venerdì 22 maggio 2020

Le impressioni cremonesi di Charles Dickens

Ritratto di Charles Dickens
E' una mattina fredda e umida di novembre quando un giovane scrittore inglese nel pieno del successo, accompagnato dalla giovane moglie, da uno stuolo di marmocchi, due governanti e un servitore di fiducia un po' factotum, percorre con la sua carrozza un traballante ponte di chiatte sul Po. Guarda con sguardo curioso ed accigliato l'acqua limacciosa e Cremona che emerge dalla nebbia autunnale. Si è riempito gli occhi nella bellezza di Venezia, ma quel viaggio tra acquitrini e strade fangose, locande sperdute nella campagna, e bambini cenciosi che ti circondano supplicanti per qualche moneta ad ogni sosta, grassi osti con logori grembiuli e donne precocemente invecchiate dalla fatica, gli sta mostrando quella faccia di un'Italia che nessuno gli ha mai raccontato. Osserva, sballottato dalla carrozza, e scrive qualche nota su un taccuino. Racconterà poi tutto, con dovizia di particolari, nelle lettere che trascriverà in bella copia la sera all'amico scrittore Douglas William Jerrold ed al critico letterario John Forster, che sarebbe diventato poi il suo biografo. Le lettere verranno poi pubblicate nel 1846 col titolo Pictures from Italy.
Charles Dickens ha trentadue anni ed è uno scrittore già molto popolare: al suo attivo può contare Oliver TwistIl Circolo PickwickNicholas Nickleby, La bottega dell’antiquarioBarnaby Roudge. Sta scrivendo e pubblicando a puntate il Martin Chuzzlewit che però non sta ottenendo il successo di pubblico che si aspettava e che risulta notevolmente inferiore a quello ottenuto dalle sue precedenti opere. Giovane e famoso, Dickens ha anche raggiunto una condizione economica più che agiata ma è continuamente assillato da richieste di denaro da parte del padre, si trova in periodo di impasse creativo, è stressato. Spera, con questo viaggio, di recuperare tranquillità ed ispirazione. Dickens viaggia con la moglie Catherine Hogard ed i loro cinque figli: Charles, di 7 anni, Mary, di 6, Kate, di 5, Walter di 3 anni ed il piccolo Francis Jeffery che non ha ancora compiuto un anno. Lo accompagnano anche due babysitter e il suo servitore tuttofare Louis Roche.
Il 16 luglio 1844 la carovana Dickens sbarca a Genova. Il soggiorno di un anno è punteggiato dalle 130 lettere conservate nella Pilgrim Collection che Charles scrive all'amico e agente John Forster, al contabile Thomas Mitton, al Conte d'Orsay, all'artista Clarkson Stanfield, al banchiere Emile De La Rue. Proprio al conte d'Orsay aveva sommariamente descritto le sue intenzioni: “Ho riflettuto a lungo sul da farsi e penso che starò tranquillo fino a quando non avrò terminato il mio libro di Natale, cioè, all’incirca, fino a metà ottobre. In novembre credo che mi muoverò con il mio servitore per Verona, Mantova, Milano, Torino, Venezia, Firenze, Pisa, Livorno, ecc. Tornerò per Natale, e resterò qui fino a tutto gennaio. A febbraio penso che mi rimetterò in moto e prendendo il vapore per Civitavecchia andrò a Roma, da Roma a Napoli e da Napoli all’Etna, che desidero moltissimo vedere. Quindi mi propongo di fare ritorno a Napoli per poi rientrare a Genova direttamente con il vapore. Per la settimana di Pasqua ho in mente di tornare a Roma di nuovo, portando con me mia moglie e sua sorella, questa volta”. Genova colpisce Dickens perl’inesplicabile sudiciume”,lo sporco scoraggiante”, i vicoli strettissimi, il disordine dappertutto, le puzze, anche se in quel periodo è una delle città più pulite d'Italia. Affitta poi una casa ad Abaro in cui soggiorna parecchi mesi ed anche qui le note parlano di rovina e trascuratezza. In viaggio per Bologna passa per la scura, decadente, vecchia Piacenza”, piena di erbacce sporcizia e pigrizia e da Parma.
