Joseph Wechsberg musicista
cecoslovacco, avvocato, gastronomo, scrittore ma soprattutto
giornalista del prestigioso “New Yorker”, dopo aver ottenuto la
cittadinanza americana nel 1944, nel settembre del 1950 fu inviato
dal settimanale “Epoca” a Cremona sulle tracce degli ultimi eredi
di Stradivari. Ne uscì un reportage di straordinaria efficacia e
l’umanissimo ritratto di due grandi appassionati di musica e
liuteria, l’avvocato Mario Stradivari e lo studioso Renzo
Bacchetta, sue guide in uno straordinario visita notturna al teatro
Ponchielli e nelle vie deserte della città, fino alla lapide del
grande liutaio. Ma anche la critica disincantata ad una città
inconsapevole ed ingrata, il racconto malinconico ed appassionato di
un grande giornalista che si confronta con quanto è rimasto del
mito.
di Joseph Wechsberg
Mario Stradivari e Renzo Bacchetta |
Era alto e massiccio, aveva un volto
scavato con un gran naso aquilino e la fronte altissima: camminava
lievemente curvo in avanti, a passi lunghi e lenti. Portava un abito
troppo largo e un cappello dalle falde amplissime.
«Au revoir, au revoir!» mi gridò
improvvisamente, con voce profonda di basso, togliendosi il cappello
con spagnolesca grandezza. «Mi scusi» disse poi, «ma io mi
confondo sempre quando parlo francese. A ogni modo bienvenu,
bienvenu! Ho incontrato Maddalena e mi ha detto di lei. Quella
sciocca avrebbe anche potuto farla attendere nel mio studio. Venga,
si accomodi e sia benvenuto nella casa di Stradivari». Spiegai con
una certa esitazione lo scopo puramente sentimentale della mia
visita. Stradivari mi guardò sbalordito e poi, alzatosi, m’afferrò
la mano con estremo calore. «Accidenti a Maddalena! Ma perchè non
mi ha detto che lei non era un cliente? Non mi entusiasma ricevere
clienti dopo le sei di sera. Ecco perchè le lancette del mio
orologio segnano sempre le sei: per ricordare a tutti che
rappresentano la fine della mia giornata di lavoro. Ma non accade
spesso che venga a trovarmi un ammiratore di Antonio Stradivari.
Prima della guerra, sì, qualcuno c’era sempre, ma ormai nessuno
più se ne cura.
Stradivari aprì un cassetto enorme,
frugò tra un mucchio di carabattole, e alla fine portò alla luce
una statuetta in bronzo, che raffigurava un uomo seduto su una sedia
con un violino tra le mani. Sulla base era scritto: Antonio
Stradivari. «Eccolo qua», disse Mario Stradivari, dando un colpetto
sulla spalla della statua. «La gente dice che ho ereditato il suo
nasone, la fronte, la bocca piegata all’ingiù e le dita molto
lunghe. Ridicolo!». E gettò la statua sulla scrivania, dove essa
giunse con un gran tonfo. «Un tipico caso illusorio», riprese
agitando le braccia. «Quella stupida statuetta fu fatta da Miccheri,
uno scultore cremonese, che si regolò, per modellare la figura, sul
celebre quadro di Hamman, quadro che, come lei saprà, è opera di
pura fantasia. Non esiste nessun quadro di Antonio Stradivari e
quindi nessuno può veramente dire che faccia avesse il nostro amico.
Stradivari si alzò e indicò la
fotografia ovale, in cornice, di un vecchio signore dignitosissimo,
dagli stessi occhi ridenti e dallo stesso sorriso comprensivo del mio
ospite. «Mio padre» disse. «Si chiamava Libero ed era il miglior
avvocato di Cremona. Il suo studio era questo stesso studio. Lui pure
era un grande oratore. Lo chiamavano la Sirena del Foro di Cremona
per la sua voce, che sembrava quella di un vapore che ululi nella
nebbia. Papà faceva parte della Giunta Municipale e quando pronunciò
un discorso al Palazzo del Comune i giornalisti non si presero il
disturbo di salire le scale del palazzo per andarlo a sentire. Si
erano solo accertati che le finestre del salone fossero aperte e così
poterono sentire comodamente il discorso dal caffè sottostante,
prendendo appunti tra un bicchiere di vino e l’altro».
