domenica 22 luglio 2018

Tommaso Turco, generale domenicano

Lorenzo Bernini, Ritratto di papa Urbano VIII
Si racconta che Niccolò Ridolfi, maestro generale dei Domenicani costretto alle dimissioni da papa Urbano VIII della potente famiglia Barberini, richiesto dai Padri del Capitolo quale dovesse essere la persona più adatta a ricoprire l'alto incarico, avesse risposto, senza alcuna esitazione: “Turco”. E fu così che un professore cremonese di filosofia, diventò il Maestro generale dell'Ordine dei predicatori, la maggiore autorità dell'ordine religioso fondato da Domenico di Guzmàn.
Tommaso Turco, o Turchi, era nato a Cremona nel 1595 “da onesta stirpe” ed appena quindicenne era stato ordinato frate il 29 agosto 1610, ed assegnato al convento cittadino. Dieci anni dopo si era già fatto conoscere per le sue doti intellettuali nello studio della filosofia e della teologia, ed aveva già fatto progressi così sorprendenti al confronto con gli altri allievi, che il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di Alessandro divenuto papa nel 1621 con il nome di Gregorio XV, lo aveva voluto presso di sé come suo teologo personale. Nel 1623, nonostante la sua giovane età, lo aveva addirittura fatto nominare dallo zio vescovo di Scala e Ravello nel Regno di Napoli, anche se in realtà la nomina non aveva avuto effetto, appunto perchè ritenuta sconveniente. “Più utile forse, e per l'Ordine suo più decoroso fu, che tratto non ne fosse per essere su di una cattedra Vescovile collocato - osserva il suo biografo, fra Giambattista Contarini (Notizie storiche circa li pubblici professori nello studio di Padova scelto dall'ordine di San Domenico, Venezia, 1769) – poiché proseguendo ad insegnare nelle scuole de' Conventi più insigni di sua vasta Provincia, se ne sparse la fama per tutta l'Italia, come di uomo per profondità di dottrina, per copia di erudizione, per la perizia nel diritto canonico, nella storia ecclesiastica, ed in più lingue, spezialmente ebraica, greca, caldea, superiore a molti, né inferiore ad alcuno de' tempi suoi”.
Proprio per queste sue qualità, il maestro generale dell'ordine, fra Niccolò Ridolfi, che tre lustri dopo lo avrebbe indicato come suo successore, lo aveva scelto fra tanti altri, nonostante la sua giovane età, per reggere lo studio generale di Bologna per poi, nel successivo Capitolo generale a Roma nel 1629, dichiararlo Maestro senza, tuttavia, abbandonare l'insegnamento a Bologna. Più tardi, dovendo scegliere il successore di fra Marco Rossetti, il 27 gennaio 1631 i riformatori dello studio di Padova proposero al Senato padre Tommaso Turco per la cattedra di metafisica. Non solo il Senato accettò l'indicazione, ma assegnò al giovane Tommaso uno stipendio di duecento fiorini, una cifra superiore a quella che solitamente veniva attribuita- “L'applauso che riscossero fino da principio le sue lezioni – osserva ancora il biografo – corrispose alla fama, che di lui era precorsa, singolare era il profitto che ne traevano li studenti, non ordinaria la soddisfazione che ne provava il Senato; ma sensibilissimo, e comune a tutti il dispiacere in veggendolo dopo un solo quinquennio obbligato a dimettere l'impiego, per assumerne altri a' quali il Cielo lo aveva destinato”. Era accaduto che papa Urbano VIII, che conosceva bene fra Tommaso, lo aveva chiamato a Roma verso la fine del 1643 per assumere l'incarico di Procuratore generale dell'ordine, in seguito alla morte di Padre Domenico Gravina, prologo alla successiva nomina a Maestro generale da parte del Capitolo di Roma il 13 maggio 1644, vigilia di Pentecoste.
La chiesa di San Domenico a Cremona
In realtà a favorire la nomina di fra Tommaso era stato Niccolò Ridolfi, caduto in disgrazia presso la famiglia Barberini, da cui proveniva il papa. I motivi vanno individuati da un lato nella forte azione riformatrice di Ridolfi presso l'ordine domenicano di Francia, e dall'altro nelle vicende romane. Per questo motivo, una volta divenuto Maestro generale, una delle prime preoccupazioni di Tommaso fu quella di riabilitare il suo anziano protettore. Ma andiamo con ordine.