F. Vertua, Veduta di Cremona, 1850 ca.
E' in questo tratto del viaggio che si inserisce la tappa a Cremona. Dickens attraversa la pianura compresa tra Mantova e Cremona, per poi andare a Lodi ed in seguito a Milano. Il viaggio è duro e faticoso e così lo descrive in un reportage sul quotidiano londinese Daily News. Dopo aver lasciato Mantova, “alle sei di mattina eravamo già in cammino. I campanelli attaccati ai finimenti dei cavalli tintinnavano al buio entro la fredda umida nebbia che copriva la città... La strada per Milano passa per Bozzolo “minuscolo stato indipendente un tempo e ora tra le città più squallide e afflitte dalla miseria. Qui il padrone della locanda stava distribuendo monetine di rame a un clamoroso stuolo di donne e di bambini dagli abiti cenciosi che svolazzavano al vento e alla pioggia fuori la porta, dov'erano raccolti per ricevere la carità”. Poi “La strada continuò ad allungarsi tutto quel giorno e il successivo in mezzo alla nebbia, al fango, alla pioggia tra vigne basse. Il primo luogo in cui si poté dormire fu Cremona, memorabile per le cupe chiese di mattoni e l’altissima torre, il Torrazzo, a non dir nulla dei violini che certo non produce più in questi tempi degeneri. Il secondo fu Lodi. Proseguimmo attraverso altro fango, nebbia, pioggia, acquitrini; passammo in mezzo a un nebbione quale gli Inglesi, irriducibilmente convinti di avere l'esclusiva di malanni particolari, non riescono a credere si possa trovare fuori Inghilterra, finchè non imboccammo la strada a lastrico per Milano. La nebbia qui era così fitta che il pinnacolo del famosissimo Duomo, per quel che si riusciva a scorgerne, poteva anche trovarsi a Bombay. Ma siccome allora ci fermammo solo qualche giorno e tornammo poi a Milano l'estate successiva, io ebbi più d'una volta comoda occasione di vedere la splendida fabbrica in tutta la sua maestà e bellezza”. A Milano Charles Dickens arriva il 18 novembre. Nel mezzo vi è la tappa cremonese, non sappiamo lunga quanto, ma certamente non più di due giorni.
La sera di sabato 16 novembre 1844 scrive da Cremona all'amico William Jerrold: “Mio caro Jerrold, se mezza pagnotta è meglio di niente, spero che anche questo mezzo foglio di carta che ti arriva da chi è sinceramente desideroso di restare nella tua memoria e amicizia sia meglio che non scriverti affatto. Avrei dovuto adempiere l'impegno che mi ero assunto a questo proposito già da un bel po', ma ne sono stato impedito ora dagli impegni, ora dal non avere a portata di mano penna e inchiostro. Forster ti avrà detto, o ti dirà, che tengo moltissimo a che tu venga alla mia lettura del breve Libro di Natale, così spero di incontrarti a Lincolns Inn Fields, se risponderai alla sua chiamata. Ho cercato di sferrare un colpo a quella parte della faccia di bronzo della Malvagia Ipocrisia che mi sembra più dolorosamente bisognosa di un complimento del genere in questo momento. E confido che il risultato del mio sforzo sia quanto meno la dimostrazione di un Vivo desiderio di farla vacillare. Se tu dovessi pensare, dopo aver letto le quattro parti (non ve ne sono altre) che la suddetta Ipocrisia, come si dice nella lingua delle Campane, «ne esce col fiato corto», la cosa mi farà sentire molto meglio. Sono adesso diretto a Milano da dove (dopo una sosta di un giorno o due) intendo venire in Inghilterra per il più maestoso Passo Alpino che la neve possa lasciare aperto.
Il posto da cui ti scrivo dovresti conoscerlo: è famoso per i violini, o almeno lo era. Attualmente, qui intorno, non ne vedo nessuno. In compenso c'è un'intera strada di calderai poco distante dalla Locanda, che battono in modo così dannatamente irregolare che poco fa, dopo mangiato, ho temuto per un attimo di avere le palpitazioni al cuore. Raramente mi sono sentito più sollevato che dopo essermi reso conto che il battito non proveniva dal mio interno”. Il giudizio di Dickens non ammette repliche: l'ultimo liutaio, Gaetano Antoniazzi, l’unico continuatore di Enrico Ceruti, si è trasferito a Milano con i figli portandosi dietro le antiche tradizioni cremonesi e a Cremona per la liuteria è iniziato quel declino che si arresterà solo verso la fine del secolo con Pietro Grulli, Aristide Cavalli e Giuseppe Beltrami ben lontani dalla dalle caratteristiche della grande scuola classica. La strada dei calderai a cui Dickens fa riferimento potrebbe essere molto probabilmente la Contrada del Corso dove, effettivamente, vi era una fabbrica con ben nove dipendenti. Un'altra bottega aveva sede in Contrada dell'Aquila, a poca distanza dall'albergo del Sole d'Oro, in pieno centro città nei pressi della chiesa di San Domenico. E, visto il riferimento alla scomparsa della tradizione liutaria, le cui botteghe avevano sede nella piazzetta antistante, l'alloggio dei Dickens potrebbe proprio essere quest'ultimo.
John Camden Hotten in “Charles Dickens: The Story of his life” (New York, 1870) riporta altre due brevi lettere di argomento personale scritte a William Jerrold sempre da Cremona, ma probabilmente il giorno dopo, in cui accenna alla decisione di ritornare a Genova alla volta del 9 dicembre, per fermarsi un'altra settimana prima di rientrare in Inghilterra.