Stradivari mi mostrò un’altra
fotografia del padre in età più giovanile, in compagnia di tre
signori. Dedussi dagli abiti che i quattro portavano che la foto
risaliva agli inizi del secolo. La dedica sotto la foto diceva: «Al
mio sempre grande amico Libero Stradivari il suo Giacomo Puccini».
«Papà e Puccini erano intimi amici»;
spiegò Mario Stradivari. «Gli altri due sono Giacosa e Illica,
Illica volta la faccia dall’altra parte. E sa perchè? Gli mancava
un orecchio e non voleva che si vedesse. L’aveva perduto in un
duello. Era un tipo formidabile, Illica. Credo che abbia avuto
trentadue duelli nella sua vita, il che è qualcosa anche per il
librettista della Tosca. Lui, con Giacosa e Puccini avevano
l’abitudine di venire qui ogni tanto, a bere, a fare della musica e
cantare con papà, e con papà trascorrevano quasi tutta la notte
girando per Cremona e facendo un tale baccano da svegliare la città».
Stradivari sospirò. «A quei tempi»,
disse, la gente spendeva tempo e ingegno per divertirsi. Su ora,
venga nel mio appartamento a bere un bicchiere di vino. Aspetto un
amico questa sera. Le parlerà di Antonio Stradivari, molto di più e
molto meglio di quanto possa fare io».
Stradivariri con i ritratti di Rossini |
L’appartamento di Stradivari è al
secondo piano. La sua governante, una contadina dal viso aperto e un
grembiule bianco, ci venne incontro in anticamera. Stradivari le
disse di portarci qualcosa da bere e da mangiare, e presto. La donna
assunse di colpo un’espressione infelice e protestò che l’avvocato
le aveva per ben due volte assicurato che quella sera non sarebbe
venuto a casa per cena. Stradivari, a questo, sollevò un baccano
tremendo, e la governante corse via facendosi il segno della croce e
mormorando che forse in casa si trovava un po’ di formaggio e di
vino. L’avvocato mi condusse in un salotto spazioso e accogliente.
Il ritratto di una donna, dipinto nello stile di Monna Lisa del
Leonardo, dominava una parete. «Mia nonna, Lavinia Maini», disse
Stradivari, indicando il quadro. «Doveva essere stata una gran bella
donna. E questa», continuò volgendosi verso una fotografia, «è
mia moglie. Era molto bella. Noi Stradivari sposiamo sempre delle
belle donne». Stradivari sedette davanti a un grande piano a coda
presso una finestra. Disseminati sopra, sotto e tutto intorno al
piano, c’erano spartiti di opere e operette e montagne di
canzonette, insieme con fogli da musica, alcuni bianchi, altri
ricoperti di note scribacchiate a matita. Sulla parete presso il
pianoforte, una fotografia con firma autografa di Verdi. Sull’altro
lato della sala si vedevano due foto, entrambe, a quanto sembrava, di
Rossini. Stradivari mi disse che una sola, in realtà, era di Rossini
e m’invitò a capire quale fosse. Tentai, ma lui si mise a ridere,
dicendo che m’ero sbagliato, come capitava a tutti. «Ecco, ora le
mostro chi è l’altro», concluse. Si trasse un pettine di tasca e
si acconciò i capelli in avanti fino a farli ricadere quasi sugli
occhi, si allargò il nodo della cravatta e rialzato il bavero della
giacca e assunta la stessa posa della foto, divenne l’immagine
perfetta dell’autore del barbiere. Stradivari era chiaro, si
divertiva un mondo.
