Benché al giorno d’oggi
non ne esista più alcuna traccia, se non nella storia dei sedimenti
geologici e nei toponimi antichi, il territorio compreso tra la parte
meridionale di Bergamo e il nord di Cremona era in passato il bacino
di una vastissima area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei
fiumi Adda, Oglio, Serio, Lambro e Silero, conosciuta con il nome di
lago, o mare, Gerundo. I primi accenni risalgono all’epoca romana
(se ne fa riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio)
ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale,
negli scritti dello storico del VII secolo Paolo Diacono e di altri
cronisti dell’epoca. Originatosi con tutta probabilità in seguito
al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il lago, che già a
partire dal XI secolo andò riducendosi di estensione, si prosciugò
definitivamente nel corso del XII secolo. Tra le cause più
accreditate di questa “misteriosa” scomparsa, vi sono le ingenti
opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e
cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi. Pur essendo difficile
tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza
il Gerundo si estendeva da Brembate (BG) a nord fino a Pizzighettone
a sud, lambendo con le sue acque la città di Lodi a ovest e Grumello
Cremonese a est. Al suo interno, il lago conteneva una lunga striscia
di terreno, detta isola della Mosa prima e Fulcheria poi, sulla quale
in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata
Crema.
Ma più che il lago,
nell’immaginario e nei luoghi della pianura padana, sono rimaste
vive le tracce del suo antico abitante, Tarànto, Tarantasio o
Tarando, il leggendario drago acquatico che ne avrebbe infestato le
acque sino al suo prosciugamento. Proprio da questa mitologica
creatura prenderebbero il nome Taranta, frazione di Cassano d’Adda,
così come le numerose vie della Biscia site nei paesi che all’epoca
si ritrovavano lungo le coste del lago. Ma una testimonianza ancor
più tangibile la si aveva a Calvenzano (BG), dove gli abitanti del
luogo avevano eretto un muro alto tre metri e lungo 15 chilometri per
difendersi dagli attacchi del mostro. E nel 1110 il monaco Sabbio
parla di torri dotate di anelli per l’ormeggio delle barche, le cui
rovine sono sopravvissute sino ai nostri giorni. Alla base della
leggenda del Tarantasio è probabile che ci siano i numerosi reperti
conservati tuttora o in passato nelle chiese del Bergamasco, del
Cremonese e del Lodigiano. Si tratta di ossa di eccezionali
dimensioni custodite come reliquie e attribuite proprio al temibile
abitante del lago Gerundo. Dal soffitto dell’abside della chiesa di
Almenno S. Salvatore pende una gigantesca costola animale della
lunghezza di 260 cm, che secondo la tradizione sarebbe appartenuta ad
una creatura catturata nei pressi del fiume Brembo. A soli 3 km di
distanza, un altro reperto simile, della lunghezza di 180 cm é
conservato all’interno del Santuario della Natività della Beata
Vergine di Sombreno. Si narra che provenisse da un drago del Gerundo,
ucciso da un giovane eroe. La costola attirò l’attenzione del
naturalista Enrico Caffi, al quale è dedicato il Museo di Storia
naturale di Bergamo, che la identificò come appartenente ad un
mammuth. Infine nella parrocchia di Pizzighettone, presso la
sacrestia della chiesa di S. Bassiano, è custodita una costola lunga
170 cm. La presenza di questi curiosi oggetti non deve però stupire,
dato che spesso ossa di animali esotici, come ad esempio capodogli o
elefanti, erano portate in dono da pellegrini giunti da terre
lontane. Inoltre, non dobbiamo rimanere perplessi nemmeno di fronte
alle cronache dell’epoca, secondo cui le ossa sarebbero state
rinvenute in loco, dato che nell’area del Gerundo non sono
infrequenti i ritrovamenti di ossa fossili appartenute a mammuth o
altri animali preistorici. Dietro la nascita di molte leggende sui
draghi ci sarebbero i resti di dinosauri o di altri giganteschi
esseri del passato.
Nel 1995, ad esempio, il
Corriere della Sera ha riportato la notizia di un’enorme vertebra
di un animale preistorico ritrovata nei fondali del fiume Adda nei
pressi di Pizzighettone, alta 75 centimetri, con una base di 39 e la
sede circolare di un diametro di 16 cm.
Per quanto ne sappiamo
però, tutte le costole che rientrano all’interno di una
documentazione storica più o meno attendibile, sono posteriori alla
bonifica delle zone ed al prosciugamento del Gerundo: questi reperti
avrebbero così contribuito ad alimentare la leggenda di Tarantasio e
dei suoi simili, ma non è altrettanto certo che siano anche state la
causa della loro origine, per risalire alla quale si rende forse
necessario affrontare una particolare caratteristica dei draghi: il
loro alito pestilenziale.
Nel Medioevo non era
infrequente attribuire morti improvvise od inspiegabili alla
minacciosa presenza di misteriosi rettili ed il caso del basilisco è
un esempio lampante di questo.