Niccolò Ridolfi era divenuto domenicano dopo un incontro con San Filippo Neri e dopo aver frequentato in un primo tempo la Compagnia dei Gesuiti. Aveva rifiutato una prima nomina cardinalizia, per diventare in seguito teologo personale di papa Gregorio XV e, deceduto fra Serafino Secchi, Vicario generale dell'ordine, nominato da Urbano VIII e, eletto dai frati, Maestro generale. In tale veste si era preoccupato di risanare la situazione economica dell'Ordine e di riequilibrare le differenze fra un convento e l'altro e fra un religioso e l'altro; non di rado vi erano infatti numerose disparità fra religiosi ricchi e poveri e fra conventi ricchi e poveri. A questo scopo aveva creato la Cassa Generalizia dell'Ordine, espropriando tutti i beni e gli averi che, in violazione della regola, conventi e religiosi avevano conservato e che eccedevano le necessità quotidiane.
Questo procurò molta prosperità all'Ordine e agli stessi conventi, dal momento che il Maestro generale cominciò a redistribuire in maniera molto munifica le risorse che affluivano nella Cassa generalizia, donando soprattutto a quei conventi che erano in difficoltà e ai poveri. Nello stesso tempo, però, gli procurò problemi con i religiosi ricchi e con quelli poveri che intanto si erano arricchiti; e furono soprattutto alcuni di questi ultimi, che in qualche caso avevano usato risorse dell'Ordine per mantenersi e mantenere i loro familiari, a promuovere processi contro di lui e la sua azione riformatrice. Il divario fra conventi e religiosi ricchi e poveri era particolarmente presente in Francia, dove negli ultimi cento anni si era anche cominciato a non rispettare più la regola da un punto di vista morale. Si erano formate due categorie di frati: la più ricca, comprendente i maestri in teologia, i baccellieri, i predicatori e i frati di famiglie benestanti viveva una vita agitata, godeva di molti privilegi, possedeva in convento i propri appartamenti, non viveva in comunità ed era dispensata dal coro e dalla messe cantante, aveva al proprio servizio conversi e domestici e andavano a questuare per conto loro. La categoria dei frati poveri, ai quali il convento non passava nulla, tirava avanti a fatica, era obbligata a questuare ovunque, anche nelle taverne, ed era gravata dagli impegni più pesanti, come la presenza nel coro, la celebrazione delle messe ad ora tarda o cantate, l'ascolto delle confessioni. Ovviamente le famiglie benestanti non mandavano volentieri i loro figli in un ordine dove per vivere si doveva chiedere la carità e di conseguenza calavano le vocazioni e si doveva ricorrere ai ceti più poveri, mentre nel frattempo fiorivano gli altri ordini come i Gesuiti, i Recolletti, i Carmelitani scalzi, i Cappuccini, ammirati e sostenuti dalla gente.
Velasquez, Ritratto di papa Innocenzo X
Lassismo e squilibri cessarono con il mandato di Ridolfi, che con una risoluta azione si trasferì oltralpe per guidare in prima persona il cambiamento. Appena arrivato impose di nuovo rigore e austerità ai frati ricchi e si preoccupò in pari tempo di migliorare la vita dei frati più poveri, spesso incaricati dei lavori più pesanti e costretti ad elemosinare ovunque per tirare avanti.
