I frammenti del servizio in porfido rosso di Nerone |
Quel gran pettegolo di Svetonio forse aveva ragione. Aveva
ragione quando raccontava di come quel pazzo di Nerone, dopo aver dato fuoco a
mezza Roma per costruirvi la sua Domus aurea, l’aveva poi infarcita di ogni
sorta di preziosità artistiche, compreso un ineffabile servizio in porfido di
cui si era persa già ai suoi tempi qualsiasi traccia. Suppellettili rarissime,
realizzate in un materiale estremamente difficile da lavorare, uniche nella
loro preziosità e degne per questo di arredare la sontuosa dimora imperiale.
Ebbene tracce di quel servizio, quattro frammenti estremamente significativi,
visto che un altro di identica fattura è conservato solo nei musei di Berlino,
sono stati forse ritrovati in una stanza di quella che ormai viene definita
dagli archeologi la “domus degli uccelli” di piazza Marconi. La domus degli
uccelli presenta intatta un’unica stanza, appartenente al gruppo degli ambienti
di rappresentanza, scampata miracolosamente all’incendio appiccato dai flaviani
nell’autunno del 69 dopo Cristo: sulle sue pareti affrescate in azzurro, uno
dei colori preferiti dal mitico Fabellus, il pittore di Nerone, campeggiano
centinaia di volatili. Era sicuramente l’ambiente più lussuoso della villa che,
a sua volta, occupava con il giardino la superficie destinata all’intera
insula. La domus doveva essere arredata con mobili degni dei suoi abitanti:
oltre agli oggetti che aiutano alla ricostruzione della vita di tutti i giorni
ci sono oggetti di gran lusso che permettono di intravedere un tenore di vita
davvero di altissimo livello. Lo scavo della stanza 8 ha restituito alcuni
oggetti straordinari tra cui frammenti di due recipienti (un piatto e un
vassoio forse per la toeletta) in porfido egizio, si tratta di reperti
rarissimi che provengono normalmente da ambienti legati alla famiglia imperiale
di cui ci sono pochissimi esemplari fuori contesto cioè non databili o
collocabili cronologicamente. I pezzi di Cremona sono gli unici databili con
precisione poiché si trovano sotto gli strati della distruzione del 69 d.C.,
nella casa di età augustea. Sempre da quella stanza proviene un frammento del
panneggio di una statua a grandezza naturale di fattura raffinatissima. Il
servizio in porfido potrebbe provenire proprio dalla dimora neroniana. Sarebbe
stato Otone, sfortunato protagonista dell’anno funesto dei quattro imperatori,
a portarle con sé da Roma, dopo aver ricevuto la corona imperiale dal Senato,
nel quartiere generale di Brescello, dove il 16 aprile del 69, avuta notizia
della sconfitta nella prima battaglia combattuta alle porte di Cremona, si
suicidò. Il tesoro di Nerone, prelevato da Otone dalla domus aurea, per la
quale era presumibilmente stato forgiato, sarebbe stato portato a Brescello e
da qui, dopo il suicidio dell’imperatore sconfitto, da Vitellio nella villa di
piazza Marconi, prima che questo, a sua volta, si recasse a Roma per ricevere
l’incoronazione da parte del Senato. Che Otone potesse avere con sé parte del
corredo imperiale è giustificato anche da un altro particolare. La notte in cui
si suicidò bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici,
consigliò i soldati di affrettarsi a fare atto di sottomissione a Vitellio, non
volle dare ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, e,
soprattutto, scrisse una lettera alla sorella ed un’altra a Statilia Messalina,
vedova di Nerone, che aveva intenzione di sposare. Otone apparteneva ad una
antica e nobile famiglia etrusca residente a Ferento in Etruria, interessante
sito archeologico nei pressi di Viterbo. Sembrava inizialmente essere uno dei
più incauti e stravaganti giovani che circondavano Nerone e questa legame, che
poi si protrasse anche dopo il suicidio dell’imperatore, fu interrotta
bruscamente nel 58 a causa di una donna. Poppea era stata presa al marito da
Nerone per farne la sua amante. La decenza richiedeva che lei fosse maritata e
così l’imperatore la diede in moglie al suo favorito Otone convinto che non
avrebbe avuto problemi da questi. Ma Otone si innamorò di lei e, quando venne
il momento, rifiutò di mandarla a Nerone. Dopo minacce e appelli
dell’imperatore, il matrimonio fu annullato ed Otone mandato come governatore
nella remota provincia di Lusitania.
