lunedì 9 marzo 2020

Giovanni, l'eretico

Piazza Navona nel 1600
E' la mattina dell'8 febbraio 1559. Da piazza Navona si alza un odore acre di fumo. Sono i roghi della Santa Inquisizione che hanno ricominciato ad ardere da quando è diventato papa, quattro anni prima, Paolo IV Carafa, il più ferreo e determinato oppositore dell'eresia luterana. Ma quella mattina per i soliti curiosi è stato approntato uno spettacolo speciale e crudele. Saranno quattro i condannati destinati ad essere arsi vivi nel primo rogo del nuovo anno: tre eretici ed un omosessuale. Gli atti dei Registri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, una confraternita che assisteva i condannati a morte operante a Roma dal 1488, ne registrano puntualmente i nomi: Gabriello di Thomaien, sodomita; Antonio di Colella del Grosso, Leonardo da Meola e Giovanni Antonio del Bò, eretici. I primi due vengono sottoposti ai più atroci tormenti, prima di essere bruciati vivi. Agli altri due viene riservato il privilegio di essere prima impiccati, un atto di clemenza dovuto a quanti, in qualche modo, abbiano mostrato un pentimento per il loro errore. Viaggiano insieme, ed insieme sono stati, con ogni probabilità catturati, in quanto l'accusa è simile: genericamente eresia per il primo, e apostasia per il secondo. Ma provengono da località diverse: Leonardo è originario di Pontecorvo, in provincia di Frosinone, Giovanni Antonio è invece cremonese. Il primo eretico cremonese salito sul patibolo, di cui sia noto il nome, condannato dall'Inquisizione moderna, successiva al Concilio di Trento. In effetti un Antonio Del Bove è ricordato nel 1515 residente nella vicina di San Vittore dal Designum Urbis del Bordigallo. Quello che invece sembra doversi escludere è un improbabile “antico” rapporto tra i due, e forse anche una originaria comune formazione culturale, considerando la loro diversa provenienza geografica. Dal testo di Domenico Orano, pubblicato nel 1904, (Liberi pensatori bruciati in Roma dal XVI al XVIII secolo (Da documenti inediti dell'Archivio di Stato in Roma), Roma 1904, p. 8), apprendiamo che a Leonardo sarebbe stato riservato il trattamento di favore in quanto “volse morir da bon cristiano, si confessò et udì la santa messa e tracomandò l’anima a lomnipotente Idio”. E con molta probabilità anche il suo compagno di sventura Giovanni Antonio potrebbe aver dimostrato qualche forma di pentimento tale da indurre gli inquisitori ad essere clementi, concedendo la grazia di essere prima impiccati e poi bruciati, avendo così la possibilità di sentire meno il dolore delle fiamme, dal momento che la pratica dell’impiccagione faceva perdere i sensi. Le varie cronache che registrano il fatto ed i registri di condannati fanno sempre e solo riferimento all'atto registrato dalla confraternita di San Giovanni Decollato, unico documento, per ora, in cui figura il nome dei due. Il fatto che poi avessero viaggiato insieme ed avessero subito lo stesso supplizio fa supporre che si fossero macchiati dello stesso reato di apostasia.
Dal canto suo Giovanni Antonio del Bo fuggiva da una città, come Cremona, dove le idee luterane avevano mietuto da anni molti proseliti, anche se prima di allora non si era mai arrivati alla pena capitale. Vi erano già stati alcuni processi tra il 1545 ed il 1548, poi vi era stato un momento di tregua, ed un nuovo rigurgito proprio negli anni in cui finiva sul rogo il del Bo, così da giustificare il giudizio di Chabod , secondo cui Cremona era “il massimo centro del luteranesimo lombardo”. Dal 1476, infatti, a Cremona non vi era un vescovo residente e la diocesi era retta da un vicario la cui prima preoccupazione era, soprattutto, quella di riscuotere le rendite derivanti dalle grandi proprietà fondiarie. Neppure i vescovi suffraganei, nominati dal vescovo non residente, riuscivano ad occuparsi della cura pastorale e di conseguenza il livello morale della vita quotidiana condotta dal clero era alquanto discutibile. Se dunque luteranesimo e calvinismo trovavano un terreno fertile allo loro diffusione, altrettanto decisi erano i tentativi di imporre nuovamente l'ortodossia, che determinavano perlopiù la fuga dei diretti responsabili verso la Valtellina piuttosto che in Svizzera, dove fin dal 1550 è documentata a Ginevra una folta colonia di esuli cremonesi.