Picchiarono alla porta e un ometto
dallo sguardo intenso e penetrante, gli occhiali cerchiati d’osso e
l’aria affannata, entrò col fiato grosso e una gran borsa
rigonfia. Stradivari lo accolse con esuberante cordialità, e me lo
presentò come il suo amico Renzo Bacchetta, professore alla Scuola
Internazionale di Liuteria, oltre che giornalista noto e specialista
cittadino di Stradivari. Quest’ultima prerogativa ebbe il potere di
rattristare profondamente Bacchetta. «Oh, non creda che questo
m’abbia reso popolare presso i Cremonesi!», disse. «Non sanno
niente di niente, quanto a violini, e gliene importa ancora meno,
tutto quello che conta, qui, è che il prezzo del formaggio resti
alto..». Stradivari lo scosse energicamente per le spalle. «Niente
piagnistei questa sera, Bacchetta», urlò. «Questo mio amico è
venuto fin dall’America per sentire qualche gustoso scandalo sulla
famiglia Stradivari».
L’ometto annuì. «Gli hai detto
quello che è il vero scandalo?», domandò con voce amareggiata.
«Che nessuno a Cremona possiede un solo violino creato da
Stradivari, Amati o Guarneri? Sì, caro signore»; continuò in tono
drammatico, «Cremona ha tradito la sua tradizione migliore.
Formaggiai, setaioli, locandieri sembra che si vergognino di Antonio
Stradivari. Hanno la coscienza sporca. Dicono di non poter spendere
qualche milione di lire per erigere un monumento a Stradivari. Hanno
dato il suo nome a una strada, come se fosse stato un membro della
Giunta municipale, ma non saprebbero ricomperare uno dei suoi
violini. Se un cremonese vuole vedere uno Stradivari deve prendere il
treno e spingersi fino a Parigi, o Amsterdam, o New York». La voce
di Bacchetta si spense, e l’uomo si lasciò andare malinconicamente
su una sedia. La governante entrò con un vassoio su cui aveva
disposto parecchie bottiglie di vino, piatti e bicchieri e alcuni
grossi pezzi di gorgonzola. Stradivari la redarguì dolcemente per
essersi fatta tanto aspettare. «Su, prendiamo un po’ di vino e
formaggio»; disse Stradivari. Bacchetta inghiottì la saliva e lo
guardò di sbieco. «Formaggio, ancora e sempre formaggio», disse.
Ovunque io vada, non faccio altro che vedere, non faccio che sentire
formaggio. Anche in casa di Stradivari!». Mario riempì i bicchieri
con un liquido color ambra. «Provi questo», mi disse. «E’ fatto
con le arance della mia tenuta. E’ molto forte. Su, allegro,
Bacchetta. Le cose potrebbero andare molto peggio. Dopo tutto, c’è
un autentico Stradivari in questa casa». Indicò se stesso e noi
tutti alzammo i bicchieri.
Due ore e tre bottiglie più tardi,
Stradivari tornò davanti al pianoforte e si chinò a pescare alcuni
fogli di musica dal mucchio che aveva accanto a sé sul pavimento.
Era lo spartito di un’opera intitolata “Le Nozze in Turenna”.
Le carte di Mario Stradivari |
Fui sorpreso di vedere che il nome del
compositore era Mario Stradivari. Bacchetta mi disse che Mario è
noto e apprezzato compositore, «in tutta Italia, meno che che nella
sua città».
Ha scritto due opere, tra cui “La
Leggenda del Gatto con gli Stivali” e un gran numero di
composizioni minori e molte canzoni popolari, che spesso anche la
radio trasmette.
«La Leggenda», mi disse Mario, «fu
presentata nel 1935 e “Le Nozze in Turenna” ebbero la loro prima
due anni dopo...e anche la loro ultima, si potrebbe dire. Il libretto
è tolto da un testo di Balzac. Ora vi canto il duetto d’amore».
Stradivari, dopo aver sonato il
preludio, cominciò a cantare. La sua voce, sebbene non educata,
indicava tutto il genio italiano per il canto: ritmo e intonazione
erano perfetti.
Stradivari stava per ricominciare,
quando qualcuno si mise a picchiare dall’altra parte del muro.
Mario non se ne dette per inteso e
riprese a sonare, senza più badare ai colpi, che continuavano a
intervalli. Era il direttore del museo locale, che abitava alla porta
accanto, un uomo non molto amante né della musica né dei violini.
