E' il gennaio del 1946. Una bambina
scende dal treno alla stazione di Cremona, con le piccole mani
nascoste dietro alla schiena. Marisa le si avvicina: «Ma perchè non
le porti davanti così le tue manine?». «Ci sono comunisti?»,
chiede timidamente la bambina. «Perchè cara?». «Perchè tagliano
le mani». E' una delle testimonianze raccolte da Fabio Abeni e Gian
Carlo Storti tra le donne cremonesi che in quegli anni si prodigarono
in una gara di solidarietà preziosa e silenziosa, riportata
recentemente alla luce in un libro di Giovanni Rinaldi, “I treni
della felicità” (Ediesse, 2009) e in un documentario “Pasta
nera” di Alessandro Piva, presentato a Venezia nel 2012. Furono
settantamila, in quegli anni di fame e speranze, i bambini
meridionali salvati dalle donne del Nord, mogli di operai e
contadini, quasi tutti ex partigiani, che per aver toccato con mano
la miseria non esitarono ad ospitare, anche per anni, i figli dei
braccianti del Sud rimasti incarcerati o disoccupati e costretti ad
emigrare. Una gara di solidarietà combattuta spesso contro la
diffidenza degli stessi uomini e dell'apparato politico. I bambini
venivano da Cassino bombardata dagli anglo-americani, da Roma piena
di baraccati e affamati, da Napoli semidistrutta dalle bombe., da
Milano e Torino falcidiate dalla disoccupazione Viaggiavano sulle
panche di legno di quei treni malandati, che per loro erano i “treni
della felicità”. «L'idea è nata da un ricordo di mia nonna
paterna – spiega Fabio Abeni – che da giovane madre, nel
dopoguerra, trovava tempo e energie per dedicarsi non solo ai propri
figli, ma anche a quei bambini che provenivano da zone ancor più
disastrate dalla guerra. Lei contribuiva ad organizzare il ristoro e
l'attività ricreativa di quesit bambini alla cooperativa “Carlo
Marx” che si trovava di fronte a casa sua, in via Pippia,
sull'angolo con via Mantova». L’iniziativa era nata a Milano dalla
fantasia e dalla passione di Teresa Noce, una dirigente comunista,
moglie di Luigi Longo (dirigente del CLN e del Pci di cui fu anche
segretario dopo la morte di Togliatti) che dopo aver combattuto in
Spagna con le Brigate internazionali ed essere stata internata dai
nazisti nel campo di Ravensbrük, era riuscita, subito dopo la
Liberazione, a rientrare in Italia. “I
bambini affamati erano tanti. Cominciava il tempo umido e freddo e
non c’era carbone. I casi pietosi erano molti, moltissimi. Bambini
che dormivano in casse di segatura per avere meno freddo, senza
lenzuola e senza coperte. I bambini rimasti soli o con parenti
anziani che non avevano la forza e i mezzi per curarsi di loro.
Bambini ammalati, che per il momento dovevamo escludere dalla lista e
cercare di far ricoverare in ospedale. Bambini lerci, pieni di croste
e di pidocchi”. Da Milano, per salvare dalla fame e
dalle malattie i bambini più poveri, aveva chiesto aiuto alla
federazione del Pci di Reggio Emilia che si offrì di ospitare, già
in quel primo inverno dopo la fine della guerra, un gran numero di
bambini. Nello spesso periodo a Roma c'erano bambini costretti a
vivere nel dormitorio di Primavalle, in un ambiente non certo adatto
alla loro giovane età, a loro vene offerta una prima forma di
accoglienza attraverso le colonie organizzate, non con poca fatica,
dalle donne dell’UDI che, si preoccupavano già di trovare famiglie
disponibili in Emilia Romagna e Toscana durante gli inverni del ’46
e del ‘47. L’esperienza positiva indusse a creare nuove occasioni
di solidarietà. Dopo Roma e Cassino toccò a Napoli e poi a San
Severo di Puglia, dove il 23 marzo 1950 uno sciopero non autorizzato
si trasformò in tragedia:
i braccianti si ritorsero contro la polizia al grido di «Pane e
lavoro!». Ne conseguì l’arresto di 180 persone ed un processo che
durò due lunghissimi anni con l’assoluzione e la scarcerazione di
tutti gli imputati. I loro figli furono
ospitati,
o meglio presi in affidamento, da famiglie di lavoratori del