La condanna di Pomponio Agieri nel 1556
La fuga era comunque già iniziata qualche anno prima quando, nel 1528, se ne era andato da Cremona addirittura il priore dei Domenicani Bartolomeo Maturo, che aveva predicato poi a Vicosoprano nel cantone dei Grigioni fino al 1497, prima di finire i suoi giorni a Tomiliasca nell'Engadina, dove peraltro aveva predicato un altro cremonese, Bartolomeo Silvio. D'altronde nello stesso convento di San Pietro, retto in quegli anni dall'abate Colombino Rapari, come ci informa una lettera spedita nel 1546 dal canonico lateranense Marco Gerolamo Vida, poi eletto clamorosamente vescovo dal Capitolo della Cattedrale il 13 novembre 1549, al cardinale Ercole Gonzaga, giravano strani personaggi in rapporto con i Grigioni. Addirittura da San Pietro scappano nell'agosto 1550 cinque canonici lateranensi che si rifugiano prima a Piacenza e poi in Svizzera. E non è un caso che Luigi Lucchini notasse tra i personaggi raffigurati sulla destra del grande affresco della Moltiplicazione dei pani e dei pesci commissionato in quegli anni da Colombino Rapari a Bernardino Gatti, la presenza di Lutero, Beza e Calvino. A Locarno, peraltro, nel 1549 ad un confronto pubblico sul tema
Tu es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam, partecipa un cremonese, Leonardo Bodetto, ex frate francescano, con la moglie Caterina Appiani. Da Cremona fuggono in Svizzera in vari periodi anche Giovanni Torriani, Agostino Mainardi, che aveva predicato a Chiavenna, Paolo Gaddi, due domenicani fra Angelo e Gian Paolo Nazzari, il frate minore Lorenzo Gajo e altri laici di cui abbiamo il nome: Daniele Puerari, due fratelli Offredi, certi Torso, Cambiaghi, Fogliata, Pellizzari.
Nel 1550 arriva a Ginevra Giuseppe Fogliato, nel 1551 è la volta di Lazzaro Ragazzi e Francesco Santa con le rispettive mogli, Giuseppe Fossa, Paolo Gazo, Niccolò Fogliato e Tommaso Puerari con la moglie. L'anno seguente giunge Giuseppe Fenasco, nel 1553 Francesco Marchiolo con la moglie e cinque figli, nel 1554 Giuseppe Bondiolo con la moglie e due figli. Trascorrono alcuni anni e nel 1565 è ricordato Evangeliista Offredi e nel 1567 Francesco Micheli, nel 1573 Galeazzo Ponzone e nel 1577 Giacomo Puerari. Giuseppe Fossa era stato costretto alla fuga per aver dato ospitalità nell'ottobre 1550 a due frati benedettini, fra Valeriano e fra Sereno, fuggiti da Mantova e ritrovati nella sua abitazione di Solarolo. Nell'inchiesta che ne era seguita erano stati coinvolti ventidue nobili cremonesi, l'intera famiglia di Bartolomeo e Tommaso Maggi, oltre ad un numero imprecisato di personaggi, non nominati nell'inchiesta, che erano riusciti a riparare all'estero. Le condanne, pur severe, non giunsero mai alla pena capitale, forse anche perchè la maggior parte degli imputati era sfuggita all'arresto. Che tra questi potesse esserci Giovanni Antonio del Bo, finito sul rogo in piazza Navona, è probabile. Stando ai fatti, ed in mancanza di elementi nuovi, l'eretico cremonese potrebbe essere in effetti l'unico ad aver pagato con la morte la sua apostasia.
