venerdì 1 aprile 2016

L'affaire Caracosa


Ebrei in un quadro di Jan van Aick
I rapporti tra le comunità ebraiche e i cristiani furono sempre abbastanza tesi, nonostante che il duca di Milano Francesco Sforza nutrisse per gli ebrei una particolare predilezione. Già nel 1387 Gian Galeazzo Visconti aveva concesso ad alcuni di essi di vivere entro i confini del ducato, purchè risiedessero separati dai cristiani. Da Pavia, dove si insediò una nutrita comunità, i mercanti ebrei si trasferirono nel cremonese e a Soncino, dove peraltro erano già stati diffidati dal rimanere fin dal 1393, fondarono una tipografia dalla quale uscì, nel 1488, una superba edizione della Bibbia. Qualche anno prima, nel 1456, il duca aveva emesso dei capitoli nei quali concedendo ospitalità alla popolazione ebraica, fissava anche alcune norme di convivenza con gli abitanti cristiani. Tra queste norme una, in particolare, faceva obbligo agli ebrei di portare un distintivo e condannava nella maniera più categorica i matrimoni con i fedeli dell'altra religione. La vicenda che raccontiamo, tratta dai documenti conservati all'Archivio di Stato di Milano, interessa proprio quest'ultimo punto e, nella sua crudezza, ci offre uno spaccato vivo e drammatico di quell'epoca.
Caracosa, la giovane ebrea figlia di David di Castelnuovo Scrivia, nei pressi di Tortona, e moglie di Salomon, banchiere di Viadana, era sicuramente molto bella. I documenti e le lettere ducali che permettono di ricostruire la sua storia non ne parlano, ma di lei si era perdutamente invaghito un certo Filippo Gallina, cristiano che bandito da Pavia, aveva trovato rifugio nel paese di Sale, in provincia di Alessandria.
Non sappiamo quando Filippo vide la giovane ebrea per la prima volta. Certamente la conosceva, ma, viste le proibizioni in vigore, nutriva la sua passione in segreto, da lontano, passando in rassegna le varie possibilità per scavalcare i regolamenti e far sua la ragazza. Quella mattina dell'autunno del 1468 decise di entrare in azione: il piano che lungamente aveva architettato non poteva fallire. La storia che egli aveva costruito per giustificarsi di fronte alla legge poteva benissimo reggere e la sua parola valeva quanto quella dell'ebrea, e poi si sa, i cristiani odiavano gli ebrei perchè usurai. Ne sapeva qualcosa anche il vescovo di Cremona Giovanni Stefano Bottigella, originario di Pavia, che contrasse un prestito di 8000 lire all'interesse del 30% ed inoltre anche i nuovi regolamenti del duca non confermavano forse che gli ebrei, per la loro colpa di aver crocifisso Cristo, erano condannati alla servitù nei confronti dei cristiani?
Venuto a sapere che Caracosa, dopo essersi recata a trovare il padre a Tortona, si era messa in viaggio alla volta di Viadana ed era prossima a raggiungere Sale, Filippo chiese al podestà che fosse arrestata per averlo tratto in inganno: gli aveva infatti promesso che si sarebbe convertita al cristianesimo e lo avrebbe sposato, ripudiando, insieme alla religione, anche il marito. Ma qualcosa nel piano non funzionò. Fu riconosciuta l'infondatezza delle affermazioni e la ragazza, dopo essere stata liberata, potè raggiungere il marito. Ma le peripezia di Caracosa non erano finite.
