Nella Cremona del Secolo XVI si possono
configurare due diverse tipologie di aromatari: quella degli
abilitati a vendere anche medicinali e quella di coloro che, privi di
idonea qualificazione, dovevano limitarsi alla vendita delle spezie
per uso comune.
Da un prontuario del XVII Secolo al
titolo “Tassa Universale de Preci delle robbe medicinali così
semplici come composte che si ritrovano nelle Spetiarie della Città
di Cremona”, conservato nella locale Biblioteca Statale possiamo
infatti ricavare precise indicazioni sui prodotti all’epoca
presenti nelle botteghe degli speziali e precisamente: “Semplici
diversi, erbe, sementi, fiori, radici, acque stilate, stilationi
diverse, decottioni de infusioni, elettuari di tutte le sorti,
lohochi et lambitivi, conserve condite in zuccaro (in mele e
cotognate diverse) zuccari, confettioni solide di ogni sorte, spetie
aromatiche, polveri, siroppi et giuleppi, succhi condensati e
liquidi, pillole, trochisci, unguenti, cerotti, empiastri, olii,
grassi, medicamenti diversi”.
A Cremona il numero degli speziali, fra
quelli abilitati o meno alla vendita anche di medicinali, sembra
fosse quantitativamente abbastanza ragguardevole: nel 1530, anno di
avvio della matricola, il primo gruppo di iscritti all’arte per
mano del notaio Giovan Francesco Trovanis, sembra aggirarsi sulla
quarantina. Alla fine del 1631 si erano ridotti a 24, ma occorre
osservare come gli speziali fossero riusciti ad uscire dalla grande
pestilenza dell’anno precedente con danni inferiori rispetto ad
altre arti più duramente colpite dal contagio al punto da trovarsi
ridotte, fra morti ed emigrati, a meno della metà: evidentemente la
conoscenza nonché la tempestiva disponibilità dei medicamenti
dovette avere un certo effetto positivo. A metà del Settecento si
contavano 11 spezierie che servivano una popolazione di poco
superiore alle ventimila persone.
Come fosse il loro aspetto possiamo
verificarlo ancora oggi osservando i mobili originali conservati
negli uffici dell’Apt sotto i portici del palazzo comunale di
Cremona, composti nel 1789 dall’ebanista cremonese Paolo Moschini,
nato a Soncino, che ideò per la farmacia una lavorazione particolare
del legno di radica, “a dorso di tartaruga”. Un’altra storica
farmacia che conserva ancora il mobilio e le suppellettili originarie
del Settecento, secolo in cui venne aperta dalla famiglia Leggeri, è
la farmacia che si trova in corso Matteotti. Quest’ultima conserva
ancora l’antico campionario delle sostanze di provenienza esotica
con cui venivano realizzate le resine utilizzate dai liutai per
fabbricare le vernici dei violini.
Fabrizio Bonali ha ricostruito qualche
anno fa l’inventario di una di queste spezierie, la farmacia Solari
e Ingiardi di strata Magistra, oggi corso Garibaldi, che costituisce
un interessante spaccato della farmacopea settecentesca prima della
Rivoluzione francese.
Tra i medicamenti più utilizzati
c’erano innanzi tutto le acque, sia del tipo a “stuffa secca”,
che di quelle a “tamborlano” e “medicate o spiritose”. Le
prime sono ricavate da specie vegetali, dette “semplici”, tra cui
la felce capelvenere, calmante della tosse, il cardo mariano, un
depurativo, il papavero erratico, cioè il semplice rosolaccio, con
una blanda azione sedativa e antispasmodica, la malva, calmante e
lassativa, la centaurea minore, un febbrifugo. Il tamborlano, invece,
è un specie di alambicco con cui si producevano acque con
distillazione o a bagnomaria, tra cui quella di cedro, usata come
cordiale e rinfrescante, o di noccioli di pesco, con proprietà
vitaminiche. Tra le acque medicate è documentato l’uso della
cannella, originario di India e Ceylon, con proprietà di tonico e
stimolante, ma anche antibatteriche e antifungine. Le infusioni erano
fatte con papavero, fumaria, una specie erbacea con proprietà
vitaminizzanti, antifiammatorie, astringenti e antiossidanti, e rosa
canina, senza indicazioni particolari, ma legata ad un simbolismo
antico come fiore “dell’assoluto”.