L'eresia, nonostante l'attivismo inquisitorio dopo il Concilio di Trento, non viene però sradicata e verso il 1580 il problema riaffiora con episodi che oggi giudicheremmo decisamente sconvolgenti e ripugnanti. Il 22 dicembre 1581, ad esempio, il Tribunale dell'Inquisizione di Cremona dichiara che il napoletano Andrea Luzio, ormai morto da tempo, era un “autentico eresiarca” per aver diffuso dottrine eretiche nella città ed in particolare negli ambienti ecclesiastici. Per cui, affinchè “fosse cancellata dalla memoria dei fedeli et veri cristiani la memoria di un sì empio eretico et pestifero maestro” il tribunale ordinò che la sua memoria fosse “dannata, annullata e reprobata dalla memoria dei fedeli e quandole sue ossa e corposi possono discernere, debbono essere dissepolte come fetide et indegue di luogo sacro e siino per maggior vituperio et detestatione gettate in luoco profano”. Insieme alla condanna postuma viene disposta, come era solito, la confisca di tutti i suoi beni. Pochi giorni dopo viene condannato al carcere perpetuo per luteranesimo anche un suo seguace, il sacerdote Antonio Longhi e la stessa sorte tocca ad un altro prete, Antonio Maria Ottinelli, condannato al carcere perpetuo per “heresia luterana”. Qualche settimana dopo, tra gennaio e marzo del 1582, le porte del carcere perpetuo per eresia si aprono anche per i preti Francesco Fruttaroli, parroco di San Leonardo, per il prevosto Mariano di Mariano per aver letto Calvino, Matteo di Bellotti, che viene sottoposto più volte a tortura, padre Rizzerio della Cattedrale di Cremona, e per Domenico de Cansis, curato di San Giorgio. Il curato di Sant'Omobono, Antonio Maria Ottinelli viene invece condannato a due anni di remo. Ma l'Inquisitore non si ferma e nel 1569 condanna il prete Nicolò Boschetti, accusato di essere eretico, ad essere “immurato” fino al giorno della sua morte.

La condanna postuma di un eretico
La storia di questi anni è ricca di episodi particolarmente drammatici, con la cattura di eretici che, come Giovanni Antonio, erano prima fuggiti ed ora cercano di far ritorno in città, evidentemente ritenuta, nonostante tutto, maggiormente sicura. E' il caso di Giovanni Martoia, in fuga da Ferrara, ma catturato dall'Inquisizione a Cremona nel 1571 e nel 1757 di Giacomo Torricelli, originario dei Lodoli di Salsominore che, prigioniero dell'Inquisizione, fornisce la mappa delle località dove trovano rifugio gli eretici provenienti da Ginevra. Non conosciamo il tipo di condanna inferto a un tal Giovanni Battista Gaudenzi di Brescello, catturato a Viadana dove si era recato ad ascoltare una predica nella chiesa di San Nicola degli Agostiniani che, nel corso di un processo sommario tenuto nel palazzo vescovile tra il 14 ed il 20 marzo 1573, viene accusato di possedere libri proibiti. Questi sarebbero la “Postilla maggiore di Martino Luthero” la “Institutione” di Calvino, ma viene accusato anche di negare l'esistenza del Purgatorio e la validità delle indulgenze, di ripudiare il celibato ecclesiastico ed il culto delle immagini, di negare il libero arbitrio e la presenza di Cristo nell'Eucarestia. E vi è anche il caso drammatico di un tessitore, Tommaso Zerbagli, accusato di eresia ed arrestato nel 1584, che, dopo quindici giorni di detenzione, si impicca in cella per sottrarsi alle torture.

Cremonesi, vi racconto l'anno della peste

Cremona nel Seicento
Il preside del liceo Alessandro Volta di Milano, Domenico Squillace, ha scritto ai suoi studenti ricordando quanto accadde a Milano in occasione della peste manzoniana del 1630, da cui trarre insegnamento per una lettura obiettiva del presente. Qui vi raccontiamo cosa accadde a Cremona attraverso le pagine di Giuseppe Bresciani, testimone diretto di quella tragica epidemia.