Dickens era stato a Venezia il 12 novembre e ne era rimasto affascinato, poi, come racconta nella stessa lettera scritta da Cremona, si era trasferito a Verona e da qui a Mantova. “Sono rimasto alquanto scosso ieri (non sono molto forte in minuzie geografiche) nello scoprire che Romeo venne bandito a sole venticinque miglia. Tale è la distanza fra Mantova e Verona. Quest'ultimo è uno strano vecchio posto, con grandi case ormai solitarie e chiuse, esattamente come ci si aspetta che sia. La prima ha una gran quantità di farmacisti, tutt'oggi, che potrebbero interpretare la parte shakespeariana al naturale. Di tutti i piccoli stagni immobili visti finora, è il più verde e il più coperto d'erbacce. Sono andato a vedere il vecchio Palazzo dei Capuleti ancora contrassegnato da loro stemma (un cappello) scolpito in pietra nel muro del cortile. Adesso è una locanda miserabile. Il cortile era talmente pieno di carrozze, carri, oche e maiali da far girare la testa:e si affondava nel fango e nel letame fino alla caviglia. Il Giardino è murato e scorporato dal resto. Non c'è nulla che facesse pensare ai suoi abitatori di un tempo, se non una signora tutt'altro che romantica sulla porta della cucina, che somigliava a una vecchia Capuleti per il solo particolare di essere davvero imponente, come lo era stata la Famiglia. I Montecchi, invece, solevano risiedere in campagna, a circa due o tre miglia da lì. Non è molto chiaro se abbiano mai abitato nella stessa Verona, ma c'è un Villaggio che porta ancora oggi il loro nome, e le tradizioni dei litigi fra le due famiglie sono ancora vive come poche altre, in questi sonnolenti dintorni”.

Che la tanto sognata Italia avesse in parte deluso lo scrittore inglese, già poco incline allo stupore romantico in seguito all'insuccesso del nuovo romanzo “Martin Chuzzlewit”, pubblicato a dispense in quei mesi, lo si intuisce dalla ricerca di particolari realistici dai tratti“noir”, in un'atmosfera decisamente gotica costellata da mendicanti cenciosi, dai detriti delle strade, dalla decadenza dei monumenti, dal grigiore del clima, dai contrasti tra i grandi edifici e la desolazione delle città. Tuttavia, nonostante l'ironia ed il sarcasmo che caratterizza la sua distaccata osservazione al punto da segnalare quasi esclusivamente gli aspetti più negativi e ripugnanti, in una delle ultime lettere quando, sulla strada del ritorno, percorre le Alpi svizzere, torna a mostrare simpatia, ammirazione e umana comprensione per l'Italia: “Separiamoci dall’Italia, con tutte le sue miserie e i suoi errori, affettuosamente: nella nostra ammirazione delle bellezze naturali e artificiali di cui è piena fino a traboccarne e nella nostra tenerezza verso un popolo per la sua indole ben disposto, e paziente e mite. Anni d’incuria, d’oppressione e di malgoverno hanno esercitato la loro opera per cambiare la natura e piegarne lo spirito; meschine gelosie – fomentate da principi insignificanti per i quali l’unione significava la scomparsa – e la divisione delle forze, sono state il cancro alla radice della loro nazionalità e hanno imbarbarito il loro linguaggio; ma il buono che è sempre stato in loro è ancora in loro, e un grande popolo può, un giorno, sorgere da queste ceneri.

domenica 10 maggio 2020

I portinai del Po

E. Quiresi, il traghetto di Crotta d'Adda (1973)
Li chiamavano “I portinai del Po” e fino agli anni Sessanta, anche dopo la costruzione dei ponti di Cremona e Casalmaggiore, erano i “Caronti” che trasportavano merci e persone da una sponda all'altra del fiume. Figure un po' strane, abituate a vivere ai margini della città, tra le boschine e le nebbie autunnali, depositari dei segreti dell'acqua, pronti a sfidare le piene o a ingaggiare lotte con gli storioni, un po' barcaioli e un po' pescatori, autentici figli del fiume. Qualcuno di loro è entrato nella leggenda, come Pasquino Soriani, che nel mantovano a forza di remi aveva traghettato duecentomila persone e ne aveva salvate 60 che stavano annegando. Meritò una lettera del generale Alexander per aver aiutato, nell'ultima guerra, partigiani e alleati e poi i ringraziamenti degli alluvionati del Polesine che nel '51 andò coraggiosamente a recuperare. Alla morte, davanti alla sua casa rossa in golena, le bettoline che portavano nel 1957 il petrolio a Cremona suonarono a lungo la sirena. Altri sono stati eternati nelle splendide pagine di “Autobiografie della leggera” di Danilo Montaldi, come Teuta, cresciuto in una famiglia di pescatori lungo le rive del Po, che negli anni Venti traghettava d'estate i bagnanti davanti alle Colonie padane, e, come ricorda lui stesso “guadagnavo abbastanza bene per vivere onestamente”. Teuta, che lavorava sulla barca con altri quattro soci, era finito in galera la prima volta a 17 anni per una rissa avvenuta il 16 agosto 1907 all'osteria del Salice di Bosco ex Parmigiano, nel corso della quale, su di giri per il caldo ed il vino, aveva ferito ad un braccio un contadino con un coltello.