Un altro personaggio chiave della vicenda
è Cecina Alieno. Cecina Alieno era stato dapprima alleato di Servio Sulpicio
Galba che, all’inizio del 68, aveva dato corso in Gallia alla prima ribellione
contro Nerone. Il 19 giugno del 68 Nerone muore suicida, mentre in Spagna Galba
recluta una nuova legione assegnata a Antonio Primo che, l’anno dopo, avrà un
ruolo fondamentale nella distruzione di Cremona. Dopo aver ottenuto il titolo
di Augusto Galba si dirige verso Roma, dove giunge in autunno. Nella capitale
Galba non riesce a costruire attorno a sé un degno consenso e non riesce a
consolidare neppure presso le legioni il suo potere, al punto che lo stesso
Cecina suggerisce alle truppe a lui affidate di acclamare imperatore Aulo
Vitellio, già comandante della regione militare del basso Reno e console nel
48.
A Roma la situazione precipita: il 15 gennaio del 69 Galba
viene ucciso nel foro per mano del suo ex alleato Otone che ottiene subito
l’investitura dal Senato dando origine ad una situazione paradossale. Gli
imperatori sono a questo punto due: Aulo Vitellio impegnato in Gallia a
reclutare un suo esercito; Otone, riconosciuto dal Senato, ma non dalle legioni
della Britannia e del Reno, ed un terzo aspirante, quel Vespasiano che per il
momento preferisce attendere defilato in Palestina lo svolgersi degli eventi.
Ad Otone non rimane altro che cercare di difendere il suo titolo imperiale
muovendo alla volta della Gallia Cisalpina, per affrontare da un lato
l’esercito di Cecina Alieno e Fabio Valente, forte ormai di circa cinquantamila
uomini fra legionari ed ausiliari, che si appresta a valicare il Gran San Bernardo
per scendere nella Pianura Padana, e dall’altro per cercare di congiungersi con
il resto delle truppe rimastegli fedeli nelle regioni danubiane. Muove dunque
da Roma con circa 25.000 uomini e duemila gladiatori, con carriaggi e materiali
con l’obiettivo di assestarsi lungo la sponda meridionale del Po, disponendosi
a semicerchio tra Piacenza, all’incrocio tra la via Emilia e la Postumia,
Brescello e Modena. E’ in questa fase che con ogni probabilità Otone, non
confidando nella situazione, porta con sé parte del tesoro neroniano prelevato
dalla domus aurea trascinandosi dietro anche quei senatori ritenuti
inaffidabili che posizionerà poi nell’avamposto di Modena. Vitellio, dal canto
suo, ha la preoccupazione di raggiungere il più presto Roma per impedire al suo
avversario di rafforzarsi ed ottenere dal Senato quel riconoscimento che gli
potrebbe consentire di gestire le risorse statali. Di fatto, però, bisogna
prima assumere il controllo della Cisalpina, tappa obbligata per chiunque
voglia dirigersi a Roma, cercando di impedire il ricongiungimento delle varie
forze in campo. Cecina ha la fortuna di trovare la via più breve, favorito da
una primavera precoce, che gli consente di giungere a Cremona, come detto,
verso il 20 marzo. Vi si ferma e stabilisce la sua base operativa in un campo
fortificato vicino alla città, fra la via Postumia e quella che conduce a
Brescia. Per evitare di rimanere accerchiato tra le truppe di Otone che
giungono a sud e quelle a lui fedeli provenienti dalle regioni del Danubio
Cecina ai primi di aprile tenta di aprirsi un varco dando battaglia agli
otoniani sulla Postumia, nei pressi della località chiamata Ad Castores, per la
vicinanza ad un tempietto dedicato ai Dioscuri, ma la manovra si risolve in un
massacro di ausiliari.
Nel frattempo Otone giunge in prima linea prendendo
posizione a Brescello, mentre il nucleo più forte del suo esercito si
stabilisce dapprima fra Ostiglia e Verona, per intercettare i vitelliani in
marcia sulla Postumia orientale, e poi nei pressi di Bedriaco. Ai primi di
aprile giunge a Cremona anche l’esercito di Fabio Valente ed i vitelliani sono
ormai pronti a dichiarare battaglia. A questo punto Otone, prendendo tutti di
contropiede, decide di attaccare per primo, rimuovendo i due fidi generali che
lo avevano sconsigliato, Suetonio Paolino e Mario Celso. La decisione è stata
criticata dagli storici antichi ma probabilmente, come ha dimostrato Domenico
Vera nel capitolo riservato all’anno più lungo nel primo volume della storia di
Cremona dedicato all’età antica, la scelta di Otone derivava dal fatto che i
vitelliani erano impegnati nella costruzione di un ponte di barche davanti a
Cremona che se fosse stato ultimato in tempi brevi, avrebbe consentito agli
avversari di imboccare la via Emilia dirigendosi direttamente a Roma. Ritornato
a Brescello Otone decide in gran segreto di attaccare la mattina del 13 aprile,
ma per non destare sospetti, decide di accamparsi poco lontano dalla Postumia,
preferendo ripartire la mattina successiva. Ma l’effetto sorpresa non funziona.