Tra gli aceti, utilizzati fin dal XV
Secolo per la prevenzione della peste in virtù del principio degli
odori, viene riportato l’aceto distillato e squillitico, preparato
macerando in aceto di vino una graminacea del tipo andropogon,
indicata per favorire la diuresi e le mestruazioni. Gli siroppi erano
soluzioni concentrate di zuccheri provenienti da varie specie per
favorire una conservazione maggiore. Tra questi quello di isopo, una
pianta ritenuta in possesso di qualità depurative, mucolitiche,
espettoranti e lenitive dell’apparato respiratorio; di ninfea,
pianta ritenuta un deprimente dell’eccitazione sessuale; agrimonia,
usata per disturbi epatobiliari, catarri gastrointestinali e disturbi
vescicali; mirto, per bronchiti e malattie polmonari croniche e
borragine, per le sue proprietà diuretiche, sudorifere e
antinfiammatorie.
Oltre agli siroppi semplici si usavano
quelli composti e sollutori, con componenti derivati da produzioni
animali, come il miele mercuriale e il miele rosato. Per la loro
composizione si usava l’assenzio, che per il suo sapore amaro si
prescriveva a coloro che possedevano un cattivo carattere, ma che già
i romani davano in premio ai vincitori delle corse con le quadrighe,
contro i vermi e per le malattie biliari c’era la felce polipodio.
Tra i medicinali nell’inventario
compare per la prima volta la trementina, utilizzata nella
preparazione di giulebbi, sciroppi contenenti anche vino. Per le
febbri croniche, asma e affezioni polmonari si riteneva utile l’uso
dell’ossimiele, una bevanda costituita da miele stemperato
nell’aceto. Sempre il miele era uno degli ingredienti del roob, un
succo di frutti lasciato concentrare al sole o al fuoco, di cui
nell’inventario compare solo la variante a base e di ebulo, sambuco
nero, ginepro indicata per le affezioni nervose femminili.
Il più importante medicamento della
spezieria era ancora la triaca, un prodotto galenico semidenso
composto da oltre 60 elementi, che ebbe un uso costante per oltre
duemila anni fin dai tempi di Andromaco, medico di Nerone, quando era
composta da 54 sostanze tra cui la carne di vipera.
Molti speziali giunsero a fabbricarla
utilizzando anche centinaia di ingredienti: era ritenuta un specie di
panacea universale contro ogni tipo di malattia, oltre che per
prevenire le pestilenze e per affrontare i periodi climatici
sfavorevoli, da assumere in dosi di due scrupoli, circa due grammi,
ad ogni fase di luna, preceduta da due giorni di dieta.
Veramente raccapricciante era la
ricetta per fabbricare alcuni “oglij”, estratti per spremitura o
preparati con spezie macerate in olio. L’olio di cagnoli, citato
tra le preparazioni della farmacia, fa ad esempio inorridire: era
preparato proprio con cagnolini, cuccioli di cane nati da poco che
venivano cotti con lombrichi in olio violato ed acqua fino a quando
non si era consumata tutta la parte umida, poi colato l’aggiunta di
trementina e alcol. L’olio di lombrichi veniva usato per lenire i
dolori delle giunture e dei nervi, quello di scorpioni era utilizzato
contro le punture e i morsi di animali velenosi, le intossicazioni e
la peste: veniva preparato facendo cuocere gli scorpioni vivi in olio
vecchio di un secolo aggiungendo solo semplici vegetali.