Si scuoperse la peste nella città, che perciò si fecero grandissime diligenze da ss.ri Prefetti della Sanità, quali ellessero due nobili per ogni Parochia acciò sopraintendessero all’infermi, all’immonditie delle case, strade, et a’ poveri della città e quelli mandassero a luochi destinati. Fu serrato due porte della città, cioè Ogni Santi et la Mosa, con ordini novi per ricevere le bolette alle porte”. E' il 18 marzo 1630 e Giuseppe Bresciani con queste poche e drammatiche righe annuncia l'arrivo a Cremona dell'ultima delle grandi pestilenze. Bresciani, nel suo manoscritto Memorie delle cose occorse me vivente nella città di Cremona quivi descritte di anno in anno, trascritto recentemente da Emanuela Zanesi, è il testimone fedele del flagello descritto qualche secolo dopo da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi e nella Storia della colonna Infame. Lui stesso ne verrà colpito, ma sopravviverà alla decimazione della sua famiglia. Il contagio arriva a Cremona almeno sei mesi prima che a Milano ma era già stato annunciato verso la fine dell'anno quando, il 15 dicembre, “Furono mandati gentil huomini alle porte della città, due per porta, per li sospetti di peste portata dai Tedeschi in Italia, et si faceva guardia al intorno alla città. Qual s'era scoperta a Casalmaggiore et a Viadana”. Le “bolette” da presentare alle porte altro non erano che dei lasciapassare predisposti a stampa dove era indicata la località di provenienza, a cui erano aggiunte a mano delle note con le caratteristiche fisiche del destinatario del documento e la descrizione delle merci trasportate con la data di rilascio, anche questa scritta rigorosamente per esteso e non con carattere numerici, per impedirne la falsificazione. I “Tedeschi” a cui fa riferimento Bresciani sono i Lanzichenecchi, mercenari al servizio dell'imperatore Ferdinando II d'Asburgo alleato della Spagna nella guerra per la successione al Ducato di Mantova, finito per via ereditaria, dopo la morte di Vincenzo II Gonzaga, ad un suo nipote francese, Carlo duca di Nevers e Réthel, sostenuto dalla Francia. Agli inizi di giugno del 1629 l'imperatore raduna nella regione di Lindau, presso il lago di Costanza, tra i sei e gli ottomila cavalieri e 36.000 fanti guidati da Johann Aldringen signore di Roschitz e dal feldmaresciallo imperiale Rambaldo XIII conte di Collalto. Il governatore spagnolo di Milano Gomez Alvarez di Figueroa e Cordoba duca di Feria, non concede però il transito ai 22.000 fanti e 3.500 cavalli che scendono dalla Valtellina e rimangono quindi acquartierati presso Chiavenna fino all'autunno del 1629. E' qui che si sviluppa inizialmente la peste uccidendo un terzo della popolazione, pari a circa 10.000 abitanti. Per la sua diffusione 34 uomini e donne sono incolpati di stregonerie e giustiziati con il permesso del vescovo di Como. 
Mercenari Lanzichenecchi
I Lanzichenecchi quindi invadono il ducato di Mantova, trascinando con sè il contagio che, in primavera, arriva a Cremona. Per affrontare l'epidemia agli uffici deputati da secoli a garantire l'igiene pubblica, vengono affiancati gli Uffici di Sanità con il compito di redigere norme rigorosissime destinate a regolare la vita della comunità durante la pestilenza e comminare ai trasgressori le relative pene, sia pecuniarie che corporali. Tuttavia, in un periodo in cui si attribuisce ancora a tutti i fenomeni incomprensibili, come potevano essere le epidemie, un'origine soprannaturale, la prima reazione è quella di ricorrere alla preghiera per scongiurare il castigo divino. Scrive Bresciani: “Nella Santa Casa di Loreto a Santo Abbondio si fece orationi particolari acciò Iddio Nostro Signore ne concedesse la sua santa misericordia e ne perdonasse li nostri peccati, si come fecesi in altre chiese ancora. Fu condotto nella città una gran quantità di formento, qual fu mandato dal Governatore dello Stato per sussidio de poveri cittadini”. Durante tutta la primavera si susseguono senza sosta le funzioni religiose: si inizia il 2 aprile nella chiesa di S. Agostino, dove esiste un altare dedicato a San Nicola da Tolentino, “per la peste che serpeva in città con grandissimo concorso di popolo” e con la distribuzione di pani benedetti. Nel frattempo, però, viene pubblicato un editto “stampato ai poveri et vagabondi quali furono tutti condotti oltre il ponte di santo Lazzaro al osteria del Moro per esser luogo molto grande”. Pur ignorando l'esatta origine del