Contadine cremonesi negli anni 40 (Archivio storico CGIL) |
E' una delle pagine più dure nella
storia delle nostre campagne ed è stata scritta settant'anni fa, tra
il maggio ed il giugno del 1948. Lo sciopero dei contadini per il
nuovo patto colonico, passato alla cronaca come “lo sciopero dei
dodici giorni”, fu conseguente alla rottura della trattativa tra la
Federterra e le associazioni agricole sulla questione del prezzo del
latte, la tredicesima mensilità e la regolamentazione delle
disdette, ma avvenne nel clima teso che aveva seguito le elezioni del
mese prima, con la pesante sconfitta del Fronte Popolare, tra i
sequestri d'armi della cosiddetta “paramilitare” e violenze di
ogni genere. Lo sciopero fu indetto il 26 maggio, ma dopo 6 giorni la
Confederterra estese lo sciopero ai bergamini; a quel punto la
corrente democristiana se ne dissociò pubblicamente ritenendo che
esso assumeva carattere politico e ne attuò il boicottaggio, dando
poi origine alla definitiva rottura dell'unità sindacale. La
tensione giunse al massimo: arresti e fermi di capilega, feriti in
scontri con crumiri e forze di polizia, l’uccisione da parte di un
carabiniere del giovane contadino Luigi Venturini tra Spino d’Adda
e Pandino e le parole di dolore di don Primo Mazzolari: “Mi
stanno sul cuore il morto di Spino d’Adda, i feriti e la crescente
asprezza della convivenza tra agricoltori e salariati (…) Il
salariato non è un rapporto guaribile ma una struttura da
abbattere”.
«I
lavoratori si erano organizzati – ricorda Enrico Fogliazza - e
negli anni 1947-1948, pur rivendicando più alti salari e migliori
regole di lavoro, avevano messo in campo la fondamentale
rivendicazione con la quale si chiedeva la regolamentazione delle
disdette, per offrire un minimo di garanzie di lavoro e di casa, che
assieme a libertà e dignità era il sogno di sempre. I lavoratori
volevano - in attesa delle legge - che si stabilisse anche in sede
contrattuale un primo riconoscimento della disdetta sulla base della
giusta causa. Dal 18 maggio al 6 giugno1948 si sviluppò una
fortissima azione di lotta e venne presentata alle controparti, in
tutte le provincie padane, assieme alle richieste per il rinnovo dei
patti colonici provinciali, la richiesta di un avvio delle trattative
su questo importante argomento. Ai primi rifiuti di parte padronale,
si mise in moto la strategia dello sciopero graduato fino a giungere,
anche in rapporto alla resistenza padronale, alla grave decisione
dello sciopero sul bestiame da latte. Si presentava la minaccia di
uno scontro di gravi dimensioni. I tre segretari della Confederterra
milanese, che fungevano anche da coordinamento regionale, non
insistettero più di tanto e si accontentarono di "portare a
casa" qualcosa sui salari. Quella decisione venne seguita anche
da qualche altra provincia. Ma la battaglia data riguardava questioni
di principio difficilmente negoziabili in cambio di un pugno di
denari. Fu, questa, una questione che con ogni probabilità sfuggì
al gruppo dirigente nazionale della CGIL, che conosceva poco i
termini del contendere, che non conosceva in maniera approfondita i
rapporti sociali e di classe imperanti nella cascina della Padania
irrigua, che probabilmente considerava quella battaglia alla stregua
di una normale lotta sindacale per il rinnovo contrattuale. La lotta
rimase in piedi, dura e molto ravvicinata, nella provincia di
Cremona, nella Bassa Bresciana, nell'alto Mantovano e nel Lodigiano.