Centro-Nord in segno di solidarietà, fino a quando non furono
assolti e scarcerati due anni dopo. Le donne trovarono medici per
fare visitare e curare i bambini, donazioni di indumenti, biancheria,
calze e scarpe, ambienti pubblici e privati che risposero
all’iniziativa e tutto andò per il meglio sino al momento di
organizzare la partenza. Si trattò di uan vera e propria rete di
solidarietà sostenuta dall'Udi (unione donne italiane) e dal Partito
Comunista, il Governo mise a disposizione i treni e si formarono dei
comitati nei comuni più disastrati, che stilavano liste nelle quali
i genitori potevano inserire i nomi dei propri figli così da pote
assicurare loro un posto su quei convogli. L'Emilia Romagna, le
Marche e la Toscana furono le regioni più accoglienti, anche perchè
lì era più forte la presenza del Pci. Già in occasione del V
Congresso la federazione modenese dichiarò la propria disponibilità
ad accogliere tremila bambini, organizzando un primo scaglione di 750
che sarebbe dovuto partire il 10 gennaio 1946, ed in collaborazione
con il vescovo a garantire il loro inserimento nel sistema scolastico
provinciale.
Domenica 27 gennaio
1946 c'è attesa in stazione: “ll treno ritarda. La folla si agita
impaziente. Arrivano le autorità: il Sindaco di Cremona, il Maggiore
dei Carabinieri, il Capo di Gabinetto del Questore, ed altre
personalità invitate dal Comitato per l’Infanzia. Numerose ragazze
potanti al braccio la fascia del Comitato per l’Infanzia vanno
frettolose avanti ed indietro, dalla Stazione al Centro Scolastico di
via Trento e Trieste adoperandosi affinché tutto sia fatto nel
migliore dei modi. … Il treno si arresta. ... Sono tanti; oltre
cinquecento che verranno divisi tra Cremona e Mantova. Dall’ultimo
vagone scendono quelli che rimarranno nella nostra città. Sono solo
cento. È caduta improvvisamente molta neve che ha impedito ai bimbi
della provincia di giungere nella città di Torino da dove avrebbero
dovuto partire”. Il 3 febbraio arrivano altri 400 bambini,
concentrati presso la scuola di viale Trento e Triste e poi smistati
presso le famiglie, che provvedono agli accertamenti sanitari presso
il dispensario provinciale. Cominciano però anche i primi screzi,
dovuti all'intemperanza di qualche prelato troppo sensibile
all'iniziativa di solidarietà, targata inevitabilmente Pci. “Il
parroco di Izano, Don Vailati – informa “Lotta di Popolo” -
leggendo sull’Unità del 5 febbraio 1946 le espressioni del Vescovo
di Crema sull’iniziativa di ospitare i bimbi
bisognosi ha riprovato pubblicamente l’operato di Mons. Francesco
Maria Franco dicendo che «Il
Clero non si deve per nessun motivo associare a delle iniziative di
carattere assistenziale proposte dal Partito Comunista Italiano, in
quanto ciò è contrario alle disposizioni papali circa il
pericolo dell’ideologia marxista e la lotta che la chiesa deve
condurre contro il Partito stesso e che
pertanto i preti hanno il dovere morale e professionale di avversare
il comunismo dal pulpito»”. Alla
fine di febbraio arrivano altri duecento bambini da Milano e “Lotta
di Popolo”, a titolo di esempio, cita quanto sta avvenendo nella
vicina Parma: “E' giunto alcuni giorni fa a Parma il primo
scaglione dei bimbi di Cassino che numerose famiglie della città si
sono offerte di ospitare, in seguito alla campagna condotta dai
comunisti in quella città come in tutta l'Italia. Ad accoglierei 302
piccoli ospiti c'era alla stazione, oltre ai membri del Comitato
d'onore, una numerosa folla. I bimbi erano accompagnati da alcune
crocerossine e da venti mamme, che hanno così potuto sincerarsi di
persona sulla falsità della propaganda di una parte del clero di
Cassino il quale aveva asserito che i bambini sarebbero addirittura
stari trasportati...in Russia. Da notare che nella città di Parma il
clero ha invece aderito alla nobile iniziativa dei comunisti e che il
Vescovo della città, monsignor Evasio Colli, fa parte del Comitato
d'onore”.