A Crotta d'Adda una scultura in cemento di San Cristoforo con in spalla il Bambinelloin via Cavallatico, nome che evoca il percorso dei cavalli che trasportavano la ghiaia e la sabbia recuperate dal letto fluviale, ricorda l'esistenza dell'attracco del traghetto che collegava la sponda cremonese con la dirimpettaia lodigiana. A guidarlo, ancora negli anni Settanta, era l'ultimo traghettatore, Orlando Grilli, ritratto con il suo traghetto in una splendida immagine di Ezio Quiresi del 1973. Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, Cristoforo, un giovane gigante vissuto nel III secolo alla ricerca della conversione, per esercitarsi nella carità aveva scelto di abitare lungo le rive di un fiume con lo scopo di aiutare i viaggiatori a passare da una riva all'altra. Una notte fu svegliato da un grazioso fanciullo che lo pregò di traghettarlo; il santo se lo caricò sulle spalle, ma più s'inoltrava nell'acqua, più il peso del fanciullo aumentava e a stento, aiutandosi col grosso e lungo bastone, riuscì a guadagnare l'altra riva. Qui il bambino si rivelò come Cristo e gli profetizzò il martirio a breve scadenza. Dopo aver ricevuto il battesimo, Cristoforo si recò in Licia a predicare e qui subì il martirio. 
L'epopea dei traghetti è ricordata da Franco Dolci nelle belle pagine di “Storie di fiume”. “Nel Cremonese – racconta Dolci - c’erano solo il ponte di Cremona e, a 45 chilometri, quello di Casalmaggiore. In alternativa, lavoravano i pittoreschi traghetti, rappresentati dalla barca a remi del “passatore” o da qualche grosso natante composto da due barconi in cemento e trainato da un vecchio motoscafo. Trasportavano persone, ma anche qualche automobile, o carichi di legname (le piante abbattute nei pioppeti limitrofi), carri e mezzi agricoli di agricoltori cremonesi (per esempio di San Daniele Po) che avevano terreni sulla sponda parmigiana.
E. Quiresi, il traghetto Stagno Lombardo-Polesine (1959)
I natanti trasbordavano anche allegre comitive di giovani che andavano alla “Festa de l’Unità” a Polesine Parmense. In quei momenti di allegria si esprimeva il piacere della libertà, dopo vent’anni di oppressione e terrore. Anche il fiume sembrava partecipasse all’esultanza collettiva per la riconquistata libertà. Su questi traghetti viaggiavano contadini, boscaioli, pescatori, merciai ambulanti senza licenza, imprenditori; i personaggi della legèera, cari a Danilo Montaldi; girovaghi, saltimbanchi come Braka, l’uomo dal triplice salto mortale che si esibiva nel rione Sant’Imerio a Cremona e nei paesi a cavallo del Po; le fattucchiere e gli strioni di cui parla Alberto Bevilacqua nei suoi libri dove si guarda al Po e alla sua gente con curiosità e tenerezza. I passatori, detti anche “portinai del Po”, erano noti lungo tutto il corso del fiume. Famoso era Orlando Grilli (detto Caronte) che traghettava in prossimità della foce dell’Adda. Con il suo traghetto univa la sponda cremonese (Crotta d’Adda) a quella lodigiana (Maccastorna). Orlando Grilli lavorò fin verso la fine del 1980. Poi un ponte moderno, costruito dalle amministrazioni provinciali di Cremona e Milano, rese inutile il suo servizio. Il “passatore” chiese a lungo di essere assunto come cantoniere presso l’amministrazione provinciale di Cremona, ma invano, perché era oltre i limiti di età.
Al traghetto Stagno Lombardo–Polesine Parmense provvedeva Dante. Da tutti era conosciuto con questo nome. Era anche socio della locale “Cooperativa Ghiaiaioli”. La forza di Dante si notava soprattutto quando era ai remi. Non aveva orari, bastava chiamarlo. Dalla sponda cremonese, portando le mani alla bocca, si urlava: «Dante! Dante!» Capitava che non rispondesse. Allora si ripeteva il grido e scattava il sistema di informazioni di cui Dante disponeva sulla sponda parmigiana. Dante appariva al suo porticciolo e gridava anche lui: «Vègni...!» Mollava gli ormeggi, infilava i remi negli scalmi (furcule) e si lanciava contro corrente, verso nord, poi a un certo punto del fiume cessava la vogata e sfruttava la corrente fino all’approdo. Legava la barca a un anello di ferro, caricava i passeggeri o le merci e prendeva la via del ritorno. Stessa spinta verso nord, stessa deriva verso il porticciolo parmigiano. Come passatore, Dante godeva di grande considerazione. Berengario, un merciaio ambulante senza licenza, era un suo grande amico: oltre a pagargli la modesta tariffa, gli offriva regolarmente uno dei primi bicchieri di bianco fresco fra i tanti che, con i rossi, avrebbe sorseggiato durante i suoi itinerari. Se al ritorno aveva un po’ di tempo, amava fare una partita di carte con Dante; poi il reimbarco e il paesaggio sul fiume nel tramonto infuocato”.