contagio gli Uffici di Sanità hanno chiaro che mendicanti e vagabondi sono potenzialmente portatori del morbo a causa del loro girovagare, e vittime principali della penuria di generi alimentari e dei cenci con cui si vestono, in cui si annidano i parassiti. Decidono di conseguenza di relegarli in una zona posta fuori dalle mura, oltre il ponte di San Lazzaro, alla locanda del Moro, in un edificio molto grande che sia in grado di contenere tutti quanti, vittime della carestia causata dal flagello pestilenziale, era confluiti nella città dalle località del territorio circostante, sottoposto a pericoli di contagio, in cerca di riparo e sussistenza. Fin dal 1511 era stato costruito un lazzaretto in un luogo isolato, ma facilmente raggiungibile lungo la strada alzaia del Naviglio civico, su un terreno appartenente al Consorzio della Donna. L’edificio, era dotato di una cinquantina di stanze, con due cappelle, di cui una dedicata alla Beata Vergine delle Grazie, ma evidentemente non è sufficiente a contenere i contagiati dalla nuova epidemia. Dalle parole del Bresciani si può ricavare la forte impressione che esercita sulla popolazione, sempre più spaventata dal contagio, l'imponenza delle celebrazioni, a cui concorrono l'intera città e gli ordini religiosi. “Maggio. Nel principio di questo mese quasi in tutte le chiese parochiali della città si cantorono messe dello Spirito Santo con musiche acciò nostro Signore ci liberasse dal mal contagioso o tanta afflitione in parte solevasse. 12 detto Nella Chiesa Cathedrale fu cantato una messa solenne con musica et dopo la Santa Messa fu fatto una Processione generale dove si portò la statua di santo Roccho, essendovi tutte le confraternite religiosi, sì secolari come regolari, e tutto il clero con l’ill.mo signor Cardinale Vescovo, la Curia et Magistrato della città, con il concorso di tutto il popolo, andando li reverendi Padri con capuzzi in testa cantando li sette salmi penitentiali. E fra detti Padri viddesi segni di molta divotione e fra l’altri vi fu il padre Guardiano di santo Francesco scalzo con piedi per terra et con una pesante croce sopra le spalle. Al partirsi del Santo dalla Cathedrale sonò tutte le campane al disteso, sì come fecero nel ritorno, et le chiese per dove si passò con la processione fece l’istesso, che rendeva una mestitia grande”. Si susseguono preghiere e processioni in tutte le chiese della città: S. Agata, San Carlo, San Domenico, San Francesc, dove “si fece una processione dopo il vespro nella quale si portò l’immagine della Beata Vergine Maria di santo Francesco, santo Bernardino, santo Antonio di Padova e santo Fermo, et dopo un divoto Padre predicò al popolo sopra quella piazza che era piena e più volte fece chiedere al detto popolo misericordia. E ciò seguì con grandissima divotione”. Il 22 maggio, però, si crede di aver individuato i colpevoli del contagio in alcuni francesi “che ontavano li muri della case di fuori via con veleno, quali furono fatte diligenze per prenderli, e tutti affumicavano con fuoco di paglia o fassine di vita li muri delle case dove vedevasi li segni, qual era come di un color giallo”. In realtà la diceria che fossero i francesi a trasmettere la peste si era diffusa a Milano, capitale del governo spagnolo, l'anno prima quando a febbraio erano stati arrestati alcuni frati ed anche un apostata proveniente da Ginevra con l'accusa di aver portato con sé un'ampolla sospetta che, si scoprì successivamente, conteneva solo intrugli del tutto innocui contro il mal di stomaco. Il 18 maggio, d'altronde, a Milano compaiono effettivamente tracce di grasso di color bianco e giallo su alcuni muri e, prudenzialmente, vengono portate le panche fuori dal duomo. Lo stesso provvedimento viene adottato anche a Cremona il 29 maggio, quando si decide di eliminare le acquasantiere e di celebrare in tono minore e senza l'esposizione di drappi e tappeti alle finestre la tradizionale processione del Corpus Domini. Il vescovo Campori si rifugia a San Sigismondo, parte degli amministratori fugge a Paderno, abbandonando a se stessa la città, dove restano solo Domenicani e dei Francescani, che, oltre a partecipare ai riti, insieme ai Teatini ai Barnabiti e ai Gesuiti, “vanno a volte per le contrade e case con le croci in mano ad amministrare li Santissimi Sacramenti all’infermi”. Così pure i Cappuccini, per i quali “Si publica l’editto che li reverendi Padri Capuccini possino confessare”, attesta