Forse non sarà lui l’inventore dei marubini, ma di certo è
proprio nel suo trattato, compilato traducendo dall’arabo due secoli prima che
venisse dato alle stampe il “De honesta voluptate” di Bartolomeo Platina, che
si trova per la prima volta una ricetta antesignana del tipico piatto
cremonese. Non per nulla l’autore di questa straordinaria raccolta gastronomica
è Giambonino da Cremona, che sul finire del XIII secolo tradusse in latino un
estratto della monumentale enciclopedia scritta a Bagdad da ibn Jazla nella
seconda metà dell’XI secolo, forte di 2170 voci, dedicata al califfo al
Muqtadi. Di Giambonino si sa poco o nulla. La sua opera, il “liber de ferculis
et condimentis” è conservata in un codice miscellaneo della Biblioteca
Nazionale di Parigi ed è stata rintracciata per la prima volta nel 1900 da
Francesco Novati, che ne pubblicò la notizia sull’Archivio Storico Lombardo. Il
manoscritto è molto lacunoso, ed in parte addirittura illeggibile per le tracce
di umidità, tuttavia, per nostra fortuna, è stato tradotto dal latino al
tedesco nel corso del XV secolo, ed una copia di questa traduzione è contenuta
in un codice miscellaneo della Bayerische Staatbibliothek di Monaco di Baviera.
Nel suo trattato troviamo per la prima volta la descrizione di un tipo di pasta
ripiena che è il diretto precursore dei moderni ravioli e dei più nostrani
marubini: il sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere
farcita con un ripieno di carne per poi essere lessata o fritta. Non ne saremmo
così sicuri se, qualche anno prima di Giambonino, alla corte del re Manfredi,
non fosse stata promossa la traduzione in latino del Taqwin as sihha di Butlan,
che così descrive questo tipo di pasta: “Et sambusuch, id est, Calizon panis:
quorum pasta non digeritur, quando non bene decoquuntur cum fiunt. Et Sambusuch
est cibus, qui dicitur Ramoli, factus de carnibus minutim incisis, et ovis, et
herbis: et impedit digestionem eorundem unctuosum eorum”. Il traduttore
stabilisce una corrispondenza precisa tra i calzoni ripieni ed i ravioli, anche
se erroneamente vengono trascritti come “ramoli” e lo sottolinea disegnando al
piede della pagina un pane, una focaccia ed alcuni fagottini. La carne macinata
era condita con succhi agri di frutta e inserita in una sfoglia di pasta triangolare
(sanbusaj significa infatti tutto ciò che ha tale forma). Per il ripieno viene
usato un altro termine: Mudacathat, che Giambonino così descrive: “E’ migliore
perché è fatta con carne di montone: ed è calda e umida e rafforza il corpo e
conviene a quelli che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione
o angoscia o paura e provoca nausea, e il suo danno si rimuove con acqua di
sommacco. E si fa così, ed è chiamata mudacathat di canfora: prendi petti di
gallina e tagliali in piccoli pezzetti e aggiungici una libbra di carne di
montone e tagliala con un coltello in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di
grasso di pollo ovvero strutto di pollo, e rimestalo nella pentola fino a che
il grasso si sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 2 dracme di salgemma
e 20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e
cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una libbra di
acqua, e fai bollire finchè sua mezzo cotto; e poi prendi 30 dracme di mandorle
pelate e pestale con acqua di rose facendole diventare come latte, e aggiungilo e mescolalo nella
pentola, e getta nella pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino
in cui sia racchiuso comino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra
due uova sbattute e mescola; e dallo a chi vuoi”.
Prima di proseguire è opportuno aprire una breve parentesi
per capire come da Bagdad le nostre ricette si siano diffuse in occidente, sino
a diventare un patrimonio gastronomico comune a più tradizione culinarie. Nel
corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla compongono due
manuali di interesse medico in cui inseriscono una serie di vere e proprie
ricette. Re Manfredi cura in Italia meridionale la versione del Taqwim as sihha
di Butlan, che prende il nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si
dedica al Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi
compendiato da Giambonino in lingua latina a Venezia verso la fine del XIII
secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di Giambonino viene inserita in
una raccolta miscellanea per Carlo II d’Angiò in cui compaiono anche gli altri
due libri di cucina che viene poi trasferita verso la fine del secolo in
Francia presso il duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una
fondazione religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base
del Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con le
miniature di Giovannino de’ Grassi
e nel Quattrocento si traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in
una università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel XVI
secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo di Jazla per
compilare un glossario arabo-latino al Canone di Avicenna, la “Interpretatio
arabicorum nominum” stampata a
Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i Tacuini di
Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire l’anno seguente
quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è sufficientemente spiegata
una preparazione in uno di questi testi, possa venire in aiuto il confronto con
opere analoghe dello stesso contenuto. E’ appunto questo il caso del nostro
“sambusuch”, il contenitore triangolare di pasta ripieno di carne macinata
acidulata per il quale il traduttore di Butlan propone il termine “ravioli”
indicandoci quale fosse la strada che la preparazione araba aveva preso in
Occidente. Così è anche per il mudacathat. Con questo termine Jazla indica le
carni tritate e fornisce la ricetta della “mudaqqaqa kafuriya” che il nostro Giambonino traduce come “canfora” ma
che in realtà è un genitivo di possesso, cioè “trito di Kafur”.