«Il museo ha tre grandi sale piene di
monete medievali», disse Bacchetta rabbiosamente, «ma non c’è
che una saletta per i ricordi di Stradivari e degli altri liutai.
Pensare che quelli del museo non hanno nemmeno voluto imprestarmi il
diario di Cozio di Salabue, che sono stato io a pubblicare». Commisi
l’errore di chiedere chi fosse Cozio di Salabue.
Bacchetta si eccitò tutto, aprì la
sua borsa e ne trasse un grosso manoscritto. «Duemila pagine»;
disse. «Mi ci sono voluti nove mesi, sedici ore al giorno, due lenti
d’ingrandimento e tre segretari per pubblicare questo diario, dato
che esso contiene gli elementi più sensazionali che mai si abbiano
avuti su Antonio Stradivari».
Chiuse un occhio, strinse le labbra e
alzò solennemente la mano destra. «Nessuno può intimidire o
corrompere Bacchetta», disse. «Il diario verrà pubblicato l’anno
prossimo, e desterà una impressione enorme, le assicuro. Innanzi
tutto, proverà che Antonio Stradivari non nacque nel 1644, come
sostengono alcuni, ma nel 1684. Il Conte Alessandro Cozio di Salabue,
sul cui diario Bacchetta basa le sue convinzioni, era un nobile
piemontese che viveva a Casale Monferrato agli inizi del
diciannovesimo secolo e possedeva una grande collezione di cimeli di
Stradivari: strumenti, lettere, disegni, utensili, e formule per fare
la sua famosa vernice. Aveva comperato tutto ciò dal figlio più
giovane di Antonio Stradivari, Paolo, mercante di stoffe che non
sembrava avere il minimo interesse per la liuteria. Le biblioteche
musicali hanno il pedigree scritto di quasi ogni stradivarius
accreditato, coi nomi di tutti i suoi successivi proprietari e il
periodo in cui fu in loro possesso, onde la storia d’ogni volino
può, o così generalmente si crede, essere ricostruita fino a quando
esso lasciò il laboratorio del suo creatore.
Ma Bacchetta non la pensa così. «Cozio
non era soltanto un collezionista, ma anche un abile uomo d’affari»,
mi disse. «Alcuni fra i più notevoli stradivari sono quelli che
portano la data degli ultimi anni del Maestro: il 1736 e il 1737.
Cozio ammette nel suo diario di avere alterato l’anno sulle
etichette di parecchi stradivari trasformando il 1727 in 1737, e il
1730 in 1736. E’ abbastanza facile cambiare il 2 in 3 e lo 0 in 6,
e Cozio probabilmente accumulò un bel patrimonio col suo piccolo
falso. Sarà un gran brutto giorno per i possessori di qualche
stradivario di tarda fattura quando verrà pubblicato il diario».
Mario era chiaramente stanco delle chiacchiere di Bacchetta e tornato
allo strumento si mise a sonare, cantando, alcune arie della
Traviata. I picchi sulla parte ricominciarono e Bacchetta dovette
alzare la voce per essere udito.
«Nei suoi ultimi anni Stradivari
soleva talvolta scrivere la sua età sull’etichetta d’un violino
che aveva appena terminato», disse. «Su un ben noto Stradivari si
legge Stradivarius faciebat anno 1736 d’anni 92».
La musica e il canto di Mario
aumentarono e i pugni sul muro divennero ancora più frenetici.
Bacchetta dovette mettersi letteralmente a urlare.
«Ciò porrebbe l’anno della nascita
di Stradivari nel 1644», annunciò venendomi accanto a afferrandomi
per il bavero della giacca. «Ma e se si trattasse d’uno dei
violini a cui Cozio cambiò data?».
Squillò il campanello e la governante
entrò per urlare non so cosa a Stradivari, che ora stava cantando
Wagner. Egli non le badò minimamente. La donna uscì dalla stanza
per tornare dopo qualche istante annunciando che i vicini intendevano
chiamare la polizia se il fracasso non avesse avuto fine.
