D'altronde Farinacci sa benissimo di non capire nulla di film, nonostante il suo ruolo di soggettista e supervisore, e di conseguenza lascia correre in vista di conseguire l'obiettivo. “Che Farinacci perdonasse – osserva malignamente l'articolista di “Oggi” - era logico. Egli, ormai, non viveva che per quella «sua» Redenzione e qualsiasi cosa gli attori gli avessero domandato, l'avrebbero ottenuta. La sua casa, che non era davvero ospitale, era aperta a tutti, artisti, regista, personale di direzione. E di riflesso, le case di tutti i gerarchi fascisti erano schiuse a quelle persone. Le quali ne approfittavano e come... Erano venuti, in tanti, a Cremona quasi morti di fame; in pochi giorni si erano arricchiti. Erano giunti sconosciuti o quasi, si eran viste aperte le porte delle dimore più invidiabili. Chi li teneva più?“.
Fino a quando, dopo quasi quattro mesi di feste, pranzi e ricevimenti a casa Farinacci, qualcuno, sostenendo una fatica improba, prova ad insinuare qualche dubbio al ras, il quale, dopo aver ascoltato, presa carta e penna, scrive al ministro Pavolini per aver qualche informazione su chi sia effettivamente Albani, questo astro nascente del cinema italiano, ed uno dei più assidui frequentatori della sua casa insieme alla sua moglie romana, oriunda cremonese. La risposta del ministro non si fa attendere. Arriva un telegramma firmato dallo stesso Pavolini, che, a proposito del regista, lo definisce: “sedicente avvocato, sedicente giornalista, sedicente (pare un sogno!) ambasciatore d'Italia ad Atene, era stato condannato a due anni di reclusione per maltrattamenti alla legittima moglie ed abbandono dei figli”. Farinacci è indignato e si lascia andare ad una delle sue proverbiali sfuriate: convoca Milanesi e gli chiede urlando se quella era davvero una persona da portare a Cremona, a casa sua! Milanesi si difende come può spiegando che a suo tempo non aveva avuto né il tempo né i mezzi per informarsi ed, in fondo, ribatte, era colpa di Farinacci se aveva atteso tutto quel tempo per assumere notizie al suo riguardo. Farinacci risponde per le rime: scaccia Milanesi ed ordina ai portieri del giornale e della Federazione del fascio di non permettergli mai più di presentarsi a lui.
Milanesi è avvilito, non avrebbe potuto ricevere un colpo peggiore di questo alla sua credibilità. Il suo rapporto con il ras, a cui è sinceramente affezionato, è irrimediabilmente incrinato. Oltre tutto non va più neppure d'accordo con gli altri colleghi dell'amministrazione e con lo stesso regista del film che, intuisce, vogliono liberarsi di lui al più presto. La sua lite con Farinacci rischia di recare un danno enorme alla produzione ed, in qualità di direttore, ha mostrato tutti i suoi limiti. Senza invitarlo i soci convocano una riunione del consiglio di amministrazione nel corso della quale gli revocano il mandato e gli propongono di cedere il suo pacchetto azionario. L'assemblea straordinaria della Marfilm, convocata l'11 maggio 1942 nella sala del Teatro Ponchielli, ratifica le dimissioni dell'amministratore unico e la nomina di uno nuovo, e approva il trasferimento della sede sociale da Roma (via Crescenzio, 69) a Cremona. (Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, foglio delle inserzioni n. 99, 25 aprile 1942 -XX). Milanesi non sarà stato certo un granchè come direttore di produzione, ma indubbiamente ha un certo fiuto per gli affari. Da tempo ha capito che la Marfilm non naviga in buone acque, e, dopo aver nicchiato per un poco, accetta l'offerta di cedere il proprio pacchetto di azioni: le aveva pagate 300 mila lire e le rivende con un premio di 60 mila, prendendo in aggiunta altre 50 mila lire per il suo compenso di direttore di produzione. Intasca il tutto e se ne va.