Nel manoscritto latino di Butlan all’intestazione
“mudaqqaqa” si accompagnano i termini “bacuca” e “rafiole”: il primo
corrisponde al latino “batuta”, cioè carne macinata ed è un termine che indica
in generale i pastumi di carne per i diversi tipi di ripieni contenuti in
involucri di pasta, oppure preparati in varie forme di polpette che ritroviamo
nel Liber di Giambonino per indicare l’impasto di carne adatto a farcire pastelli o torte. Il secondo è invece
il plurale del termine femminile “raviole”, usato come il maschile “ravioli”
per indicare l’impasto di carne
racchiuso in una sfoglia, oppure semplicemente fritto come una polpetta, cioè
senza la crosta. E’ possibile che Giambonino conoscesse già i ravioli,
introdotti nell’Italia settentrionale intorno alla metà del XII secolo. E’
interessante notare come la versione di Jazla in cui la carne macinata non è
manipolata in polpette, tradotta dal nostro Giambonino, venga poi ripresa due
secoli dopo dal Platina nella ricetta del “pastillus in olla”.
Miniatura da un manoscritto di Avicenna |
Ma chi era il nostro Giambonino? Dopo il cenno che ne fa
Francesco Novati nel 1900 in due stringate paginette sull’Archivio Storico
Lombardo, al suo “Liber de ferculis” ha dedicato un bel volume Anna
Martellotti, pubblicato nel 2001dall’editore Schena di Fasano in provincia di
Brindisi. (Il Liber de ferculis di Giambonino da Cremona. La gastronomia araba
in Occidente nella trattatista dietetica. Schena 2001). Innanzi tutto ricaviamo
la sua origine cremonese dall’explicit apposto in calce al manoscritto
miscellaneo della Nazionale di Parigi rintracciato dal Novati, e questo
conferma che Giambonino appartiene a pieno titolo a quella grande scuola di traduttori
dall’arabo che proprio in Gherardo da Cremona ebbe il suo più grande maestro.
Come sappiamo quest’ultimo si era stabilito a Toledo, dove intorno al vescovo
Raimondo, morto nel 1151, era nata una importantissima scuola di traduttori di
testi arabi a cui collaboravano studiosi cristiani, arabi ed ebrei. Tra le
varie traduzioni attribuite a Gherardo vi è anche quella di un trattato
dietetico, il “kitab fi aladwiya al-mufrada” del medico Andaluso ibn Wafid,
trascritto con il titolo “Liber Albenguefith philosophi de virtutibus
medicinarum et ciborum” che altro non è se non una classificazione delle
materie prime in base alle loro funzioni terapeutiche. E’ possibile che
Giambonino possa essere un prosecutore di questi interessi di Gherardo, anche
se lavora e traduce a Venezia che, peraltro, ha intensissimi contatti
commerciali con Cremona. Quasi sicuramente era un medico, come attesta il
titolo di “magister” che gli viene attribuito in calce al manoscritto ed
esperto della lingua araba, anche se è possibile si facesse affiancare da un
parlante di madrelingua, forse un mercante, che potesse aiutarlo nel reperire
l’esatta corrispondenza degli ingredienti, delle spezie o delle erbe. Anna
Martellotti colloca la stesura del liber intorno agli ultimi trent’anni del
Duecento e ne fa un episodio isolato che non si inserisce in una scuola di
traduttori ma piuttosto in quella cultura medica nata negli ambienti
universitaria di Padova e Bologna. A questo proposito Enrico Carnevale Schianca
propone di identificare il nostro Giambonino con il medico Zambonino da Gazzo,
insegnante di filosofia all’università di Padova nella seconda metà del
Duecento e morto nei primi anni del secolo successivo.