Prima nel marzo 1980 fosse inaugurato il nuovo ponte “Verdi” tra Isola Pescaroli e Roccabianca il servizio di trasporto era assicurato dal traghetto gestito da Natale Bia, un autentico uomo del Po che aveva trascorso la sua esistenza pescando, recuperando la legna semisepolta lasciata dalle piene sugli spiaggioni, cavando sabbia e ghiaia dal greto del fiume. L'imbarcazione era quasi in tutto simile a quella che garantiva il trasporto tra Stagno Lombardo e Porto Polesine, costituita da due grandi barconi di cemento coperti da un tavolato di legno trainati da un vecchio motoscafo. La gestione amministrativa del traghetto era affidata ad un consorzio dove erano rappresentate le due amministrazioni provinciali di Cremona e Parma e i comuni rivieraschi di San Daniele Po e Roccabianca.
Sempre Franco Dolci racconta come avvenne l'avvicendamento con il nuovo collegamento stradale tra le due sponde: “La lunga permanenza sul fiume lasciò il segno anche nella forte fibra di Natale Bia. Così il nostro “passator cortese” nel giugno 1975 rassegnò le dimissioni e il venir meno del traghetto provocò una crisi nel rapporto fra le sue sponde. Il blocco del servizio creò uno stato di agitazione nei suoi utenti. La stampa si fece portavoce del malumore diffuso e gli amministratori cercarono una soluzione. Quando la trovarono, si rivelò inadatta, al punto che per la negligenza del gestore che non aveva allentato gli ormeggi durante una piena, uno dei due barconi si inclinò e urtò con violenza contro la sponda sassosa del pennello e parzialmente naufragò. Si riprese allora un progetto che, in una prima formulazione risaliva addirittura al 1919 e il quale era stato riproposto, nel 1949, dal “piano” della Camera del lavoro: la costruzione di un ponte moderno che, con oltre 2 chilometri di lunghezza sarebbe stato il più lungo ponte fluviale italiano e che avrebbe risolto definitivamente le difficoltà dei rapporti fra l’Emilia Romagna e la Lombardia nella zona, favorendo lo sviluppo socio-economico della campagna spopolata a seguito delle trasformazioni dell’agricoltura. Nel 1975 venne firmata una intesa fra le amministrazioni provinciali di Cremona e Parma, e le amministrazioni regionali, con l’assenso del ministero dei Lavori pubblici. Le spese erano equamente ripartite tra le parti contraenti.
C’era intanto bisogno di un traghetto. Il Consiglio del Consorzio venne l’idea di rivolgersi a Gino Barbarini che appena era stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica, per la molteplicità dei suoi impegni: ristoratore-albergatore, impresario dell’estrazione di ghiaia e sabbia dal Po, operatore per lo sgombero della neve in lunghi tratti di strade provinciali, sempre impegnato per lo sviluppo economico-sociale del territorio. Era fra i più grandi sostenitori del nuovo ponte.
Il Consiglio del Consorzio, valutato tutto, optò per il cavalier Barbarini e lui, nonostante le difficoltà, assunse la gestione del traghetto; il figlio era avvezzo ai lavori sul Po, in quanto lavorava già all’escavazione di ghiaia e sabbia con un natante di proprietà della famiglia. Si era trovato un nuovo natante a Guastalla e Barbarini si era dotato di un rimorchiatore per il traino e aveva reperito il personale. Domenica 4 dicembre 1977 si inaugurò solennemente il nuovo servizio. Barbarini fece funzionare il traghetto fino a che, l’8 marzo 1980, fu inaugurato il ponte”.
F. Patellani, l'approdo del traghetto a Cremona (1945)
I traghettatori del Po sono gli ultimi epigoni di un corposo nucleo di trasportatori, comprendente navaroli e barcaroli, che ancora alla fine del Settecento contava una vera e propria piccola flotta adisposizione della città, forte di cinque battelli e sette barche, per lo più destinate al noleggio. I navaroli censiti nel 1787 erano sei, ma ognuno di essi aveva probabilmente al suo servizio familiari e personale assunto come avventizio nei momenti di maggior necessità. Tra di essi vi era un vero e proprio armatore fluviale, un certo Antonio Rossi che possedeva tre barche e due battelli, che la notificazione censuaria definiva “condottiere sul Po”. Rossi, peraltro, fosse perché la condotta sul fiume non lo impegnava personalmente più di tanto, fosse che la disponibilità di diversi mezzi di trasporto lo favorisse nello svolgimento di attività collaterali, viene censito anche nella categoria degli spedizionieri con fondaco in contrada Zuecca (ora via Verdi), nonché in quella dei negozianti di cotoni ed altre merci all’ingrosso con magazzino in Dogana. La sua abitazione era sempre segnata in contrada Zuecca.