Intanto la lavorazione del film procede tra le schioppettate, con litigi tra artisti e regista, tra tecnici ed ispettori, tra comparse, mentre la casa di distribuzione Artisti Associati, deve decidere come collocare la pellicola a Cremona ed a quale sala cinematografica dare la preferenza. La discussione è animata ma, alla fine, si decide salomonicamente di non scontentare nessuno e proiettare “Redenzione” contemporaneamente in tutti e quattro i cinema cittadini. Restano da definire i tempi della programmazione: c'è chi sostiene che siano necessari almeno quindici giorni per promuovere degnamente il film, altri, più ottimisti, pensano ad un mese intero. Il rappresentante della casa noleggiatrice tratta direttamente con Walter Sacchi per il “Politeama”, che, molto diplomaticamente, spiega: “Io da mesi non sognavo che proiettare nel mio teatro la vostra Redenzione. Vi assicuro che il pensiero che altri l'avessero, e io no, non mi faceva dormire. Direte che sono invidioso, ma cosa volete...Ma ero tanto lontano dal pensare che mi faceste una offerta così gradita che...Debbo pur dirvelo: per sei mesi almeno ho tutte le date occupate, sia con pellicole (e questo non importerebbe niente, perchè si potrebbe sempre spostare) che – ed ecco il male – con compagnie teatrali e di varietà che mi farebbero pagare fior di penale...Quindi è con il cuore in gola che debbo rispondervi che proprio non posso...”.
Non resta che iniziare il giro delle altre sale cinematografiche. Tocca al Supercinema dove la proposta è preceduta da un lungo preambolo: “Vede come Sacchi non sa fare i suoi interessi? Piuttosto che pagare una penale, ha preferito rinunciare a tanto affare!”. Ma il risultato non è differente: «Ma perchè non me l'avete detto prima? - risponde una delle sorelle Ferrari – Sono dei mesi, ormai, che questo film si gira. E dopo tanto tempo, io non speravo più di avere una proposta così lusinghiera. Pensare che per settimane e settimane non ho atteso niente altro...Ma, voi mi capirete...Debbo anch'io pensare ai miei interessi...Per l'epoca nella quale voi sarete pronti, io ho dei contratti assolutamente inderogabili. Capirete...film di prima visione assoluta...Se perdo quelle date, quando mai potrò tornare a programmare? Quando li avranno già proiettati in tutta Italia».
Restano solo altre due possibilità. Ma anche Anita Calza, gestore dell'Italia, declina la proposta di programmare “Redenzione” per ben due mesi. «Fosse vero! Ma come vi par possibile proiettare un film di tanta importanza in un locale relativamente piccolo...Noi saremmo tanto lieti di lanciare Redenzione, ma abbiamo paura che per noi l'onere sia troppo grave». «Ma se avete proiettato dei colossi, ma...», «Non c'è ma...E' proprio così...». Non resta che il cinema Littorio (poi Roxy e Tognazzi), dove Redenzione va in scena a partire dalle 15 del 28 ottobre 1942; il Supercinema ha in programma “Scarpe grosse” con Amedeo Nazzari e Lilia Silvi, all'Italia danno “Appuntamento alle cinque” con Michael Bartlett mentre al Politeama Verdi c'è una rivista di avanspettacolo.
All'indomani il “Regime Fascista” parla ovviamente di un grande successo, anche se la recensione è confinata nella piccola rubrica degli “Echi di cronaca”: “Alla presenza di un foltissimo pubblico è stato ieri presentato, vivamente atteso il film Redenzione che, per la notorietà della trama (ricavata dal dramma di Roberto Farinacci) e per essere stato «girato» interamente nella nostra città, ha destato il più vivo interesse, ottenendo un caloroso successo anche per merito degli ottimi interpreti numerosissimi, fra i quali Carlo Temberlani, Vera Carmi, Mario Ferrari, Camillo Pilotto, Bella Starace Sainati, Aroldo Tieri. Regìa di Marcello Albani. Da oggi Redenzione inizia le repliche”. In realtà sulle repliche non si è deciso nulla: scartata l'ipotesi di limitare la programmazione ad un mese, il film resterà in sala finchè lo richiederà il pubblico.