A marzo i bambini
arrivati nel cremonese erano già ottocento. A Pizzighettone si
mobilitò anche il personale del Genio militare: il colonnello
Concarò e il tenente colonnello Rossi organizzarono una veglia
danzante il cui ricavato fu versato al Comitato d'Infanzia, ma
soprattutto si occuparono di confezionare calzature di cuoio per i
piccoli ospiti oltre a cento paia destinate ai bambini poveri del
paese e il direttore dello stabilimento Pirelli Luigi Burzi consegnò
50 metri di seta bianca e 50 di tela grigia per confezionare vestiti.
Richieste
di aiuto arrivavano anche da Massa Carrara: Cari compagni –
scrivevano dalla federazione del Pci – ci rivolgiamo a voi per
chiedere anche quest'anno il vostro aiuto. Tanti per darvi qualche
cifra pensate che su 30.000 unità lavorative circa 22.000 sono
disoccupate e che la nostra provincia non ha nessuna risposta locale
né agricola, né industriale, per la sua conformazione geografica e
per le distruzioni della guerra. Pensate poi che presso i nostri
dispensari antitubercolari, si riscontra come minimo un nuovo caso
giornaliero di tbc nei bimbi al di sotto dei 14 anni. Vi chiediamo
perciò anche quest'anni di venirci in aiuto, di fare qualche cosa
per noi edi special modo per i nostri bambini; vi chiediamo ossia se
non avete la possibilità di ospitarcene qualcuno presso le famiglie
della vostra provincia. Noi sappiamo che vi chiediamo molto, e vi
confessiamo che abbiamo riflettuto a lungo prima di farvi una simile
richiesta. Ma siamo in inverno e qui la gente muore di fame”. La
risposta non si fece attendere: “Anche noi cremonesi- scriveva
Stella Vecchio – come i compagni emiliani vogliamo strappare dalle
case fangose dei più poveri quartierid i Napoli e Carrara, al
freddo, alla fame, alle malattie e alla corruzione migliaia di
bambini, e ci riusciremo, ne siamo certi”. I primi 50 bambini
arrivarono a marzo del 1947. Un mese dopo fu la volta dei piccoli
napoletani: ne arrivarono un centinaio, ma non tutti riuscirono a
trovare subito una casa e le femmine vennero ospitate presso la Casa
di Nostra Signora ed i maschi al Collegio vescovile Sfondrati. Il
Comitato Cremonese rivolse un nuovo appello alla città: “Chi può,
aiuti!”. Gli stessi operai napoletani avevano regalato 3 o 5 ore
del proprio raccogliendo 300 mila lire per fornire il vestiario ai
bimbi destinati al Nord. Nei primi mesi del 1948 altri 130 bimbi
furono accolti in città per iniziativa dell'Alleanza Femminile del
Fronte Democratico Popolare, altri arrivarono l'anno successivo da
Avellino, altri dal delta padano nel gennaio 1950 e 1951.
«Francamente non è facile capire fino a quando vi fu un'attività
significativa – spiega Fabio Abeni – L'iniziativa ebbe una
evoluzione che consentì, fino ai primi anni Cinquanta di fare fronte
ad alcune importanti emergenza nazionali che richiedevano questo tipo
di solidarietà, incluse azioni a supporto dei figli delle mondine e
alle grandi agitazioni sindacali del Sud Italia. Non mi ha stupito la
solidarietà dimostrata da persone che credevano in un ideale
importante e nemmeno la capacità organizzativa di quelle persone,
molte delle quali avevano affrontato situazioni decisamente più
difficili negli anni di guerra appena trascorsi. Ha colpito me e
tante gente il fatto che le stesse persone che sono state
protagoniste di questa impresa spesso non avevano loro stesse
compreso la grandezza dell'iniziativa su tutto il territorio
nazionale».
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