La rete dei traghetti, eliminata definitivamente solo negli anni tra 1975 ed il 1980, iniziò ad entrare in crisi nella seconda metà dell'Ottocento in quanto questi mezzi, seppur economici, non bastavano più a soddisfare le aumentate esigenze di trasporto, tanto che agli inizi del 1860 il Consiglio della Camera di Commercio di Cremona pensava di costituire una associazione che realizzasse un ponte di barche di fronte a Cremona per collegare le due rive. Già nell'ottobre del 1861 venne costituita la “Società anonima del Ponte su Po presso Cremona” amministrata dall'avvocato Luigi Sartoretti con il compito di realizzare il ponte. Questo ponte in barche, gestito con la riscossione dei pedaggi, costituiva il tanto auspicato collegamento stabile fra le due sponde del fiume distanti, al momento della inaugurazione del ponte nell’agosto del 1862, 610 metri diventati peraltro già oltre 800 l'anno successivo, in seguito a due forti piene. Il ponte, ubicato sulla sponda cremonese del fiume all’altezza dell’attuale largo Marinai d’Italia, era lungo 960 metri, posava su 72 chiatte composte, ciascuna, di due barche unite fra loro e aveva in servizio stabile un ingegnere, un assistente capo calafattiere, un esattore, un controllore, un capo marinaio, un calafattiere e sei marinai più del personale straordinario assunto in caso di necessità.


L'avvelenata

Pier Leone Ghezzi, la Commedia dell'arte (1674-1755)
Vincenza Armani era una delle donne più affascinanti del suo tempo. Può sembrare strano che la notizia della sua misteriosa morte a Cremona non venisse registrata dalle cronache, ma in quei tempi non doveva essere così raro l'utilizzo di mezzi estremi per liberarsi di rivali in amore o nell'arte e di personaggi politicamente scomodi. Dobbiamo pertanto solo all'elogio funebre dato alle stampe dal suo ultimo compagno d'arte ed amante, Adriano Valerini, se la tragica scomparsa di una donna così anticonformista per i suoi tempi, non è passata sotto silenzio.Vincenza è un'attrice, bellissima e di straordinario fascino e bravura, figlia di attori girovaghi, una delle prime donne protagoniste della Commedia dell'Arte. La sua fama ha varcato ormai i confini di Venezia, dove è nata verso il 1530, tanto da essere ricercata ovunque e da esser annunciata con colpi d'artiglieria e fuochi d'artificio quando arriva in qualche città per calcarvi le scene. E' ormai entrata nell'immaginario collettivo come la Marilyn Monroe del suo tempo. Nulla la può fermare e nessuna può gareggiare con lei per la prorompente bellezza, l'ammaliante fascino e la straordinaria bravura. Neppure l'altra grande attrice celebrata dal Vasari, Barbara Flaminia, a cui Giorgio dedica alcuni dei suoi rari sonetti e per la quale a Mantova si costituisce addirittura un partito che la sostiene nel confronto con Vincenza, nella stagione tra l'estate del 1567 e la primavera del 1568. Una cavalcata inarrestabile verso il successo fino a quell'11 settembre 1568.
Era circa un mese che la compagnia dei “Gelosi” di cui faceva parte Vincenza Armani, dove recitava anche il compagno della donna, il conte veronese Adriano Valerini, teneva i suoi spettacoli a Cremona. Vi era giunta con ogni probabilità dopo il 5 agosto, quando aveva presentato un'ultima recita a Mantova. Ed è appunto al duca Guglielmo Gonzaga che il 15 settembre giunge la lettera di un certo Gandolfo che lo informa della morte dell'attrice "atosegata in Cremona" qualche giorno prima. Non si saprà mai chi sia stato ad avvelenarla. Si parlò di un amante respinto, ma non è escluso che potesse essere stata anche un'attrice rivale. Cremona in quegli anni, insieme a Milano e Pavia, rientrava a pieno titolo negli itinerari preferiti dalle prime compagnie di comici dell'arte, anche quelle più affermate, e Milano, in particolare, rappresentava un'ottima possibilità di sosta e di guadagno per i gruppi di attori che si spostavano tra i due poli estremi di Parigi e di Firenze. Prima del sorpasso operato dal melodramma, le compagnie dei “Comici fideli milanesi” dei “Gelosi”, degli “Uniti”, ed “I Fedeli” erano spesso invitate dagli stess igovernatori e parecchi di questi attori ed autori pubblicavano a Milano o Pavia i testi per ricordare le loro rappresentazioni teatrali o per reclamizzare quelle future, dimostrando anche i buoni rapporti con l'aristocrazia e l'ambiente culturale e artistico del tempo. Tra il 1573 ed il 1575 a Milano, Cremona e Pavia si tennero le prime rappresentazioni di comici “confidenti nell'indulgenza del pubblico” come dimostra una richiesta al governatore de Ayamonte dell'8 giugno 1574 da cui si deduce che fin dall'anno precedente questo gruppo godesse di una sorta di monopolio nello spettacolo girovago. E da Cremona, dove aveva recitato nel 1574 nel ruolo dello Zanni, G.B. Vannini chiedeva che venisse trasferito a Milano un processo che lo vedeva coinvolto per favoreggiamento. (A. Coscetta- R.Carpani, La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, 1995, p. 277).
