone che venga internata nel predetto
comune per riunirsi ai suoi familiari”. Il Ministero
dell'Interno si dice d'accordo con la proposta di internamento, ma
poco prima della partenza di Eleonora Mateicic per Cingia
de' Botti dove dovrebbe ricongiungersi con la famiglia,
il prefetto di Cremona con un telegramma urgente prega di
sospendere il trasferimento perché tutti gli internati di
Cingia de' Botti stanno partendo per il campo di
concentramento Le Fraschette di Alatri.
Il
periodo dell'internamento all'Ospedale Germani è allietato anche da
nuove nascite: Antonia Ban, che fa parte del secondo gruppo, ha dato
alla luce il 4 dicembre 1942 una bimba cui viene dato il nome di
Palmira e Maria Valeria, due giorni dopo, la piccola Angela Marsanic.
Sempre il 6 dicembre Elisabetta Grabar dal Germani viene trasferita
al reparto maternità dell'Ospedale Maggiore. I neonati vengono
aggiunti al gruppo degli sfollati ed assistiti anch'essi con una
retta di 7 lire al giorno. Di altre donne si conosce solo il nome:
Bozica e Ivka Ban, Angela Darinka e Gorina Grabar, Giovanna Hatesic,
Giuliana Klic, Barbara e Caterina Kukulian. Elvira Juretic, Caterina
Lukesic, Albina Marsanic, Luigia e Maria Mateicic, Maria Skaron,
Maria e Mattea Simon, Susanna Sudan, Ljuba Zmarich, Francesca e
Vittoria Zoretic.
Il
20 gennaio 1943 arriva alla Prefettura con telegramma l'ordine del
Sottosegretario all'interno Guido Buffarini Guidi perchè le famiglie
dei ribelli vengano fatte accompagnare al campo di concentramento di
Fraschette in provincia di Frosinone mantenendo intatti i nuclei
familiari ed escludendo solo quelli che abbiano trovato
un'occupazione stabile, e contemporaneamente l'invito alla Prefettura
di Frosinone di comunicare alla direzione del campo l'arrivo di
complessive 400 persone. Come informa un successivo telegramma della
Prefettura di Frosinone, il 4 febbraio gli internati cremonesi erano
arrivati a destinazione e fatti proseguire con i loro bagagli per il
campo di Le Fraschette. Tra di loro non vi era Eleonora Mateicic che
nel frattempo aveva trovato lavoro presso la famiglia del tenente
colonnello Giuseppe Maltese, giudice del Tribunale di Guerra di
Fiume, ed aveva di conseguenza rinunciato a raggiungere i due
fratelli internati a Cingia de' Botti, ed ora, siamo all'11 febbraio
1943, trasferiti nel campo Le Fraschette di Alatri.
La
maggior parte degli internati a Cingia de' Botti provenivano dal
campo di concentramento di Lovran, istituito presso il Park
Hotel, una struttura alberghiera di 500 posti requisita
dalla prefettura di Fiume, presso di cui passarono, per tutto il
tempo in cui rimase in funzione, circa tremila civili internati,
molti di questi sgomberati dal villaggio di Podhum. Qui, il 12 luglio
1942, i soldati italiani al comando del maggiore Armando Goleo, per
ordine del prefetto della Provincia del Carnaro Temistocle Testa
avevano fucilato in un campo ai piedi della collina, almeno duecento
abitanti del villaggio, che fu poi dato alle fiamme. I fucilati erano
maschi per lo più dai 16 ai 64 anni. I bambini, i vecchi e le donne,
cioè l’intera popolazione del paese, furono deportati nei vari
campi di internamento in Italia, dai quali parecchi di loro non
fecero più ritorno. Molti dei cognomi delle donne internate a Cingia
de' Botti, ricorrono anche nelle lapidi di bronzo sul muro di cinta
del Parco delle Rimembranze di Podhum: Ban, Grabar, Hatesic,
Kukulian, Marsanic, Mateicic, Skaron. L’eccidio fu compiuto,
secondo Testa, per vendicare sedici soldati uccisi dai ribelli di
Podhum nella prima decade di luglio, mentre fonti del Fascio di Fiume
puntarono il dito, all’epoca, sulla morte di due maestri
elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, il 16 giugno 1942,
mandati dal regime fascista nelle terre occupate e annesse per
italianizzare gli slavi. Secondo le fonti partigiane i due maestri
elementari vennero fucilati il 14 giugno, dopo un processo sommario,
per attività di spionaggio condotta dai coniugi Renzi contro il
Movimento di Liberazione. I due maestri, peraltro, erano malvisti,
anzi odiati dalla popolazione di Podhum per le dure e immeritate
punizioni e i maltrattamenti inflitti ai bambini loro affidati solo
perchè faticavano ad imparare l'italiano.
Il campo Le Fraschette di Alatri |
Il
campo delle Fraschette di Alatri, dove vennero trasferiti i 79
internati di Cingia de' Botti, era stato invece progettato
nell’aprile del 1941 per ospitare 7.000 prigionieri di guerra, ma,
dato il difficile problema di trovare una sistemazione alle migliaia
di sfollati, il Ministero degli Interni decise presto di destinarlo a
questo uso. Alla fine prevalse l'uso campo di internamento per
migliaia di slavi che venivano deportati per rappresaglia contro
l’attività partigiana. La gestione dell’internamento, però, fu
affidata non alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, bensì
all’Ispettorato Generale per i servizi di guerra. Ciò consentiva
al governo di risparmiare il versamento del sussidio di L. 6,50 al
giorno per ogni internato. Per questo all'interno del campo si pativa
la fame, e si mangiava solo, da parte degli slavi, la brodaglia
preparata dai militari. Diversa era invece la situazione per i non
numerosi internati anglo-maltesi che venivano assistiti dalla Croce
Rossa svizzera. Traccia chiarissima del trattamento riservato agli
slavi risulta dalla consultazione dei registri di morte, da cui
risulta che moriva, in percentuale, il 95% di internati slavi, quasi
ogni giorno, dai due mesi di età agli 89 anni. Nel luglio 1943 su
1.162 “dalmati” presenti nel campo, circa 500 erano bambini,
quasi tutti orfani. Gli internati erano civili, familiari di
“ribelli” slavi, tenuti in ostaggio per convincere i partigiani a
rinunciare alle loro attività in cambio del ritorno a casa degli
internati. Dopo l’8 settembre, il venir meno della vigilanza
consentì a molti internati di fuggire, e, nel novembre dello stesso
anno, le SS tedesche imposero al governo di Salò il trasferimento
degli ultimi rimasti al campo di Fossoli, presso Carpi. Gli slavi,
però, avevano avuto modo, per la massima parte, di tornare
fortunosamente e faticosamente a casa, visto che ai tedeschi il loro
destino non interessava.
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