Il fronte si era indebolito. Mancò la decisione nazionale della CGIL
di alzare il confronto all'alzarsi dell'obiettivo. Mancò la
generalizzazione della lotta, mancò l'assunzione del confronto come
vero e proprio "scontro politico e di potere" e mancò
dunque l'appoggio generale della classe operaia organizzata, con le
sue strutture e con le sue organizzazioni, a sostenere la lotta per
l'applicazione di un principio costituzionale. Cremona ed una parte
importante delle organizzazioni della Pianura padana rimasero
isolate, a condurre una lotta molto avanzata, ardua e
difficilissima».
Il 1 maggio 1948 in piazza del Comune |
Le
trattative si svolgevano in Prefettura tra mille difficoltà, mentre
nelle campagne lo sciopero registrava un'altissima adesione.
L'associazione agricoltori era rappresentata da Geremia Bellingeri,
Franco Santini di Cella Dati e Gianni Ferlenghi di Cremona. Della
delegazioni sindacale facevano parte Adriano Andrini (Segretario
della Camera del Lavoro), Enrico Fogliazza (segretario di
Confederterra), i consegretari Federterra Carlo Ricca per il Psi,
Primo Bonvini per la Dc, Giuseppe Cavagnoli e Angelo Formis,
consegretario della Camera del Lavoro per la Dc. La conclusione, che
poteva essere a portata di mano, si allontanava, secondo quanto
asserito dagli Agricoltori, “per una inutile quanto assurda
intransigenza dei rappresentanti dei contadini sul prezzo del latte
alimentare fornito in azienda ad ogni famiglia di salariato. Come è
noto il litro di latte di ogni lavoratore giornalmente prelevato alla
stalla era per il passato compensato con dieci lire: il prezzo data
ancora dal lontano marzo 1946 quando il vincolo della fornitura del
latte alimentare al consumatore impediva una diversa remunerazione.
Oggi che il latte alimentare fa aggio sullo stesso latte ad uso
industriale, è un assurdo economico pretendere la conferma dello
stesso prezzo. Forse che i consumatori delle città e dei paesi
acquistano oggi il latte che loro abbisogna ancora al prezzo di
politico di 14-15 lire di allora? La tesi dei contadini è quindi,
almeno da un punto di vista logico, peregrina: ma è tale da condurre
alle più impensate conseguenze, quando ci si mette nella veste degli
attuali dirigenti delle Camere del lavoro, per i quali spesse volte
lo scardinamento di un elementare principio di diritto acquista il
valore di un passo avanti nella lotta delle conquiste sindacali”
(La Provincia del Po, 9 maggio 1948, p.4).
Diversa
l'interpretazione della trattativa da parte sindacale: “La
discussione verte e si trascina sul problema delle disdette –
ricorda Franco Dolci (Compagni, Cgil-Spi, 2007, pp. 111-112)- E' in
discussione un principio di fondo per entrambe le parti. Per gli
agrari il diritto o meno di usare la mano d'opera come vogliono;
diritto che si estrinseca nella libertà di disdettare come e quando
vogliono. I sindacalisti rivendicano invece il principio della
'giusta causa', ossia disdetta sì, ma solo nel caso in cui vi siano
fondatissimi motivi che la giustificano. L'obiettivo degli agrari –
in sostanza- era quello di fare piazza pulita, usando l'arma della
disdetta, di dirigenti e attivisti politici, sindacali,
amministratori comunali, ecc. Nel loro animo c'era la volontà di
assestare un colpo mortale all'organizzazione dei lavoratori. I
sindacalisti dicono «No!»”.
Il primo congresso dei salariati e braccianti agricoli |
La
sera del 25 maggio si giunse alla definitiva rottura delle
trattative, con la dichiarazione dello sciopero che avrebbe avuto
inizio alle 12 del giorno successivo. Tre i punti su cui non era
stato possibile raggiungere un accordo: il prezzo del latte, la
gratifica o tredicesima mensilità e le disdette ed i traslochi.