ancora il Bresciani. E non è cosa da poco conto in quanto l'estate si avvicina e la peste raggiunge il massimo della sua intensità: “La città fa risoluzione di curare le case e mobilie con profumi e perciò vien compartito la città in quattro quartieri, e vien deputato due gentil huomini a ciascun quartiero per sopra intendenti. Il male contagioso si fa via più maggiore”. Si lavora molto sul profumo, ma l’unica cura utile sarebbe stata un farmaco ad azione antibiotica. Per fortuna alcuni di questi ingredienti avevano in parte tale azione (aglio, zenzero, aceto, mirra, incenso, noce moscata). I rimedi tipici del tempo sono polvere confezionata con con ruta, cardosanto, alloro, angelica odorata, solfato di rame e aloe vera. Per purificare l'aria si bruciano rosmarino, aglio, laudano, garofani, canfora, sandalo, cedro, calamo aromatico, valeriana, muschio, ambra, acqua di arance, zolfo, arsenico, incenso, noce moscata, rafano, verbena. Le stesse sostanze che i medici usano quando si recano in visita agli ammalati nel loro curioso abbigliamento. L'abito era costituito da una sorta di tonaca nera lunga fino alle caviglie, un paio di guanti, un paio di scarpe, una canna, un cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco dove erano contenute essenze aromatiche e paglia, che agiva da filtro. La maschera era una sorta di respiratore: aveva due aperture per gli occhi, coperte da lenti di vetro, due buchi per il naso e un grande becco ricurvo, all'interno del quale erano contenute diverse sostanze profumate (fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne imbevute di aceto). Lo scopo della maschera era di tener lontani i cattivi odori, all'epoca ritenuti, secondo la dottrina miasmatico-umorale, causa scatenante delle epidemie, preservando chi l'indossava dai contagi. Come accessorio, inoltre, esisteva una speciale canna, che i medici utilizzavano per esaminare i pazienti senza toccarli, per tenere lontane le persone e per togliere i vestiti agli appestati. Sterco ed urina, pelo di lepre, grasso di montone, sono altri rimedi ampiamente utilizzati nella convinzione che liquidi o scarti prodotti da ciò che è vivo, per assorbimento contengano forza e poteri degli esseri viventi da cui provengono. Clisteri, purganti, salassi e sanguisughe sono considerati rimedi abituali in quanto riequilibratori dei quattro umori di cui è costituito il corpo umano, cioè sangue, flemma, bile nera e bile gialla.
Il medico della peste
In assenza di rimedi efficaci il contagio si estende ed in giugno lo stesso Bresciani assiste impotente alla decimazione della sua famiglia: “Giugno. Primo. Si amala mia moglie Laura con febre grandissima. 5 detto. Si fa processione della Madonna Santissima di Loreto di Santo Abbondio con il concorso funesto di quei puochi cittadini ch'erano sani, ma però con grandissima divotione. A hore 19 ½ morse la Laura mia moglie, et il giorno seguente per gratia particolare la feci sepelire con essequia solita in Santo Agostino nel sepolcro de' suoi maggiori. 8 detto. Morse la Giovanna mia sorella, qual fu sepolta nel cimitero di Santo Salvatore in città. 10 detto. Nella chiesa di Santo Lorenzo avanti l'altare di Santo Carlo si cantò una Messa solenne. La Curia abbandona la città e si ritira a Paderno. L'istesso fa li altri Magistrati della città. 11 detto. Communione Generale in Santo Abbondio per le donne. 12 detto. L'istesso per li huomini avanti la Madonna di Loreto. 13 detto. Morse il signor don Christoforo mio zio, qual fu sepolto in Santo Agostino a canto alla Laura mia moglie. 14. Mi venne la febre che mi durò tre giorni con una sonne tremenda che non poteva tener li occhi aperti se non con gran fatica. 16 detto. Morse mia madonna madre di mia moglie, qual fu portata fuori della città al luoco deputato. 17 detto. Fui sequestrato in casa a fare la quarantina. 18 detto. Morse mio cognato Giacinto e fu portato come sopra. 25 detto. Son mandato fuori a fare la quarantina lungi dalla città due miglia nel luoco di Machetto, dove subito mi risanai e per Iddio gratia stetti sempre bene. 27 detto. Morse la Leonida mia cognata. 28 detto. Morse Francesco mio cognato. 29 detto. Morse mio messere Gerolamo Faletto padre di mia moglie, quali tutti trei furono portati al luogo deputato delli infetti. Gran gente passò da questa al altra vita questo mese, che di notte tutti si portavano sopra carri a sepelire fuori di Santo Luca dietro al Naviglio della città”.