Per preparare l’olio volpino si
doveva far cuocere una volpe privata delle interiora in acqua salata
con poco olio, privarla delle ossa dopo la cottura, aggiungere aneto
e timo e poi colare il tutto. Altri oli prevedevano una preparazione
più normale: quello di viole ad esempio, segnalato in epoca romana
da Plinio, veniva usato per estrarre corpi estranei penetrati
nell’orecchio e curare la scabbia. L’olio di trementina derivava
da conifere e era consigliato nella cura delle malattie infiammatorie
broncopolmonari, per facilitare la diuresi, ma anche con la funzione
di tonico. L’olio di lino, pianta estremamente comune nel nostro
territorio, veniva usato, allora come oggi, per impiastri
decongestionanti, pomate per favorire la digestione e contro le
coliche renali.
Unguenti, balsami e cerotti erano
abbastanza comuni. Tra questi ultimi ve n’era uno in particolare
adatto per la cura delle fratture contenente olio mirtino, sugo di
radice di altea, radice e foglie di frassino, di consolida minore,
foglie e bacche di mirto, foglie di salvia: la preparazione così
ottenuta veniva poi bollita nel vino con aggiunta di mirra e incenso,
grasso, trementina, mastice, litargirio, bolo armeno, terra sigillata
e minio.
Tra i balsami famoso era quello
cosiddetto “del Perù”, perché derivato dal lattice di una
pianta sudamericana, che possedeva svariate virtù tra cui quella di
fortificare cuore, cervello e stomaco, detergere e consolidare
piaghe, fortificare i nervi e guarire lo scorbuto.
Non mancavano neppure le pillole,
divise in “maiores” con 36 ingredienti e “minores” con 21, di
origine vegetale, con funzione solitamente antidolorifica e calmante,
e i trocissi, cioè rotelle, formati con polveri medicamentose
impastate con liquidi vari e mucillagini di gomma arabica. Polveri e
spezie erano ottenute pestando finemente la materia oppure bruciando
gli ingredienti e utilizzando le ceneri.
L’inventario della speziaria cita la
polvere “viperina” per le febbri maligne che veniva ottenuta
abbrustolendo le vipere con il sale ammoniaco oppure sale comune,
alle ceneri venivano aggiunte droghe aromatiche pestando poi il tutto
nel mortaio. Le vipere dovevano provenire preferibilmente dai Colli
Euganei, catturate in primavera o meglio ancora d’autunno, dopo che
avevano partorito ed erano di conseguenza meglio nutrite.
Contro la peste, ma anche per guarire
la dissenteria, le coliche biliari e per curare l’esaurimento
nervoso, era usata una composizione chiamata “giacintina”
fabbricata con pietre dure, smeraldi, zaffiri, topazi, rubini e
coralli bianchi e rossi, anche se ancora più costosa era la pietra
medicamentosa del “Crolio” che troviamo nell’elenco della
spezieria cremonese: era preparata con allume, salnitro, ali
d’assenzio, artemia, cicoria, piantaggine, bolo orientale (una
terra untuosa), e guariva ulcere esterne e, mescolata ad acqua
rosata, le infiammazioni degli occhi.
Una panacea indispensabile per guarire
tutti i mali era il “laudano liquido” una tintura a base di
oppio, zafferano, cannella, garofani digeriti in vino a caldo
indicata come antispastico, analgesico e sedativo che andava
somministrata in dosi di sedici o diciotto gocce. Contro l’epilessia,
la paralisi, l’apoplessia e la sordità era preferibile la tintura
di castoro, contenente una sostanza secreta dalle ghiandole situate
vicino ai genitali dell’animale.
Nel laboratorio della spezieria non
mancavano neppure preparazioni con minerali, divenute abbastanza
comuni dopo la sperimentata validità del mercurio nella cura della
sifilide. In elenco figurano l’antimonio e il sale derivato tartaro
emetico. Veniva usato come emetico-purgativo somministrato in forma
di polvere mescolato con conserva di rose e di viole, oppure trattato
in modo da essere fuso in tazze speciali. Lasciando il vino nella
tazza per molte ore avveniva una reazione tra i tartrati della
bevanda e il metallo della tazza producendo tartaro emetico, un
prodotto che induceva il vomito, in seguito proibito ma reperibile
ancora nell’Ottocento.