Accanto alla notizia, il giornale riportava nella stessa pagina la
condanna ad un anno, sette mesi e quindici giorni di carcere del
rappresentante del Fronte Popolare di Azzanello per aver impedito la
riunione elettorale dell'on. Giannino Ferrari del Blocco Nazionale, e
la denuncia di Guido Percudani per istigazione a delinquere e
concorso nell'occultamento di armi nell'inchiesta sulla “paramilitare
comunista”, a dimostrazione del clima infuocato che accompagnava la
protesta dei contadini. Lo stesso pomeriggio del 26 maggio il
Prefetto tentò una nuova mediazione tra le parti, che dopo sei ore
di discussione si arenò nuovamente sul problema delle disdette. Così
il giornale ricostruisce l'incontro: “I rappresentanti della
Federterra hanno iniziato sostenendo che il blocco delle disdette e
dei traslochi si rende necessario per la mancanza di case; a questo
gli agricoltori hanno risposto assicurando a tutti i lavoratori la
casa. Sormontata la prima difficoltà la commissione della Federterra
ne ha presentato una seconda: la necessità cioè di garantire a
tutti i salariati agricoli il lavoro anche per la prossima annata. A
questa seconda richiesta i rappresentanti della Associazione
Agricoltori hanno risposto assicurando oltre alla casa anche il
lavoro. La Federterra ha allora portato sul tappeto una terza
questione: gli eccessivi spostamenti che obbligherebbero un salariato
agricolo che lavora a Casalmaggiore, di spostarsi ad esempio fino a
Crema. Ma anche su questo punto i rappresentanti degli agricoltori
hanno risposto proponendo la delimitazione di zone nelle quali
dovrebbero avvenire gli spostamenti così da superare le difficoltà
fatte presenti dalla Federterra. Sorpassato anche quest'altro
ostacolo, la Federterra ha sollevato allora una nuova obiezione:
quella che in termine tecnico si chiama «qualifica». Anche su
questo punto l'Associazione Agricoltori si è dichiarata disposta a
garantire che per la prossima annata, nei limiti del normale
imponibile di mano d'opera, tutti i salariati agricoli troveranno
lavoro”.
Fu
peraltro per la difficoltà di stabilire univocamente quale fosse la
“giusta causa” indispensabile per determinare la disdetta e la
composizione delle “commissioni paritetiche” che avrebbero dovuto
giudicarla a troncare qualsiasi discussione. Il 30 marzo “La
Provincia del Po” annunciava che “Tutti i lavori agricoli sono
fermi; gli unici salariati che lavorano sono gli addetti al bestiame,
per l'alimentazione del quale gli agricoltori debbono recarsi nei
campi per tagliare e raccogliere l'erba”. Si segnalavano pochi
episodi di tensione tra capilega e coltivatori diretti occupati nella
fienagione a Torlino, Palazzo Pignano e Montodine, e si lasciavano
intuire difficoltà di rapporti tra il direttore di Coldiretti
Gaetano Zanotti, candidato con la Dc il 18 aprile, che invitava gli
associati ad interrompere i rapporti lavoro con i dipendenti che
scioperavano, e l'organo della Dc “Il Popolo” che invece aveva
solidarizzato con i contadini in sciopero. E la Coldiretti chiariva
il proprio pensiero in un articolo di fondo pubblicato il 1 giugno,
dove si affermava: “I diritti dei lavoratori vanno tutelati e non
saremo mai noi quelli che chiudono gli occhi difronte alle esigenze e
alle necessità di questa categoria; ma tali diritti vanno tutelati
nel quadro di un superiore interesse generale e non con una visione
esclusivamente particolaristica. Soprattutto devono sempre evadere
dalle questioni sindacali e ed economiche i movimenti politici e
purtroppo anche in questo caso non crediamo si possa decisamente
affermare che questi motivi non abbiano il loro peso”. Nel
frattempo si moltiplicavano gli arresti: nove scioperanti a Soresina,
venuti da Casalbuttano per aver impedito il lavoro ad alcuni
contadini, e altri arresti a Drizzona e Piadena.