Molto spesso questa
mitologica creatura, che secondo la tradizione nasce da un uovo di
gallo covato da un rospo, prendeva dimora di pozzi le cui acque
avvelenavano tutti coloro i quali ne attingessero.
Secondo una leggenda nel
IV secolo San Siro liberò la città di Genova da un basilisco che si
era insidiato in un pozzo, mentre a Vienna sarebbe esistita una
lapide che recava iscrizioni secondo le quali nell’anno 1202 un
pozzo infestato da un basilisco fu sotterrato dopo che numerose
persone erano morte per essersi ivi abbeverate.
Secondo il criptozoologo
Maurizio Mosca (autore, tra gli altri, del volume “Mostri dei
laghi”, edito da Mursia) inoltre, le leggende sul drago potrebbe
essere state suscitate dalla presenza nel Gerundo di storioni di
eccezionali dimensioni, in grado per la loro conformazione anatomica
di essere scambiati per grossi biscioni, o di coccodrilli importati
da terre esotiche.
A tale proposito esiste
l’affascinante reperto custodito nella chiesa di Ponte Nossa in
provincia di Bergamo: un coccodrillo impagliato lungo tre metri, di
cui parla un documento conservato presso la Curia di Bergamo,
risalente al 1594. La tradizione orale narrava che un nossese,
invocando la Vergine di Campolungo, avesse ucciso il coccodrillo,
partito dal Nilo, a Rimini. Tuttavia altre versioni narrano di un
grosso rettile che infestava le acque del fiume Serio catturato da
alcuni abitanti e portato nella chiesa come ringraziamento alla
Madonna. Ma mentre sappiamo che questi rettili vivevano in alcuni
fiumi della Sicilia sino al 1600 dopo che furono importati dagli
arabi, individui di una popolazione presumibilmente esigua
difficilmente avrebbero potuto sopravvivere a lungo nel Nord Italia.
Tuttavia un analogo esemplare è conservato presso la chiesa di Santa
Maria delle Grazie di Mantova, catturato, secondo la tradizione,
nelle acque del Mincio, altri sono conservati nella chiesa di Santa
Marta a Como e presso il Sacro Monte di Varese. Altri santuari
‘conservano’ analoghi rettili, appesi al soffitto, come quello di
Curtatone (MN), Montallegro (Rapallo, GE), San Michele Extra a Verona
(dove venne tolto per ‘restauro’ e poi collocato in diversa
sede), nella Farmacia del Monastero di Camaldoli a Poppi (AR), nel
santuario di Nostra Signora delle Vergini a Macerata, o nella chiesa
di San Giorgio a Ragusa Ibla, in Sicilia.
In ogni caso la leggenda
del Tarantasio, ben lungi dal finire archiviata assieme ai documenti
d’epoca, dopo aver acceso l’immaginazione dei nostri antenati ha
continuato ad affascinare anche i contemporanei. Cosa hanno infatti
in comune le grandi ossa conservate in alcune chiese cremonesi e
bergamasche con il cane a sei zampe, simbolo dell’Eni? Semplice: il
mitico Lago Gerundo e il suo misterioso abitante, il mostro
Tarantasio. Il Tarantasio, nelle leggende popolari, era rappresentato
come un’enorme biscia oppure come un drago acquatico, da cui
avrebbe preso spunto il simbolo del cane dell’Eni, che proprio
nell’area occupata dal Gerundo scoprì vasti giacimenti di gas
metano.
La leggenda del drago del
Lago Gerundio fu infatti fonte di ispirazione per lo scultore Luigi
Broggini che prese a modello Tarantasio per ideare l’immagine del
cane a sei zampe, marchio simbolo dell’Eni. Nelle “bassure”
della Lodi Nuova le esalazioni erano mefitiche, oltre che spesso
mortali: probabilmente provocavano la malaria. Si era così diffusa
la voce che nella melma vivesse il drago Tarantasio, che oltre a
emanare tremendi odori ogni tanto emergeva, sbuffando una lingua di
fuoco. Gran sollievo provarono i lodigiani, quando una piena portò
nella “bassura” un osso gigantesco, probabilmente un resto di
dinosauro, che loro presero per un osso di Tarantasio, finalmente
morto. Racconta Ferruccio Pallavera: “Quando, nel 1945, Enrico
Mattei prese in mano l’Agip, fu subito informato che in zona era
stato individuato un giacimento di gas naturale. Mattei fece scavare
altri pozzi e trovarono il metano. E il cane a sei zampe con la
lingua di fuoco dell’Agip altro non sarebbe che Tarantasio, il
drago che tanto aveva impressionato la fantasia degli antichi
lodigiani”.
