De Gasperi a Ripalta Cremasca |
Settant'anni fa nasceva il sogno della
silicon valley padana, quando sembrava che il petrolio potesse
sgorgare a fiumi ovunque si iniziasse a trivellare. A fantasticare
sul nuovo Texas aveva contribuito la scoperta del giacimento di
Cortemaggiore, avvenuta il 19 marzo del 1949, quando dal
pozzo n.1, fortemente voluto da Enrico Mattei, insieme al metano era
iniziato a sgorgare anche petrolio, un petrolio molto leggero e di
grande qualità, ma in quantità modestissima, dieci tonnellate al
giorno. Da quel momento si scatena la corsa all'oro nero. E così
quando, un anno dopo, agli inizi di marzo del 1950 un gruppo di
ragazzi, giocando tra le buche lasciate dalle bombe della guerra nei
campi della ferrovia confinanti con via dei Platani, trova nel
terreno alcune conchiglie fossili, mai ritrovate prima in città, ma
comunissime a Castell'arquato, il pensiero corre subito a
Cortemaggiore. Sono fossili di forma quasi circolare, del diametro di
sette ed otto centimetri, che il titolare della cattedra di geologia
dell'Università di Parma classifica come “pettini” e “spondili”,
con un particolarità: normalmente, nel punto del loro ritrovamento,
sono presenti, seppur a ragguardevole profondità, giacimenti
petroliferi. Ce n'è a sufficienza per suggerire un sondaggio nella
zona. L'entusiasmo si accresce quando il mese successivo il
presidente del Consiglio Alcide De Gasperi giunge il 24 aprile nel
massimo riserbo all'impianto metanifero che l'Agip ha nel frattempo
installato a Ripalta Cremasca. Lo accompagna una piccola, ma
autorevole, delegazione di cui fanno parte il ministro Vanoni, il
sottosegretario Clerici, il vicepresidente dell'Agip Mattei ed il
prefetto di Milano. Provengono da Lodi, dove i tecnici della Società
Italiana Petrolifera hanno illustrato i lavori in corso per la
ricerca degli idrocarburi nella Valpadana tra Caviaga, Ripalta
Cremasca e Cortemaggiore. De Gasperi visita minuziosamente i tre
pozzi già esistenti ed i sondaggi in corso lungo la statale per
Piacenza, tra Ripalta e Montodine e la rete di tubazioni in fase di
installazione. Il giacimento cremasco è in grado di fornire 250 mila
metri cubi di metano al giorno; la sonda n.1, già in produzione,
immette nella rete da 100 a 150 mila metri cubi, convogliati agli
stabilimenti di Dalmine e Crema con il metanodotto Caviaga-Dalmine.
La stessa quantità viene fornita dalla sonda n. 2. I pozzi scendono
ad una profondità di 1700 metri, mentre le trivelle sono arrivate a
1952 metri, dove hanno incontrato la falda. Si diffonde la voce
secondo cui in una zona di circa 20 chilometri quadrati vi siano
riserve di metano calcolabili in circa 150 miliardi di metri cubi, ma
in realtà la segreta speranza è che vi possa essere anche il
petrolio. Si pensa che a luglio possano già iniziare i lavori per la
messa in opera del metanodotto per collegare Cremona, Casalbuttano,
Soresina e Caviaga con tubi di 30 centimetri di diametro con una
portata di due miliardi di metri cubi al giorno forniti dalla
Dalmine, secondo il progetto dell'ingegner Carlo Zanmatti, convinto
più che mai che la pianura padana trabocchi di metano e non del
petrolio che sta cercando Mattei. I tubi, frattanto, iniziano a
confluire a Cortemaggiore, da dove partirà il metanodotto lungo 140
chilometri. Agli inizi di giugno lungo la strada da Cremona a
Cortemaggiore compaiono giganteschi cartelli che annunciano l'inizio
dei lavori alla conduttura destinata a collegare la cittadina
emiliana a Caviaga: una grande macchina scava la trincea profonda due
metri al ritmo di tre chilometri al giorno, coadiuvata da 40 operai e
si pensa che nel giro di poche settimane la tubatura possa arrivare a
Cremona, dove una colonnetta installata a porta Milano, all'imbocco
di via Ghinaglia, servirà a rifornire gli autoveicoli. Agli inizi di
agosto il metanodotto, quasi completamente saldato, si affaccia alla
sponda piacentina di fronte alla punta del Cristo di Spinadesco: in
90 giorni ha percorso quasi venti chilometri, un “record” per la
ditta appaltatrice, la Montubi di Milano. Sul fronte opposto la rete
è già arrivata a Casalbuttano, ed è pronta a congiungersi con
l'altro tronco emiliano.