Cascina cremonese degli anni 40 (Archvio storico CGIL) |
Ad
una settimana dall'inizio dell'agitazione, mentre si affida un
tentativo di mediazione all'Ispettore del Ministero dell'agricoltura
Gennari, si rompe il fronte sindacale: il responsabile comunista
della Camera del Lavoro Adriano Andrini, contro il parere del
responsabile democristiano e di quello socialista, nel pomeriggio del
1 giugno ordina di estendere lo sciopero ai mungitori, escludendo
solo le stalle che conferiscono il latte alla Centrale. La “Celere”
è costretta ad intervenire all'azienda Gerre del Sole di Stagno
Lombardo dove i mungitori erano stati minacciati con forconi e
badili, così come alla cascina Quinzani di San Felice, altri
incidenti si verificano a Genivolta, Sospiro e Piadena, dove
carabinieri e polizia intervengono a disperdere gruppi di una
cinquantina di attivisti che si aggirano per le campagne. Mentre
fallisce una nuovo incontro in Prefettura tra il vicepresidente di
Confida Arnaldo Bonisoli, Giacomo Guarneri e Geremia Bellingeri da
una parte e Bosi, Pianezza e Spagnolin per Confederterra, la
“Provincia del Po” rinuncia all'aplombe tenuto sino ad ora ed
attacca risolutamente il Pci: “Gente che ha lavorato per tanti anni
e che comprende quanto sia indispensabile curare un simile patrimonio
non può rimanere indifferente in un simile momento. Ma c'è Andrini
che gira per le campagne. C'è Fogliazza e ci sono tutti gli
attivisti del PC (meno quelli che son finiti in galera in seguito
alla scoperta della paramilitare) che vanno e vengono a bordo di
automobili e che cercano di tener alto il morale degli scioperanti.
Quale spontaneità in questo sciopero! Poveri contadini! Ci hanno
fatto pena, vedendoli sulle porte dei cascinali ricevere l'imbeccata
di qualche brutto ceffo venuto da Cremona per ordine del partito
delle Poste Vecchie” (La Provincia del Po, 3 giugno 1948, p. 2).
Improvvisamente
la situazione precipita, dopo il fallimento dell'ultima trattativa. A
Spino d'Adda, durante tafferugli tra carabinieri e dimostranti, un
carabiniere apre il fuoco “a scopo intimidatorio”, ma, aggiunge
il giornale “disgraziatamente un proiettile aveva raggiunto un
contadino che stava tentando di colpire con un badile un libero
lavoratore”, come se non bastasse i carabinieri “nuovamente
circondati da elementi facinorosi che tentavano di disarmarli”,
avevano nuovamente aperto il fuoco ferendo altri due dimostranti. A
Malagnino, nella cascina di Anacleto Mainardi, vengono aggrediti due
mungitori improvvisati, poi gli scioperanti, dopo aver abbattuto il
cancello della fattoria e sfondate le porte delle stalle, con pezzi
di pietra feriscono alcuni capi di bestiame e rovesciano i secchi di
latte appena munto. Ovunque si ha notizia di tafferugli, posti di
blocco improvvisati, cavi del telefono tagliati, saccheggi, e poco
prima della mezzanotte del 3 giugno giungeva a Cremona un contingente
dei Carabinieri del Battaglione mobile di Milano, dotato di
autoblinde e carrarmati leggeri per aver ragione degli insorti. A
Roma il ministro Scelba riferisce al presidente del consiglio Alcide
de Gasperi di quanto sta accadendo a Cremona e a Decima di Persiceto,
in provincia di Bologna, dove la “Celere” aveva caricato una
folla di tremila braccianti intervenuti a minacciare venti mondine
accusate di crumiraggio.