Adriano Valerini
La fine di Vincenza Armani è dunque descritta con dovizia di particolari da Adriano Valerini che, per lei, aveva lasciato la famosa Lidia Bagnacavallo, alle cui grazie, però, sarebbe tornato subito dopo. “Cominciò sul mezzogiorno ad apparir nel suo bel corpo segno evidente di morte; - racconta nella sua orazione funebre pubblicata nel 1570 - le serene luci, già delle Grazie e d’Amor nido, languidette divennero, si scolorò il bel viso, e d’atra nebbia si ricoperse l’aria del volto; dalla intatta neve delle mani partissi ogni vital calore, e fredde le lasciò vie più che ghiaccio; caddero i vaghi fioretti delle guancie, e le vermiglie rose della bocca pallidette rimasero. Ond’ella, posto oggimai nella soglia della morte il piede, aperse i chiusi lumi e in me fisi volgendogli, come quasi volesse dell’ultimo suo sguardo bearmi, quella medesima soavità mi discese indi nel cuore, ch’altre volte vi cadde, quando benigni in me gli girava Amore. I raggi de quest’occhi, benché vicini a rimanere estinti, risplendeano come lucerna che far gran lume suole su ‘l finire; e col pietoso scintillar che a poco a poco venia meno presero licenza, finché una minima favilla arder ve ne fu vista da gli occhi miei che non cessavano di bagnarle il viso e ‘l seno, quasi pensando con tale umore ravivar i secchi fiori nel volto, che Morte con ingorda mano andava cogliendo, per tesserne al suo crine ghirlanda immortale.
Ella con le parole dolcissime ancora cercava di consolar il mio duolo, e stendendo le gelate mani m’asciugava le lagrime con un velo, co’l quale aveva anco asciugate le sue che per pietà del mio pianto spargea, che a gli occhi miei non lagrime, ma cristalli e diamanti sembravano. Al fine l’Alma, tutta in un lieve sospiro accolta, per dipartirsi stando su le labra, mi suonò nell’anima tai parole: Adriano, restati in pace, io me ne vado, a Dio; e quivi al sempiterno silenzio la bocca chiuse, e forono allora sepolti i concenti d’ogni dolcezza”.
Il tentativo di Valerini di mitizzare la donna non deve far dimenticare quale fosse, in realtà, la considerazione di cui godevano le prime attrici della Commedia dell'arte, ritenute spesso alla stregua di prostitute o, nella migliore delle ipotesi, cortigiane acculturate, una sorta di geishe del loro tempo. Le donne che si esibiscono per denaro, seppur, come nel caso di Vincenza, a livelli altissimi e con indiscussa preparazione culturale, sono oggetto di invettive e le loro commedie sono ritenute per decenni delle tentazioni peccaminose per il pubblico maschile, come scrive, ancora nel Seicento, de Mendoza, fantasticando su quanto possa accadere dietro le quinte: “Gli uomini sono dei giovani sfrenati, che pensano giorno e notte agli amori e imparano a memoria poesie amorose; le donne poi sono sempre, o quasi sempre spudorate. La coabitazione è libera, senza che le donne stiano per conto loro in camere da letto separate; perciò gli uomini le vedono sovente vestirsi, spogliarsi, pettinarsi; ora a letto, ora mezze nude; e sempre intente a parlare fra loro di cose lascive. Le donne sono spesso meretrici che fanno il mestiere a pagamento: e sulla scena spesso s’incontrano e l’uomo spoglia la donna e la veste, perché ella, senza perdere tempo, possa assumere nella commedia ruoli diversi. [...] In teatro raccontano gli amori dei personaggi su cui verte il la- voro teatrale e questi amori detti fra uomo e donna sono dardi infuocati. Costoro perché non dovranno fare sul serio in una stanza da letto ciò che a teatro fanno per ischerzo? Per le donne si aggiunge un altro pericolo per niente più lieve: spesso esse sono straordinariamente belle, eleganti nel portamento e nelle vesti, di facile parola, spiritose, abili nella danza e nel canto, esperte nell’arte della recitazione. E tutto ciò trascina gli spettatori alla libidine, sicché accade che molti se ne innamorano alla follia”.
Ovviamente, anche se trasfigurata dal suo amante come fosse la Beatrice dantesca o la Laura del Petrarca, la tragica scomparsa di Vincenza, avvelenata a Cremona, non sfugge a questa classificazione e, di conseguenza, se non fosse stato per gli sforzi di Adriano di eternarne il ricordo, noi oggi forse sapremmo molto meno di questa straordinaria attrice. Era sicuramente protetta dal marchese Federico Gonzaga di Gazzuolo, che non perdeva occasione di seguirla ovunque andasse a recitare. Era nata a Venezia intorno al 1530 da una famiglia di attori girovaghi originaria di Trento, che tuttavia le avevano impartito una approfondita educazione, se dobbiamo prestare fede alle parole del suo amante, secondo cui sarebbe stata "retore insigne, musica sublime, ...da se componeva i madrigali e li musicava e li cantava; suonatrice soavissima di vari strumenti, scultrice in cera valentissima, faconda e profonda parlatrice, e comica eccellentissima". Già a quindici anni possedeva perfettamente la lingua latina oltre all'italiana, e il suo debutto a Modena fu talmente eccezionale da lasciare l'uditorio, composto in massima parte da "letterati di grido", completamente sbalordito. In seguito, "l'Accademia degli Intronati di Siena disse più volte che quella donna riusciva meglio assai parlando all'improvviso, che i più consumati autori scrivendo pensatamente". Sempre Valerini riferisce che Vincenza recitava "in tre stili differenti: in commedia, in tragedia, e in pastorale". Nelle pastorali "da lei prima introdotte in scena", nelle quali sembra mostrasse eccezionale abilità, inseriva macchinosi intermedi in cui sosteneva le parti di Minerva, Mercurio, Venere e Apollo; in esse recitava nel ruolo di Clori, mentre nelle commedie amatorie si faceva di solito chiamare Lidia.