In effetti allo spettacolo serale si presenta una folla enorme. Che urla, ride e lancia frecciate perchè, per un errore avvenuto probabilmente in fase di ripresa, alcune scene sono state girate con un passo accelerato, cosicchè anziché camminare, come sarebbe logico, i personaggi saltellano con un involontario effetto comico, tanto che il pubblico urla: “Guarda Ridolini!”- Il pubblico poi sa, per averlo letto sul giornale, che sono state girate scene con protagonisti sovversivi rossi che cantano in coro “Bandiera rossa”, e gente è curiosa di vederli. L'attesa è tanta ma è destinata a rimaner frustrata: il Ministero dello spettacolo ha tagliato proprio tutte quelle scene che facevano in qualche modo riferimento agli oppositori. Come quella dell'incendio della cascina fatta costruire in riva al Po dall'architetto Sandro Marzano appiccato dai comunisti, per assistere alla quale i cremonesi si erano precipitati in massa sul set domenica 3 maggio, attirati dalle fiamme che divampavano in cielo. Ma produttori e noleggiatori si fregano ugualmente le mani: l'incasso della prima giornata di programmazione è enorme e fa ben sperare per il futuro. La sera successiva ad ogni buon conto il cinema Littorio è presidiato dai Carabinieri per evitare resse e tumulti, ma quando si aprono le porte entra solo un piccolo gruppo di spettatori e qualcun altro alla chetichella, senza dar troppo nell'occhio. La terza sera è un fiasco completo, in sala c'è solo il personale di servizio. La quarta sera il film viene tolto dalla programmazione e da quel momento di Redenzione non ne parla più nessuno.
E Lino Milanesi? Dopo la sua estromissione dal consiglio di amministrazione della Marfilm viene accusato di essersi impadronito del legname occorrente per le scenografie del film. Era accaduto che durante le fasi della lavorazione sul palco del teatro Ponchielli era stata posizionata una sega circolare e Milanesi aveva inviato dal proprio stabilimento di via Bissolati una piccola quantità di assi di legno per ricavarne delle listelle con cui realizzare imballaggi per la propria azienda di vernici. Ma qualche operaio aveva sostenuto che Milanesi si fosse in realtà servito del legname della produzione per i propri usi personali. Alcuni membri del nuovo cda, al corrente del furioso litigio avuto dall'ex direttore di produzione con Farinacci, avevano approfittato dell'occasione per ingraziarsi il ras denunciando l'ex sodale per furto. Tuttavia Farinacci ha ancora bisogno di Milanesi e, smaltita la rabbia, lo manda a chiamare alla sede della Federazione del fascio, e gli dice: “Ho sentito che c'è una denuncia contro di te. Se riesci ad uscirne sano e salvo, torna subito da me. Ho da affidarti una carica che ti conviene”.
Milanesi si mette al lavoro per smontare l'accusa, si apre l'istruttoria, vengono interrogati accusatori ed accusati, sentiti i testimoni e alla fine viene dichiarato il non luogo a procedere per non aver commesso il fatto. Farinacci, subito informato dell'assoluzione, manda di nuovo a chiamare Milanesi e gli illustra l'incarico che intende affidargli. Si tratta di costituire un nuovo ufficio in cui fare confluire tutte le notizie sul conto degli antifascisti e, quindi, con il compito di reprimere sul nascere qualsiasi iniziativa contraria al regime. Ufficialmente deve trattarsi di un semplice ufficio di collegamento tra la federazione e la milizia, in realtà si tratta del tristemente noto Ufficio Politico Investigativo con sede, prima nella caserma Muti, e poi dal 1944 nella villa Merli.