Ma
a complicare le cose il 3 ottobre inizia improvvisamente ad eruttare
metano e petrolio il pozzo 18 di Cortemaggiore. I tecnici si
affrettano a tranquillizzare la popolazione, ma di fatto: “A
Cortemaggiore, per un vasto perimetro, non si fuma. Chi fuma è
soltanto lui, l'anarchico pozzo che, con un rombo da elettrotreno che
passa sopra un ponte di ferro, emette esattamente da cinquanta ore
una nuvola ininterrotta che ricorda vagamente l'atomica di Bikini. E'
come un'enorme pompa del «flit» rivolta verso il cielo: sul paese
incombe una caligine densa, un cocktail fatto di gasolina, petrolio,
fango, il tutto fortemente agitato e presentato con il caratteristico
odore di uova marce del metano: qui tutto sa di metano. L'aria, gli
abiti, le automobili. I vigneti e le coltivazioni ormai
irreparabilmente danneggiate, gli ingegneri dell'Agip, le cose e le
case” (La Provincia, 7 ottobre 1950, p. 3).
L'incendio del pozzo 21 |
La notte del 1 dicembre
una nuova serie di esplosioni sveglia la città, e sinistri bagliori
illuminano il cielo di Cortemaggiore, seguiti ben presto dal cupo
ronzio che indica la fuga del metano. Ancora verso le 9 di mattina si
può osservare in lontananza la lunga lingua di fuoco che si alza
verso il cielo. Viene vietato l'accesso al Torrazzo, dove la gente fa
la ressa per salire ad osservare lo spettacolo e verso sera il rosso
del cielo infuocato si confonde con i colori del tramonto. E'
scoppiato un secondo pozzo, il n. 21 di Bersano di Besanzone: la
forte pressione del metano mescolato al petrolio ha fatto saltare
l'intero sistema delle valvole di sicurezza, posto a milleduecento
metri di profondità, proiettando in superficie anche un frammento di
tubo che, urtato con estrema violenza il traliccio metallico della
torre, ha causato una scintilla da cui si è propagato l'incendio
dell'intero pozzo. Per spegnerlo bisogna scavare una galleria il più
vicino possibile al pozzo, scendendo per una trentina di metri fino a
raggiungere la tubatura, vi si applica poi una carica esplosiva che,
una volta fatta brillare, provoca la rottura del tubo ed il suo
riempimento di terra, sufficiente a domare il fuoco. Una sola persona
al mondo è in grado di farlo, è mister Kinley. Frattanto, “dopo
il tramonto, lo spettacolo sembrava da tregenda. In un cielo
rosseggiante, si levava ruggente l'immensa fiamma, alta una
quarantina di metri e larga cinque o sei. E secondo che la pressione
diventava più o meno forte, la lingua di fuoco si alzava e si
abbassava, sembrava languire per poco, poi si ravvivava sempre più
minacciosa. E il ruggito pauroso del gas in fuga, copriva ogni altro
rumore e rendeva impossibile a coloro che guardavano assorti e un
poco spauriti, di scambiarsi l'un l'altro le proprie impressioni. E
in quel cielo livido del calore del sangue, in quel cielo sereno e
senza nebbia, non si vedeva una stella. Perchè la luce irradiata da
quel rogo di petrolio, era tanto intensa, da coprire il bagliore
degli astri. In certi momenti il cielo aveva la stessa luminosità e
le stesse sfumature d'uno di quei rossi tramonti d'estate che sono
una delle caratteristiche dei cieli meridionali” (La Provincia, 2
dicembre 1959, p. 5). La mattina del 4 dicembre mister Kinley si
presenta puntuale al pozzo di Cortemaggiore dopo aver viaggiato in
aereo l'intera notte, indossa una tuta d'amianto con la maschera
protettrice ed inizia a girare attorno all'immensa colonna di fuoco:
“è sempre accigliato. O, meglio: sempre triste. I suoi occhi, come
le sue labbra, non sorridono mai. Si direbbe quasi, che l'ira contro
il ruggente suo nemico naturale, si rifletta perennemente sul suo
volto”. Per tutti a Cortemaggiore è ormai “Mangiafuoco”: prima
di tutto fa rimuovere le macerie della torre, oramai ridotte a
metallo fuso, mentre i vigili del fuoco di Piacenza versano materiale
antincendio sui roghi sparsi all'intorno. Se tutto andrà bene per
spegnere il pozzo ci vorranno almeno venti giorni. In realtà la
previsione è ottimistica. Dal 9 dicembre il pozzo inizia ad eruttare
polvere e sabbia, i pozzi d'acqua gorgogliano per le infiltrazioni di
gas che hanno raggiunto la falda, mentre un getto di metano e
petrolio fuoriesce dalla conduttura, lesionata da un'altra
esplosione, infiltrandosi nel terreno fino a provocare il franamento
della bocca del pozzo, che raggiunge in questo modo un diametro di
ben 28 metri ed una profondità di 14 inquinando la falda. Grandi
masse di poltiglia vengono proiettate lungo la colonna di fuoco,
evaporando nel giro di qualche secondo, per poi disperdersi nelle
campagne oscurando la luce del sole. Le nubi biancastre del vapore
acqueo si sollevano dalle pozzanghere. Una scena apocalittica di
fronte alla quale mister Kinley da forfait, sconfitto dall'incendio.