La colonna è troppo lenta a causa dei materiali trasportati, e quando arriva a
4 miglia da Cremona, dopo aver percorso venti chilometri sulla Postumia è ormai
stremata. L’esercito è mal disposto e non riesce a muoversi con la necessaria
velocità a causa delle salmerizie e del terreno, continuamente interrotto da
filari di viti e da canali. Nonostante nelle truppe di Otone figurino la
temibilissima legione XIII Gemina e la XIV Gemina, celebre per aver sedato la
rivolta in Britannia, l’urto con i vitelliani è tremendo, grazie soprattutto
all’intervento provvidenziale degli ausiliari Batavi guidati dal prefetto
Alfeno Varo.
Cassio Dione racconta di quarantamila morti, ed anche se le
stime potrebbero essere esagerate, di fatto ancora un mese dopo i campi erano
cosparsi di cadaveri lasciati insepolti. Il giorno seguente iniziano le
trattative di pace tra Cecina ed i generali otoniani, quasi tutti veterani
collegati in qualche modo agli attuali vincitori attraverso servizi precedenti.
Nel frattempo le truppe sconfitte si arrendono, aprono gli
accampamenti e consentono l’ingresso dei vitelliani. Otone, raggiunto dalla
notizia a Brescello, si suicida come abbiamo visto il 16 aprile. E’ probabile a
questo punto che quanto poteva costituire il bagaglio “imperiale” passasse al
vincitore.
Vitellio, può dunque fare il proprio ingresso a Cremona
verso la fine di maggio per assistere allo spettacolo gladiatorio che Cecina
gli ha fatto allestire nell’anfiteatro, realizzato in legno nel giro di soli
quaranta giorni per punizione dai legionari della XIII Gemina, irrisi dai
cremonesi. Porta con sé il bottino sottratto a Otone, che può costituire un
valido aiuto economico nel corso delle successive iniziative militari.
Ma
intanto il vento cambia e per Vitellio, che nel frattempo è entrato in Roma
riconosciuto dal Senato, si prepara un nuovo scontro con i sostenitori di
Vespasiano, che aveva preferito attendere in Giudea l’esito degli eventi della
guerra civile. Riconosciuto imperatore ai primi di luglio ed ottenuto il sostegno
delle due legioni d’Egitto, delle province orientali e delle legioni danubiane,
Vespasiano elabora un piano di conquista dell’Italia che avrebbe previsto solo
l’occupazione di Aquileia da parte delle legioni più vicine in attesa di
rinforzi. Ma Antonio Primo, comandante della legione VII Galbiana decide di far
da sè mettendosi d’accordo con Cecina, a cui lo legava da anni un rapporto
d’amicizia. Agli inizi di settembre Primo si è già impadronito di alcuni centri
strategici della Venezia orientale, come Aquileia, Concordia, Oderzo ed Altino,
di Padova e di Este ed a fine mese, raggiunto dalla VII Galbiana e dalla XIII
Gemina si sposta a Verona. Ai primi di ottobre viene raggiunto dalle altre
legioni giunte dalla Mesia e può decidere di attaccare, soprattutto per
giustificare la sua intraprendenza con Vespasiano. Nel frattempo Cecina aveva
cercato di bloccare nella bassa veronese una nuova armata inviata da Vitellio,
non ancora consapevole del suo tradimento. Ma, una volta scopertolo intorno al
20 ottobre, l’armata viene costretta a dirigersi a marce forzate da Ostiglia,
dove era stata bloccata, a Cremona, occupata fin da settembre da truppe di
cavalleria e da due legioni. Sotto le sue mura in breve si trovano ben 50.000
uomini armati che non possono essere alloggiati, dal momento che la città è già
sovraffollata per la presenza di forestieri richiamati dalla fiera autunnale. I
vitelliani, sorpresi dal tradimento, pur potendo attendere non lo fanno ed
accettano la provocazione di Primo Antonio che aveva iniziato ad incendiare e
devastare le campagne vicine, fermandosi a otto miglia dalla città. Verso di
lui, che nel frattempo aveva richiamato altri armati da Bedriacum, iniziano ad avanzare due legioni, la I
Italica e la XXI Rapax, senza impedire, nonostante alcune scaramucce, che il
grosso delle truppe flaviane si ricongiunga all’avanguardia con una marcia
forzata di diciotto miglia. Intorno a Cremona si sta preparando una delle più
sanguinose battaglie dell’antichità. Nel tardo pomeriggio del 24 ottobre le milizie
di Primo vengono a conoscenza del ricongiungimento delle armate, prima condotte