A partire dai primi
ritrovamenti di Caviaga nel 1946 e fino al 1952, Enrico Mattei aveva
puntato dritto al petrolio, per scoprire molto presto che il tesoro
più abbondante della “cassaforte a cielo aperto”, la pianura
Padana, era in realtà quel gas metano che in pochissimi anni avrebbe
dato energia alla grande industria del nord Italia. Mattei aveva però
bisogno di far credere, all’opinione pubblica e alla classe
politica, che il petrolio c’era e in abbondanza e che il paese
poteva contare su una propria benzina, finalmente prodotta e
raffinata “in casa”. Inizia allora a imprimere una forte
accelerazione alla modernizzazione del ramo commerciale di Eni
attraverso un’immagine pubblicitaria al passo dei tempi, in grado
di coniugare ottimismo, velocità e progresso. La creazione del
marchio del cane a sei zampe, legata alla promozione delle benzine
prodotte nell’impianto di Cortemaggiore, doveva essere l’esempio
di quella realtà italiana “che ce l’aveva fatta”.
Tutto comincia nel 1952,
quando il cane a sei zampe opera dell’artista Luigi Broggini viene
premiato ad un concorso pubblicitario indetto da Eni. Il nuovo
simbolo desta da subito curiosità, che si alimenta nel corso degli
anni per la ritrosia dell’autore a riconoscerne la paternità.
Broggini è un intellettuale e la pubblicità non è considerata
espressione artistica. Al cane a sei zampe, di fatto, manca un
padrone che ne indichi l’indole e le caratteristiche.
L’assenza di una
spiegazione sull’origine di quella strana creatura - un po’ cane
un po’ drago - dà vita a numerose interpretazioni che finiscono
per alimentarne il mito. Il drago-cane di Broggini-Guzzi era rivolto
in avanti, ed emetteva la fiamma in avanti. Poteva sembrare che
avesse l’intenzione di bruciare qualcuno.
Lo stesso Mattei lo
considerò “aggressivo”, per cui la posizione della testa, e di
conseguenza la fiammata, furono corrette all’indietro, anche se
così la postura del cane non apparve del tutto naturale.
Il marchio con il cane a
sei zampe venne presentato per la prima volta nel 1954 e subito
divenne il marchio dell’Eni, nata l’anno precedente. Come autore
del bozzetto figurò il designer Giuseppe Guzzi. Broggini non ammise
mai la paternità dell’opera, che gli fu attribuita dopo la sua
morte (avvenuta nel 1983) in base alle testimonianze del figlio.
Anche l’elemento più
caratteristico dell’iconografia araldica dei Visconti, antichi
signori di Milano, é senza dubbio il sinuoso “serpentone”
ritratto nell’atto di ingoiare uno sventurato essere umano, ma le
leggende circa la sua reale origine sono talmente diversificate e
numerose che risalire ad una sicura genesi storica é impresa
praticamente impossibile. Tra le varie storie riguardanti la morte
del Tarantasio, una accredita infatti l’uccisione del biscione a
Uberto Visconti, giunto in soccorso di un fanciullo. Tuttavia tale
ipotesi riguardo la leggendaria origine del simbolo di Milano sarebbe
poco plausibile, dato che l’adozione dello stemma del drago da
parte del capoluogo lombardo sarebbe antecedente la nascita di
Uberto.
A contendersi il merito
dell’uccisione del Tarantasio con il Visconti è nientemeno che San
Cristoforo in persona, che secondo una leggenda locale sarebbe stato
invocato dal vescovo di Lodi Bernardo Tolentino e avrebbe fatto
prosciugare il lago Gerundo provocando così la morte del suo
“fastidioso inquilino”. Di qui il voto di far restaurare la
chiesa di San Cristoforo a Lodi, effettivamente ristrutturata nel
1300.
Nel suo “De Magnalibus
Mediolani” Bonvesin de la Riva riporta: “Viene offerto dal comune
di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri
il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che
inghiotte un saraceno rosso: e questo vessillo si porta innanzi ad
ogni altro: e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede
sventolare da un’antenna l’insegna della biscia. Questo
privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle
vittoriose imprese compiute in Oriente contro i saracini da un Ottone
visconti valorosissimo uomo”.
Il cronista Galvano
Fiamma, riferendosi sempre allo stesso episodio, lo ha tramandato ai
posteri con maggiore dovizia di particolari, spiegando che durante
l’assedio di Gerusalemme Ottone sconfisse in un duello il terribile
nobile saraceno Voluce, che per sottolineare la sua presunta
invincibilità, era solito combattere sotto il simbolo di un serpente
che ingoiava un uomo.
Un’altra versione vuole
invece che dopo la morte di San Dionigi un drago giunse nei dintorni
di Milano trovando dimora in una grotta situata oltre le mura della
città. Dopo diversi infruttuosi tentativi di uccisione da parte di
disparati cavalieri, giunse a Milano Uberto Visconti che affrontò e
sconfisse il mostro prima che quest’ultimo potesse ingoiare del
tutto un fanciullo che aveva già cominciato a ghermire tra le sue
fauci.
I più romantici saranno
di certo disposti a collegare tra loro la leggenda di Uberto e quella
dei draghi dell’antico Gerundo.