Se ne va annunciando che il pozzo brucerà per almeno venticinque
anni. Ma i tecnici della Società Santa Fè di Los Angeles, che ha
l'appalto del pozzo, non si danno per vinti. Decidono di scavare un
pozzo trasversale che raggiunga la profondità di quello in fiamme,
sulla base dei dati tecnici forniti dal tecnico Edward Ferry: partono
da un punto distante 170 metri dal pozzo incendiato, scavano fino
alla profondità di 890 metri un pozzo perfettamente verticale e dal
quel momento iniziano a scavare in senso obliquo sino ad una
profondità di 1300 metri, immettendo nel foro tubi di materiale
progressivamente più solido. Quando la distanza tra i due pozzi è
ridotta ad un diaframma di circa un metro, con quattro pompe vengono
scagliati potentissimi getti d'acqua a forte pressione che in breve
hanno ragione del diaframma, permettendo discaricare nel pozzo 21
enormi cisterne di fanghiglia biancastra relativamente fluida,
contenente sostanze chimiche antincendio, che nel giro di sette ore
riesce a spegnere il fuoco. Sono le 7 del 6 febbraio 1951. Per
vincere l'incendio ci sono voluti 63 giorni. Tutto torna come prima,
l'incidente viene presto dimenticato, ed il 18 luglio 1951 giunge la
notizia tanto attesa. Mentre il pozzo 21 continuava a bruciare, i
tecnici dell'Agip avevano già effettuato sondaggi a Costa
Sant'Abramo, tanto da spingere il quotidiano locale ad affermare che
“se, come è probabile, la realtà si mostrerà all'altezza
dell'aspettativa, la nostra città diverrà il più importante centro
di produzione e di lavorazione del petrolio di tutta quanta la
penisola”. Da una trivella giunta a duemila metri di profondità
nelle campagne intorno a Castelverde, scaturisce improvvisamente
prima una nube di bario e poi subito dopo, con un sibilo assordante,
il metano. Mentre il metanodotto è sempre fermo sulle rive del Po.
Ma basta questo per sollecitare la fantasia con le promesse di un
nuovo Eldorado e di una nuova età dell'oro che possa risolvere il
problema endemico del dopoguerra, la disoccupazione. E la paura che
l'oro nero possa finire altrove, sottraendo le royalties a cui si
pensa di aver diritto: “Hanno trovato il metano a Costa Sant'Abramo
e siamo convinti presto lo troveranno in quasi tutta la provincia di
Cremona. Tuttavia a quanto pare tale ben di Dio dovrà emigrare per
altri lidi. Noi forse vedremo i tubi, forse saremo molestati dalle
esalazioni ma nessun beneficio tangibile dovrà venire alla nostra
provincia. Infatti tra i «pallini» di chi dirige le questioni del
metano vi è anche quello di vendere tale gas allo stesso prezzo sia
a Cremona, sia a Napoli, dimenticando che qui c'è la produzione,
mentre a Napoli bisogna portarvelo con un tubo di un migliaio di
chilometri! Sarebbe in somma come se ci mettessimo in mente di far
coincidere il prezzo di vendita del carbone a Cardiff con quello di
Milano, ed i prezzo dei limoni a Palermo con quello degli stessi a
Stoccolma. Ognuno ha il diritto sacrosanto di godere di quello che l
natura e Dio gli hanno elargito, giacchè non ci consta che ad
esempio il Chili importi dall'estero concimi azotati per regalare
agli altri i suoi nitrati. Orbene tutto lascia credere che
approfittando del buon carattere dei cremonesi si cerchi di sottrarre
loro una ricchezza che loro spetta senza dubbio” (La Provincia, 3
agosto 1951, p. 2). Che cosa fare dunque di tutto questo metano? Una
centrale elettrica, innanzi tutto, una fabbrica di concimi azotati,
nitrati, che oltre ai concimi, servono anche a preparare esplosivi
con cui “sarebbe potenziata anche la difesa della nazione”,
acetilene e isoprene: “Risolveremmo di colpo il problema della
disoccupazione, verrebbe dato un lavoro notevole al porto fluviale,
ed infine pure la nostra città raddoppierebbe il numero dei suoi
istituti con relativo sviluppo edilizio. Tutto ciò si sintetizza in
una parola sola: «Prosperità»”. Il metano arriverà in città
solo alle 10 di mattina dell'11 aprile 1952.