La Pasqua ebraica in una miniatura
Una volta a Viadana, Filippo tornò alla carica facendola nuovamente arrestare e conducendola prigioniera a Mantova, dove fu salvata, questa volta, dall'intervento del marchese Ludovico Gonzaga, grande protettore degli ebrei. Da una lettera spedita da Vigevano il 14 febbraio 1469, veniamo però a sapere che la rocambolesca vicenda era giunta ad un epilogo inaspettato, con l'intervento anche del vescovo di Cremona Bottigella che prestando fede alle accuse rivolte alla ragazza, l'aveva fatta rinchiudere nel convento cremonese di San Benedetto in attesa che tutta la faccenda fosse chiarita. Evidente nessuno si era sognato di credere alla parole della sventurata ragazza. Da questo momento la corrispondenza si fa fitta: da una parte l'ebreo Madius (Meir) di Castelnuovo si appella al duca, perorando i diritti di Caracosa e, poco dopo, anche il padre e il marito della ragazza gli si rivolgono esponendogli nuovamente i fatti e, tra l'altro, pregandolo di provvedere perchè riceva cibo casher, mentre è segretata in convento a Cremona. Lo stesso duca esorta il vescovo di Cremona a non forzarla alla conversione e a comportarsi conformemente alla legge. Dall'altra il vescovo sostiene di non aver in alcun modo forzato la giovane ad entrare in convento. Iniziano frattanto a diffondersi voci sul presunto battesimo della fanciulla che avrebbe preso il nome cristiano di Arcangela. Ma gli ebrei non demordono e si organizzano: contravvenendo alle disposizioni ducali che impediscono loro di mostrarsi in pubblico ed esercitare il commercio nei giorni della Passione di Cristo, il venerdì santo ed il sabato successivo inscenano una clamorosa protesta sotto le finestre del palazzo vescovile e davanti alle grate del convento di San Benedetto dove Caracosa, ormai divenuta Arcangela, è rinchiusa. Incoraggiano con grida la ragazza, la invitano a resistere e cantano anche un motivetto di vago sapore anticlericale che fa “hora che mai che fora sum, non voglio essere più monicha”. Immediata e veemente la reazione del vescovo: tutti gli ebrei cremonesi devono essere arrestati con l'accusa di voler plagiare la ragazza. Ma il rappresentante del duca a Cremona non si lascia trarre in inganno: convoca immediatamente il vescovo il 16 marzo e da questo viene a sapere che Caracosa è stata effettivamente battezzata da un laico e non con acqua benedetta, ma con semplice acqua di fonte. Il 30 marzo piovono sul tavolo del duca anche le lettere delle monache di San Benedetto che affermano che la ragazza ebrea si è convertita spontaneamente e le illazione e le proteste dei suoi parenti sono senza alcun fondamento. Ma una missiva spedita nel frattempo dall'arcivescovo di Milano ad un chierico cremonese non lascia dubbi: Caracosa è stata battezzata con la forza ed il duca vuol vedere chiaro nella faccenda. Ordina pertanto che la ragazza venga portata a Milano dove l'arcivescovo stesso ne sonderà la volontà. Il vescovo Bottigella tentenna, non ritiene giusto che si dubiti così della sua versione deo fatti quando, alla data del 13 aprile 1469 i sovversivi ebrei che avevano manifestato contro di lui girano ancora impuniti nella città!
A questo punto l'atteggiamento fermo del duca sembra vacillare. Dalle lettere traspare una certa incertezza: accontentare le richieste del vescovo o mostrarsi benevolente nei confronti degli ebrei implicati nella faccenda? E di Caracosa-Arcangela, che farne? L'affaire Caracosa sta diventando una patata bollente con cui diventa facole scottarsi.
Dai documenti d'archivio non sappiamo se la ragazza fu portata effettivamente a Milano, e tra le alternative che si presentavano al duca, questi scelse di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Fece dunque arrestare dal podestà di Cremona gli ebrei implicati nella protesta il 29 aprile 1469, dal momento che non poteva sottrarsi avendo violato una sua disposizione, ma li liberò il 6 giugno. Lasciò che fosse il commissario da lui incaricato ad appurare il vero svolgersi dei fatti e si limitò ad ordinare al vescovo di non forzare la conversione nell'abbracciare la nuova religione.
In un'altra lettera della stessa data, lo stesso commissario affermava di aver condotto l'inchiesta con la massima meticolosità e correttezza e, di conseguenza, la pratica poteva considerarsi archiviata.
Ancora il 10 agosto l'arcivescovo milanese, probabilmente non del tutto convinto, stava ancora indagando, ma il destino di Arcangela era ormai segnato: l'11 settembre, scrivendo al commissario di Parma, il duca confermava che Caracosa era oramai diventata cristiana a tutti gli effetti, il processo si era volto regolarmente e la ragazza, in attesa che il padre pagasse una dote di 250 ducati, sarebbe stata sistemata in un convento col nome, ormai definitivo, di Arcangela. Il nuovo marito sarebbe stato un cristiano. Pertanto la vicenda si concluse con la ratificazione del battesimo di Caracosa con il nome di Arcangela avvenuto nel frattempo e del suo matrimonio con un cristiano: di conseguenza, il padre, che aveva abbandonato Castelnuovo Scrivia per stabilirsi a Parma, ricevette ordine di fornire alla figlia una dote nuziale pari a quella data alle altre figlie rimaste ebree. Il governatore di Castelnuovo, data per acquisita la conversione della ragazza, obbligò il comune a consegnarle la cifra promessa, a suo tempo, se si fosse fatta cristiana.
Un’eco dell'episodio clamoroso della controversa conversione di Caracosa di Tortona si sentì anche a Fiorenzuola d'Arda nel 1469, quando il padre della ragazza, Davide, venne obbligato a rifondere al castellano di Fiorenzuola le spese contratte in occasione delle nozze della ragazza.