Nuova
giornata di tensione venerdì 4 giugno: Giacomo Bernamonti e Adriano
Andrini tentano di tenere un comizio in piazza del Comune ai
dimostranti venuti dalla campagna, ma vengono fermati e condotti in
questura e la folla fatta sfollare dalla piazza con l'intervento di
due autoblindo dei carabinieri. Nel pomeriggio, tuttavia, circa
cinquecento donne riescono a manifestare in piazza chiedendo la
liberazione dei sette contadini arrestati in seguito a fatti di Spino
d'Adda, prima di recarsi ordinatamente davanti alla Prefettura e poi
alla Camera del Lavoro in via Palestro.
E'
in questa convulsa fase che si gioca l'ultima carta: il pomeriggio di
sabato 5 giugno giunge da Roma il sottosegretario al Ministero del
Lavoro Giorgio La Pira per trovare una soluzione. Alla sera, però,
arriva anche la notizia della morte di Luigi Venturini, il contadino
di 21 anni colpito da un carabiniere durante gli incidenti di Spino
d'Adda. E' questa tragedia che spinge monsignor Giovanni Quaini a far
incontrare nuovamente agricoltori e capilega per trovare finalmente
un accordo di cui, tra le poche righe, si legge tutta la
drammaticità: “I sottoscritti agricoltori e capilega di Spino
d'Adda, in considerazione della incresciosa situazione creatasi e al
fine di riappacificare gli animi, senza entrare nel merito allo
sciopero e senza compromettere quella che sarà la composizione dello
sciopero stesso e le trattative in corso tra la Confida e la
Confederterra, dichiarano di accettare le richieste avanzate dalla
Federterra nei termini che verranno concordati tra le due parti,
relativamente ai punti di vertenza in corso. Frattanto, a partire
dall'una di stanotte, il lavoro verrà ripreso nelle aziende dei
firmatari per il foraggiamento e mungitura del bestiame con l'impiego
di salariati”. Martedì 8 giugno 1948 “La Provincia del Po”
usciva con un titolo a otto colonne in prima pagina: “I contadini
hanno ripreso il lavoro. L'accordo tra Agricoltori e Federterra è
stato raggiunto domenica: disdette libere, latte a 21 lire 21 mila
lire la 13ª mensilità”. Lo sciopero finiva con un'ultima giornata
di violenza ad Azzanello, dove i contadini avevano tagliato una
quarantina di gelsi del marchese Stanga e lanciato bombe rimaste
inesplose, e a Villarocca di Pessina dove era stato dato alle fiamme
un carro. Finiva anche nella disillusione. “L'accordo, in materia
di disdette – ricorda Franco Dolci – non rispecchiava gli
obiettivi che il sindacato e i lavoratori si erano proposti; tanto
meno corrispondeva ai rapporti di forza esistenti che, in quel
momento, erano a favore dei sindacati. Perchè allora la firma? Sulla
firma pesò la situazione del patrimonio zootecnico. I giornali
diffondevano notizie allarmistiche presentando carcasse di vacche
morte perchè non accudite dai bergamini; pesò la dissociazione dei
sindacalisti Dc dallo sciopero dei mungitori, dissociazione che
favorì il crumiraggio; infine pesò il non uniforme comportamento
delle varie province in lotta, eludendo gli impegni assunti in sede
di approvazione delle piattaforme rivendicative provinciali...Si
consideri anche l'orientamento dell'opinione pubblica non
sufficientemente sensibile sul significato umano, sociale e politico
del problema. Tale significato era ben chiaro nel vertice
politico-sindacale e nei lavoratori più sensibili e attivi; ma non
era chiaro in tutti e men che meno nei lavoratori delle altre
categorie. Non era raro udire acidi giudizi sui paisàan; «cosa
vogliono ancora questi paisàan che durante la guerra han fatto la
borsa nera...». Giudizi ingiusti, ma diffusi. L'antico dissenso
città-campagna trovava la sua manifestazione anche in queste
ingiuste espressioni polemiche”.
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