Nell'elogio funebre Valerini ci fornisce l'elenco delle città in cui Vincenza aveva recitato, probabilmente nella compagnia dei “Gelosi”: “in Roma, in Fiorenza, in Siena, in Luca, in Melano, in Brescia, in Verona, in Vicenza, in Padova, in Venezia, in Ferrara, in Mantoa, in Parma, in Piacenza, in Pavia, in Cremona, ed in altre Città, nelle quali tutte è rimaso il nome delle sue virtù impresso nelle umane menti, e i dolci accenti della sua voce risuonano ancora nell’orecchie di ciascuno, e se dir volessi i miracolosi effetti del suo bel ragionare, e quanti ella traesse ad amarla, e riverirla, vi converria longhissima istoria. Tacerò che nell’arrivar che faceva in molte Città si sparava l’artiglieria per l’allegrezza della sua giunta o del suo ritorno, ed i prencipali della terra le venivano all’incontro, ed i dotti venivano da lei come da un vivo Sole ad illuminarsi la mente da molti dubbi ch’avevano intorno a questioni filosofiche, e specialmente amatorie”.
Una compagnia della Commedia dell'arte
Sicuramente era una donna di grande bellezza, al punto da essere celebrata da molti poeti del tempo come Giovanni Saravalle, Giacomo Mocenigo, Giovanni Acciaiuoli, oltre naturalmente da Adriano Valerini che così la descrive: “Era la Signora Vincenza di statura piuttosto grande che no, e con tanta proporzione e conveniente misura eran situate le belle membra, che cosa sì ben composta altrove non fu vista mai; aveva del virile nel volto e ne i portamenti, onde se tallora in abito di
giovanetto si mostrava in Scena, non era alcuno che Donna l’avesse giudicata; aveva i capei lunghi di finissim’oro, alcuni in trecie avolti, alcuni negletti ad arte givan vagando ne i margini della fronte e, benché fosser sciolti, legavan però più fortemente i cori; la fronte come alabastro lucida e tersa sembrava quella parte di puro argento che nella Luna si vede, quando la circonferenza non ha ben compita ancora; le sottili e nere ciglia, da giusto intervallo divise, facevan sovra l’uno e l’altro occhio un arco che a’ loro sguardi aventava fiamma e foco: in queste ciglia, anzi che Morte facesse di lei l’ultimo scempio, scopersi io come Amor volse più volte tanta pietà de’ miei martiri, che fiera cagione mi porge ora di sospirarne la perdita che n’ho fatta così immatura. Nasceva il profilato naso da i confini delle ciglia scendendo per mezzo il volto con debita convenienza; fiammeggiavano gli occhi a guisa de Zaffiri ne i quali irraggi il Sole, e tra ‘l bianco e ‘l nero avean tanta vaghezza volgendosi, che ad ogni lor giro facean preda de mille cori: quelli or pii or minaccianti e severi movendo, avea dell’Anime l’impero, e mentre or pace or guerra alle genti indisse, parea che gli sguardi di Venere e di Marte avessero la forza e gli effetti. Ogni minimo cenno de quest’occhi, quando mansueti giravano, stillava tanta soavità ch’era ad ubidirgli astretta ogni ferma voglia, e come aperta favella avessero, davano ad uno sguardo solo ad intendere ogni concetto dell’animo; e come fidi messaggieri del core con sì grato silenzio non solamente parlavano, ma con benigna udienza ricceveano gli sguardi in vece de prieghi e de parole altrui, e così della lingua e dell’orecchie facevano l’ufficio. Con un sol moversi dunque scoprivano ogni voglia, or sfavillanti, or ridenti, or lusinghevoli ed or altieri; e se tallora rugiada di pianto versavano, più belle lagrime non fur viste mai, ed a queste potevan ceder quelle che l’Aurora sparse al misere- voi caso del suo diletto figlio. Le guancie, nella calda ed animata neve rosseggiando senza arteficio alcuno, eran de vaghi fioretti dipinte; la bocca, anzi il Paradiso, chiuso da due preziosissime porte de rubini e de perle, non solo alla vista porgeva contentezza estrema, ma all’udito ancora, mentre le accorte parolette e l’angelica armonia del canto mandava fuori”. L'immagine, inutile negarlo, di una diva.