da Cecina, al resto dei vitelliani e questo le costringe ad avanzare di due
miglia verso la città. Lo scontro avviene proprio sulla Postumia: una battaglia
lunga, discontinua e sanguinosa, combattuta l’intera notte al chiaro della luna
fino all’alba. Al mattino le ovazioni che le truppe siriane elevano al sorgere
del sole secondo l’uso orientale, disorientano ancora di più i vitelliani che
si rifugiano precipitosamente nell’accampamento attaccato su tre fronti da
cinque legioni. Chi non riesce a rifugiarsi dentro le mura di Cremona viene
massacrato senza pietà. Tacito ha riferito di numerose catapulte usate dai
vitelliani durante la battaglia alle porte di Cremona e di una rovesciata dagli
spalti sull’accampamento degli assedianti. Notizie che sono state poi
puntualmente confermate dal ritrovamento di due lamine di bronzo, mescolate a
ossa umane e crani fratturati, durante lavori di scavo nel 1887 fuori porta
Venezia, nell’area corrispondente alla porta settentrionale dell’accampamento
posta sulla strada per Brescia. La prima lamina si riferiva ad una catapulta
della IV Macedonica e portava scritto l’anno della costruzione, il 45 dopo
Cristo; l’altra si riferiva ad una macchina da guerra dei vitelliani fabbricata
nel 56.
Rimane da espugnare Cremona: alte mura da scalare, torri di
pietra e porte di ferro. I vitelliani si sentono al sicuro, protetti anche
dalla popolazione. In quel momento il prezioso vasellame proveniente dalla domus
aurea è al riparo nella villa, posta al limite opposto della città rispetto a
cui avviene la battaglia. Ma questo non basterà a risparmiarlo dalla
distruzione.
I flaviani iniziano l’assalto incendiando dapprima le
lussuose ville che si erano addossate da tempo alle mura e bersagliando con
dardi dal tetto degli edifici più maestosi i difensori posti all’interno della
città. Ma a pagare il prezzo più alto sono i civili. I militari, infatti, visto
il mal partito, decidono di arrendersi mandando Cecina, prigioniero, a trattare
con gli aggressori. Alla fine si accordano tutti quanti, dando il via al sacco
di Cremona.
Di chi fu la vera responsabilità non è chiaro. Tacito
insiste sul fatto che il popolo si sarebbe mescolato ai combattenti vitelliani,
foraggiati dalle donne cremonesi uccise a loro volta nel combattimento che durò
l’intera notte. Sull’astio che la XIII legione Gemina, costretta a costruire
l’anfiteatro di Cecina, avrebbe provato nei confronti dei civili che a suo
tempo li avevano derisi. Quasi a giustificare l’eccidio ricorda l’entusiasmo
che i cremonesi avevano riservato a Vitellio vincitore in maggio, la
gratitudine per lo spettacolo gladiatorio offerto da Cecina e l’oltraggio ai
caduti otoniani, commilitoni dei vincitori attuali. Circolò anche la diceria
che mentre Primo si trovava alle terme per lavarsi, lamentandosi per l’acqua
tiepida, un servo avrebbe gridato che la temperatura sarebbe salita, intendendo
come prossimo l’ordine di incendiare la città.
Plinio il Vecchio scrive però che lo stesso Primo aveva già
promesso ai suoi il saccheggio dei Cremona, già ricca ed in quei giorni ancora
più opulenta per la presenza di tanti visitatori della fiera autunnale. La
verità storica è che oltre quarantamila soldati assetati di bottino entrarono in
una città già divorata dagli incendi mettendola a sacco, penetrando nei templi
e nelle case, appiccando nuovi incendi, uccidendo e violentando per quattro
giorni di seguito fino a quando lo stesso Primo, consapevole dell’impopolarità
che ne sarebbe derivata, decise di porre fine al saccheggio ed ordinò che
fossero rilasciati i prigionieri, che nessuno voleva e che i soldati avevano
iniziato a giustiziare.
Di quella grande e magnifica città rimase in piedi solo il
tempio della dea Mefite, la protettrice delle paludi e dei loro miasmi
pestilenziali.
Se dobbiamo prestare fede alle fonti i saccheggi di Roma ad
opera di Teodorico nel 410 e di Genserico nel 455 risultano ben poca cosa
paragonati alla distruzione di Cremona. E a nulla valse l’intervento di Vespasiano
per favorirne la ricostruzione. Cremona non tornò mai più quella di un tempo.
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