L'assenza di qualsiasi autorità ed il senso di precarietà sotto l'infuriare della peste determina un periodo di sospensione della legge in cui ognuno si sente autorizzato a compiere qualsiasi ruberia e violenza, sicuro dell'impunità e nonostante i continui richiami alla necessità di ricorrere alla protezione divina e di formulare voti soprattutto alla Madonna del Popolo, con la disposizione dal 1 luglio di suonare l’Ave Maria solamente di giorno, ed il campanone e le campane due sole volte per segnale. Nonostante tutto “poca carità si vede nelli monati, quali rubbano et assassinato le case de morti dove vanno. Alteratione de preci di tutte le merci e fatiche humane dal pane e vino in puoi ch'era buon mercato. Il resto andò ogni cosa alla peggio. Il tutto fu causato dal mal governo di chi doveva far osservare li ordini, ma in tempo di tanta calamità e miseria ogni uno faceva a sui modo non ricordandosi della morte che li era vicina quando pensava che li fosse molto lontana, siche ogni uno si ingegnava di tirare e rapire l'altrui senza discretione”. La città, nel momento più buio, è abbandonata a se stessa: “Il padre abbandonava il figlio, la madre la figliola, il marito la moglie, i fratelli le sorelle et i padri et le madri infette s'abbandonavano non vedendosi più né carità, né fraterno amore; l'amicizia era del tutto sbiadita, non trovavasi chi per denari né per latro volesse attendere a poveri infermi: li religiosi che al principio del male con grandissima carità attendevano alla salute delle anime de' poveri agonizzanti anch'essi erano andati”. Sconforto e rassegnazione regnano in una città ormai diventata deserta, dove iniziano ad estendersi le aree abbandonate. Ognuno non si fida più dell'altro, e lo stesso Bresciani ne fa le spese, denunciato come abitante in una casa appestata da una frate di Sant'Agostino e costretto ad una nuova quarantena fino a quando non viene riconosciuta l'infondatezza della denuncia. Ci si affida anche ad una santa nuova, importata dalle tre compagnie di fanteria siciliane di stanza in città, Santa Rosalia, a cuisi attribuisce la guarigione di Palermo dalla peste nel 1626. Sembra che la cosa faccia effetto, tant'è che, quando si inaugura nella chiesa di San Vito l'affresco della santa siciliana adorante la Madonna ed i frati domenicani benedicono con la sua reliquia il recipiente dell'acqua a cui attingevano soldati e cittadini, il contagio sembra diminuire. Ma siamo ormai alla fine di settembre, arrivano i primi freddi ed anche il Bresciani osserva che “si allegerisse in buona parte il male contagioso sì che non more più tanta quantità di popolo”. Nel frattempo sono morti circa 17 mila cremonesi su una popolazione di 37 mila anime.
Certamente le pulci, che avevano trasmesso dal topo all'uomo il batterio Yersinia pestis, favorite dalle scarse condizioni igieniche, rifuggivano effettivamente da determinate sostanze odorose così come dal calore del fuoco, ma risolutiva era stata la decisione di isolare i malati affetti da malattie sconosciute. Che questa cautela fosse sensata anche nel caso della peste lo si notò subito. In un'epoca in cui non si conosceva ancora nulla di microscopi e di antibiotici il sapere non poteva spingersi oltre. Ed i rimedi contro la peste erano, a dir poco, fantasiosi se non disgustosi: si andava dai salassi, effettuati anche con sanguisughe, alla polvere di smeraldo sbriciolata per i più ricchi. Oppure si aprivano i linfonodi infiammati, sotto le ascelle o nell'inguine, per permettere alla malattia di "lasciare" il corpo, e poi veniva applicata, direttamente sulla ferita, una miscela composta da resina, radici di fiori, ed escrementi umani. Si faceva il bagno nell'urina oppure si ricorreva al metodo Vicary, inventato da un medico inglese: occorreva spiumare il sedere di una gallina, che veniva poi legato ai linfonodi gonfi della persona malata, tutto questo con un pollo vivo. Poi, quando anche l'animale si ammalava, bisognava lavarlo e riposizionarlo di nuovo sul paziente, fino a quando solo il pollo o solo l'appestato guariva. Senza parlare del corredo di varie pillole, polveri e teriaca, la panacea utilizzata contro ogni tipo di veleno, ma del tutto inefficace contro la peste.