Stradivari le ordinò di andarsene ma
smise di sonare e ci propose di andare al Ponchielli, dove avremmo
potuto sonare e cantar a piacimento.
«Sono le undici passate», disse
Bacchetta, «e il teatro sarà chiuso». Stradivari disse ch’era
quello che ci voleva: almeno nessuno ci avrebbe disturbato. Si mise
in tasca una bottiglia di vino, ne porse un’altra a me e una terza
a Bacchetta. Questi ripose con la massima cura il manoscritto nella
borsa, con l’aria di un uomo che ha la responsabilità di un
segreto atomico.
«Forza, amici, cantiamo!»,
s’interruppe per urlare. «Sempre si canta in casa Stradivari!».
Fuori tutto era tranquillo e avvolto
nella nebbia. L’aria fredda parve avere un effetto calmante su
Stradivari. Cessò di cantare e, mentre camminavano, si mise a
parlare delle reazioni dei suoi compatrioti sul suo nome. Il teatro
era buio e deserto. Girammo dietro l’edificio fino alla porta del
palcoscenico, dove Stradivari, attaccatosi al campanello, cominciò a
urlare. Dopo un po’ il custode, un vecchio decrepito, fece la sua
comparsa, portando una giubba macchiata su tutto un assortimento di
biancheria intima. Cominciò a maledire noi e i nostri avi, ma il
volto gli si illuminò tutto quando riconobbe Stradivari e i due
cominciarono a darsi delle gran manate sulle spalle. Ciabattando
davanti a noi e accendendo le luci a mano a mano che si procedeva, il
custode ci portò nel suo sgabuzzino dove tutti bevemmo vino dalla
bottiglia di Stradivari. Il sipario era alzato e la scena quella del
quarto atto del Rigoletto, ch’era stato dato quella sera. Mario
Stradivari si spinse fin presso le luci della ribalta, con gli occhi
spazianti sulla vasta e buia platea, e cominciò a cantare. Cantò
quasi tutte le arie celebri del Rigoletto, e, infine si dichiarò
assetato e il custode corse a prendere dei bicchieri. Giunti alla
terza bottiglia, Stradivari, il custode, Bacchetta e io stavamo
cantando il bel quartetto del quarto atto dell’opera, con Bacchetta
e il sottoscritto che facevano le parti da donna. Dopo ogni numero,
il custode accendeva tutte le luci della platea, Bacchetta faceva
scendere il sipario, e tutti e quattro avanzavamo fino alla ribalta,
inchinandoci ai frenetici applausi di un invisibile pubblico in
delirio. «Che straordinario cantante sarebbe stato l’avvocato!»,
disse Bacchetta con profonda ammirazione. «Che forza! Che
personalità! E invece perde il suo tempo a salvare la vita alla
gente. E una vergogna!».
Stradivari, Bacchetta e io lasciammo il
teatro alle due. «Ora è il momento giusto di fare una visita
ufficiale alla casa di Antonio Stradivari», disse Mario, guidandoci
verso piazza Roma, ch’era nel centro della città. Anche a
quell’ora la piazza era ben illuminata. Su di un lato c’erano i
giardini pubblici e sull’altro uno di quei palazzoni per uffici in
stile neoclassico, con facciata marmorea e ingressi grandiosi che
Mussolini aveva fatto erigere in tutta Italia per dar lavoro ai
seguaci del fascismo. Stradivari indicò un piccolo pannello di marmo
proprio sopra una delle vetrate. «Ecco!», disse. Guardai e lessi:
“Qui sorgeva la casa dove Antonio Stradivari recando a mirabile
perfezione il liuto levava alla sua Cremona nome imperituro di
artefice sommo”. «Ecco tutto quello ch’è rimasto a ricordare ai
cremonesi che la casa di Stradivari un tempo sorgeva qui» , disse
Mario. «Il Governo l’abbatté nel 1928, perchè aveva bisogno di
questo terreno per il nuovo palazzo. Mio fratello e io abbiamo
cercato invano d’impedire al Governo di farlo». Bacchetta sospirò.