Proprio il ruolo avuto da Lino Milanesi a Villa Merli è al centro del giallo riguardante la sua morte che per anni ha tormentato i cremonesi. Ed a suscitare i dubbi sulla sua fine è proprio Marcello Albani, quel regista venuto da Roma così inviso a Pavolini.
L'Ufficio Investigativo Politico della Guardia Nazionale Repubblicana è alle dirette dipendenze del colonnello Luigi Tambini, comandante della GNR, più conosciuto con il nomignolo di “Bigio” che ne affida il comando al più anziano della milizia, Lino Milanesi. L'ufficio gli viene affidato nel 1942, ma Milanesi ha sempre svolto attività investigativa, fin dai tempi del primo fascismo e nel tempo è riuscito a costruire una rete di spionaggio in grado di fornire tutti gli elementi utili all'arresto ed alla condanna al carcere e al confino degli antifascisti. E' profondamente convinto della vittoria finale dei tedeschi ed a chi gli fa notare che ormai gli alleati hanno preso il controllo su tutti i fronti, risponde con un sorrisetto carico di sottintesi “Farinacci mi ha detto...”. Evidentemente, come ormai si sussurra, culla la speranza che a risolvere il conflitto siano le famose armi segrete di cui la Germania sarebbe in possesso. Tuttavia nelle ultime settimane di guerra appare preoccupato, al punto di far requisire un piccolo appartamento a Bergamo, con un ordine partito dal Comune di Brescia, in cui potersi rifugiare in vista di una fuga. L'appartamento è al numero 12 di una viuzza della città alta, di proprietà della famiglia Locatelli. Ha preso anche la precauzione di farsi rilasciare dall'anagrafe del Comune di Brescia un documento d'identità munito di fotografia da cui risulta chiamarsi Riccardo Antonioli, di professione autista, a cui sono intestate anche le carte annonarie. Sembra che Milanesi, nonostante tutto, non si preoccupi eccessivamente dopo l'8 settembre di farsi recapitare al suo nuovo domicilio corrispondenza e pacchi, tra cui una radio, direttamente da Cremona anche due o tre volte alla settimana con un'auto di grossa cilindrata. Tanto più che l'unica auto in circolazione guidata da un civile a Bergamo, in quello scampolo di guerra, è solo quella del prefetto. Gli strani movimenti vengono notati appunto dalla portiera dello stabile dei Locatelli, fervente antifascista, che deciderà di usare queste informazioni a tempo debito, quando lo riterrà più opportuno.
Giungono le giornate della liberazione e Milanesi, dopo aver ordinato ai suoi sottoposti di rifugiarsi a Como, a sua volta ripara a Bergamo, dove si rintana in casa, senza mettere più il naso fuori. E' nervosissimo ed in preda all'ansia: prima di partire da Cremona ha consegnato ad un amico, che crede fidato, assegni per circa 600 mila lire da far cambiare in banconote, ma dell'amico non ha più notizie e le strade sono diventate ormai insicure, presidiate da gruppi di partigiani armati. Preferisce starsene lontano, e nel frattempo racconta alla moglie il motivo della sua inquietudine. “Sarebbe meglio che mi dicessi chi è...” gli dice riferendosi all'amico, “Non si sa mai...”. Ma Lino non si fida neppure della moglie, “Non son cose, queste, che riguardano le donne” le risponde maleducatamente, “a suo tempo ci penserò io”. Lino non può immaginarsi che in quel momento il suo destino è già segnato: la portinaia non ha dimenticato quell'auto e quando un gruppo di partigiani, in giro per Bergamo Alta, si ferma davanti alla casa, vuota il sacco. “Viene da Cremona, è un ministro, sta al primo piano..”