Ebrei francesi in un'incisione del XVIII secolo

Nel 1387 Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano, concesse ad alcuni ebrei di origine tedesca il privilegio di stabilirsi nelle sue terre, esercitandovi il commercio e l'attività feneratizia e godendo di uno status speciale: si veniva a creare, così, la base per il consolidarsi della presenza ebraica in varie località del ducato, tra cui Cremona], dove essa viene del resto segnalata, pur senza essere documentata, già dal 1278. I primi documenti riguardanti il nucleo ebraico cremonese sono degli atti notarili mantovani che attestano l'esistenza di un banco di prestito, tenuto da Bonaventura del fu Zanatano, Moisè del fu Giuseppe da Spira e Manuele del fu Matassia de Rocheto nel 1400. Poco più di quarant'anni dopo, nel 1441, Francesco Sforza concesse un privilegio con validità ventennale ad Isacco di Salomone de Iachar, in cui gli si permise di risiedere a Cremona esercitandovi liberamente la sua professione di medico e l'attività feneratizia, con una posizione di preminenza all'interno della Comunità ebraica locale. L'anno successivo troviamo testimonianza della sua fama come oculista, apprezzato dall'ambasciatore di Milano presso il duca d'Este. Interessante è rilevare che, pochi anni prima, era stata menzionata in alcuni atti notarili la figlia del de Iachar, in quanto convertitasi al cristianesimo, con conseguente separazione dal marito, rimasto ebreo, e situazione patrimoniale da regolare. Oltre a queste testimonianze sui singoli, troviamo, in svariati rogiti, anche notizie sull’intero gruppo ebraico residente a Cremona, di cui sono documentati il prestito su pegno e l'attività feneratizia a partire dal 1443, nonostante la decisione (peraltro di breve durata) di proibire l'usura, presa nello stesso anno da Francesco Sforza, che, nel 1448, a sua volta avrebbe tentato di regolare il proprio debito con gli ebrei a Cremona e che, nello stesso periodo, concesse ad altri ebrei di stanziarsi a C. come prestatori o agli israeliti cremonesi di spostarsi in altre città del Ducato. Contemporaneamente, sono documentate anche operazioni finanziarie di cristiani che si servivano degli ebrei per praticare l'usura, fornendo l'occasione, talvolta, a truffe da parte dei secondi. Negli anni Sessanta del XV secolo, quando l'opposizione della Chiesa alla presenza ebraica si fece sentire in tutto il Ducato, a C. troviamo il monaco Pietro che predicò contro di essa, mentre particolarmente virulento, nel 1468, fu l'atteggiamento del vescovo, che, tra l'altro, insistette per istituire l'obbligo del segno distintivo, imposto, in seguito, nel 1473, in tutto il Ducato, senza, tuttavia, essere applicato rigorosamente. Proprio dai rappresentanti della città di Cremona, poi, una cinquantina di anni dopo, partì la richiesta a Francesco II Sforza di inasprire la condizione degli ebrei imponendo loro, tra l’altro, l'obbligo del segno. Ovviamente, diversa era la condizione degli Ebrei convertiti, che coronavano gli intensi sforzi di proselitismo messi in atto dalla Chiesa: fu così che, ad esempio, nel 1480 con il denaro del legato di Bernabò Visconti in favore dei cristiani bisognosi, fu garantita una rendita mensile ad un ebreo cremonese, convertitosi con il nome di Dominicus Christiani. Quanto alle conversioni forzate, invece, va segnalata per la sua emblematicità quella di Caracosa, originaria di una località vicino a Tortona e sposa di un ebreo di Viadana, rinchiusa in convento e battezzata a forza dal vescovo di Cremona, nonostante l'opposizione del Marchese di Mantova, l'intervento del Duca di Milano e gli sforzi della famiglia per riaverla. Per protestare contro l'abuso, il Venerdì e il Sabato Santo del 1469, convennero di fronte al palazzo vescovile e al convento in cui Caracosa era stata segregata, gli ebrei locali e forestieri, ma la loro protesta non ottenne l'effetto sperato: dopo essere stati arrestati sotto l'accusa di aver tentato di far pressioni sulla convertita perché tornasse all'ebraismo, essi furono graziati dal Duca. Tuttavia, l'ostilità popolare, fomentata dalla Chiesa, portò ad una serie di moti anti-ebraici che, infine, sfociarono nell' accusa di vilipendio alla religione cristiana, mossa contro un folto gruppo, dalla quale prese le mosse, presumibilmente, Ludovico il Moro per decretare, il 3 dicembre 1490, l'espulsione di tutti gli israeliti dal Ducato. Il provvedimento, però, non venne applicato subito, ma posticipato al 1492 e, anche dopo questa data, troviamo degli ebrei residenti nelle terre ducali, tanto che, nel 1493, venne pubblicamente proibito loro di prestare ad usura e di esercitare qualsiasi altra attività, compresa la medicina. Con tutta probabilità, gli ebrei di C. seguirono la sorte degli altri correligionari del ducato: il Duca, pur opponendosi alla loro residenza nelle proprie terre, sembrò, tuttavia, propenso a concedere loro di soggiornarvi di tanto in tanto per venire incontro ai problemi finanziari della popolazione.

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