«Immagini!», fece. «Proprio qui davanti a noi si trovava una volta
il laboratorio di Antonio Stradivari. Era una casa di tre piani. Mi
ricordo che c’era una sartoria e una sala da biliardo a
pianterreno. Fu probabilmente in quella casa che Antonio Stradivari
costruì la maggior parte dei suoi violini. La casa aveva il tetto
piatto e Antonio poneva i suoi strumenti verniciati di fresco ad
asciugare su quel tetto».
Tornammo sui nostri passi e
attraversammo i giardini pubblici. Eravamo quasi giunti all’altra
estremità quando Mario si fermò di colpo e indicò dietro una
panchina un blocco di pietra alto cira un metro, che sembrava essere
stato lasciato là per errore.
La lapide di Stradivari in piazza Roma |
«Si chini», mi disse, accedendo il
suo accendisigari per aiutarmi a vedere meglio. Proprio sopra il
terreno, sulla parte più bassa del blocco, lessi il nome di
Stradivari. Mario si tolse il cappello. «Signore», mi disse
solennemente, ma con gli occhi che ridevano. «Lei si trova di fronte
a tutto ciò che resta della tomba di Antonio Stradivari. Su,
Bacchetta», soggiunse, «raccontaci quello che è successo». «Non
c’è molto da dire. Ma è la pagina più triste della storia di
Cremona. Nessuno sa esattamente cosa sia accaduto. Dicono oggi che il
terreno servisse per farne non so che campo sportivo, ma la verità è
che nel 1869 un impresario edile di Milano pagò ai maggioraschi di
Cremona, un gruppetto di politicanti corrotti, quarantaduemila lire
per il privilegio di demolire la chiesa di San Domenico, che si
levava là, presso la piazza. Trasportò via i materiali e li
vendette. La tomba di famiglia di Stradivari era proprio qui, nella
Cappella del Rosario della Chiesa. Antonio morì il 18 dicembre
1737...questa è una data certa, a ogni modo...e fu sepolto il giorno
successivo, e in seguito quasi tutti i suoi figli vennero sepolti
accanto a lui. Durante la demolizione della chiesa la tomba venne
aperta e le ossa ne furono rimosse. Che ne fu poi? Forse gli operai
le portarono al cimitero e le gettarono nella fossa comune. O forse,
stanchi, si limitarono a gettarle nel Po, che scorre a pochi minuti
di distanza di qua. Comunque sia, questa è la definitiva e crudele
ironia del fato di un uomo di cui non sappiamo quasi nulla e che ci
ha dato tanto.
Due carabinieri, che facevano il giro
lentamente della Piazza Roma, si fermarono sul lato opposto dei
giardini per osservarci con sospetto.
«Scommetterei i miei manoscritti del
diario di Cozio che non sanno neppure che cosa rappresenta questa
pietra», disse Bacchetta, guardando con occhi di fuoco in direzione
dei tutori dell’ordine. «Ben poche persone lo sanno a Cremona. E’
qui che vorremmo erigere un monumento come si deve ad Antonio, ma
come le ho detto, i formaggiai continuano a dire che non possono
spendere tanti quattrini». Stradivari cominciò a canticchiare
un’aria. «Ho scritto le parole e la musica di una canzone chiamata
“Addio mia vecchia Cremona”», disse. Prese a cantare,
strimpellando una chitarra immaginaria. «E’ in dialetto cremonese
», spiegò poi, dopo aver cantato alcune strofe dal suono strano. «E
significa: “Si dice che la notte il vecchio Stradivari venga nei
giardini a vedere il suo monumento. Ma, purtroppo, tutto quello che
trova sono due mascalzoni che usano la pietra funeraria per i loro
bisogni». Si mise a ridere e ripetè il ritornello. Bacchetta gli si
accompagnò, cantando a gran voce in tono di sfida, gli sguardi fissi
sui carabinieri, che seguitavano a osservarci esattamente dal punto
dove un tempo doveva essersi trovato il laboratorio di Stradivari.
Mario e Bacchetta continuarono così per un bel pezzo, le voci alte e
beffarde, finchè i due carabinieri si voltarono e scomparvero
lentamente tra le vecchie case di Cremona.
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