. I partigiani infilano le scale e bussano alla prima porta. “Fuori le carte!” ed un distinto signore, imperturbabile, mostra, senza batter ciglio i propri documenti, perfettamente in regola. I partigiani sono confusi, la portinaia non sa darsi pace. Possibile che abbia potuto sbagliarsi, in modo così clamoroso e dopo tanti appostamenti? Poi capisce cosa è accaduto: i partigiani hanno sbagliato appartamento e, anziché salire al primo piano, si sono fermati al mezzanino. Quando transita un nuovo gruppo, non si sbaglia più. Milanesi, quando apre la porta, sbianca. I partigiani gli chiedono i documenti e lui, apparentemente tranquillo, li mostra. Sono perfetti, e lui lo sa bene. Quando gli chiedono il suo orientamento politico sorride, tira fuori un altro documento rilasciato dal CLN che certifica come Riccardo Antonioli sia un cospiratore dal 23 aprile 1945. I partigiani sono confusi e non sanno cosa fare, ma il loro capo ha una illuminazione e chiede ancora: “Perchè in una giornata come questa lei, cospiratore fervido, sta chiuso in casa invece di gioire insieme a noi?”. Milanesi, prevedendo la domanda, ha pronta anche la risposta, scopre la gamba e mostra una fasciatura: “Mi sono fatto male”.Il comandante della squadra annuisce col capo e, ormai convinto, ringrazia, saluta e si dirige verso l'uscita. Quando, ad un tratto, poggiando la mano sulla maniglia della porta, si blocca, attraversato da un pensiero: “Mi scusi signore, ma non è possibile. Se io avessi male alla gamba, e fossi entusiasta come sono e come dai suoi documenti ella sembra che sia, non starei certamente tappato in casa. Voglio fare una perquisizione”.
I partigiani con i mitra spianati iniziano a perlustrare l'appartamento. Nelle prime due stanze non trovano nulla, ma, entrati nella terza, uno del gruppo fa cenno ad un suo compagno di aver individuato qualcosa: sotto una branda si scorgono due scarpe, posate sul pavimento con la punta rivolta verso l'alto. Il partigiano imbraccia il mitra e lascia partire una raffica verso il soffitto, la branda si rovescia improvvisamente su un fianco ed appare, pallido e tremante, Giovanni Zoni, l'autista personale di Milanesi, agente dell'UPI. I sospetti del comandante partigiano si materializzano: ordina a Milanesi di seguirlo vestito così com'è, in pigiama, ed a Zoni di fare altrettanto. Sono le 10 di domenica mattina, 29 aprile 1945, quando Milanesi entra scortato nell'ufficio della polizia ausiliaria, a metà strada tra la sua abitazione ed il carcere di Sant'Agata, e viene affidato in custodia al commissario Tranquillo Bolognini, un ex detenuto politico milanese, già rinchiuso nella prigione bergamasca, a cui il CLN ha assegnato l'incarico. Nonostante Zoni lo accusi ripetutamente, Milanesi nega la sua vera identità ed afferma di essere Riccardo Antonioli, come risulta dai documenti in suo possesso. Trascorre la notte e si arriva alla mattina di lunedì 30 aprile: verso le 11 alcuni partigiani prelevano Milanesi dal carcere, secondo gli ordini ricevuti dal Tribunale provinciale bergamasco costituito dal CLN. Non gli chiedono nulla e lui non dice nulla, lo fanno salire su un'auto che attraversa tutta la città dirigendosi verso il cimitero. La macchina si ferma sul grande piazzale dell'ingresso, Milanesi viene fatto scendere e portato verso il muro perimetrale. Quando dista circa un metro, il gruppetto si ferma ed un partigiano toglie a Milanesi la giacca del pigiama che ancora indossa, dicendogli: “E' inutile sciuparla, può servire a qualcun altro”. Solo in quell'istante Lino capisce quale sia la sorte che lo attende e, voltato con la fronte verso il muro, grida “Viva Farinacci!”, prima che una raffica di mitra lo falci. Sono le 11,30.
Giovanni Zoni viene trasferito alla Caserma Paolini di Cremona, e viene interrogato il 15 settembre 1945 in Questura sui fatti di villa Merli.
(2 - continua)
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