A tale scopo
egli fece valere anche le disposizioni, uscite da tanti capitoli precedenti ma mai applicate fino ad allora, che obbligavano ricchi e poveri ad un unico e comune noviziato, fondando anche un nuovo Noviziato Generale in Parigi. Egli inoltre introdusse anche fra i domenicani gli esercizi spirituali retaggio della sua giovanile frequentazione dei Gesuiti. Nei conventi visitati da Ridolfi non c'era più alcun tipo di silenzio né clausura, uomini e donne circolavano liberamente e non vi erano più un refettorio comune, un biblioteca, vesteria, dormitorio perchè ognuno viveva per conto proprio lasciando la chiesa ed lo stesso convento in totale stato di abbandono
Sul piano politico, sulla scorta dell'esperienza fatta al tempo della sua permanenza transalpina, tentò una difficile mediazione con il cardinale Richelieu per riappacificare Francia, Spagna ed Austria e scongiurare un'alleanza dei francesi con i protestanti. Ma la sua azione riformatrice in campo religioso, che aveva colpito numerosi interessi, e la sua azione diplomatica, che gli aveva attirato molte antipatie e lo aveva coinvolto in trame più alte e inestricabili, provocarono la sua deposizione, desiderata sia dai frati cui aveva sottratto ricchezze e aveva costretto a tornare alla piena osservanza della regola, ma anche auspicata velatamente dalla cancelleria francese. Fu così che al Capitolo convocato a Genova nel 1642, il candidato filofrancese Michele Mazzarino, fratello del più famoso Giulio, arrivato in anticipo coi suoi sostenitori e prima che fossero giunti tutti gli altri provinciali, riuscì a leggere ai presenti un documento del cardinal Barberini che lo designava presidente del Capitolo. Mazzarino riuscì a far approvare la deposizione di Ridolfi e, poco dopo, a farsi eleggere nuovo maestro generale da un ridotto numero di aventi diritto. Per tutta risposta, i frati austriaci e spagnoli, contrari alle trame politiche dei Mazzarino, uscirono dal Capitolo e, riunitisi a Cornigliano, elessero un altro maestro, Tommaso di Rocamora. A questo punto, il Papa fu costretto a nominare una commissione che dichiarò nulle sia la deposizione di Ridolfi che le successive elezioni di Mazzarino e Rocamora, restituendo il governo dell'Ordine al primo dei tre. Il Papa in seguito demandò ad un successivo Capitolo Generale il giudizio delle colpe, ma poco dopo sollevò ugualmente Ridolfi dall'ufficio, chiudend operò tutti i processi contro di lui e manifestando l'intenzione di chiamarlo all'episcopato. Intanto al Ridolfi non fu affidata nessuna diocesi, mentre il Mazzarino venne nominato Maestro del Sacro Palazzo.
Nel successivo Capitolo, convocato a Roma dal Papa nel 1644 i frati che pensavano di poter rieleggere prontamente il Ridolfi, si trovarono di fronte al veto del pontefice, che fece valere il suo rifiuto anche nei confronti di fra Domenico de Marinis, maggior collaboratore di Ridolfi, in un primo tempo eletto dal Capitolo. La grande paura della famiglia Barberini era che Ridolfi, durante il Capitolo, potesse rivelare gli intrighi e le malefatte della famiglia cui apparteneva il papa. A quel punto i padri capitolari si orientarono sul nome di Tommaso Turco, anch'esso consigliato loro da Ridolfi e, alla fine, confermato dal Papa. Alla morte di Urbano VIII, avvenuta lo stesso anno, salì al soglio pontificio Innocenzo X, della famiglia Pamphili, acerrima nemica dei Barberini che, amico del Ridolfi, elevò alla carica del Sacro Palazzo proprio Domenico de Marinis, il candidato al governo dell'Ordine su cui Urbano VIII aveva posto il veto.

Forse Tommaso Turco avrebbe voluto risolvere subito la questione del suo mentore Niccolò Ridolfi, ma si fermò a Roma solo un anno. Si recò dapprima in Francia, ed il 26 novembre 1645 era a Parigi per riformare il convento di San Giacomo. Racconta il suo biografo: “Persuasa con particolarità la Regine del sapere singolare del nostro Generale, premurosamente incitollo a combattere e colla voce, e con la penna l'eresie che in quel regno ed in que' giorni oltremisura infierivano; lo che fatto forse egli avrebbe, se in quel poco tempo che restogli di vita, altri gravissimi affari tenuto non lo avessero indispensabilmente occupato”. Fu così che nel marzo 1646 dalla Francia passò in Belgio, dove fu accolto con grandi feste e grande entusiasmo, e da lì di nuovo in Francia nel convento di Tolosa, e poi in Spagna, ricevuto dallo stesso re Filippo IV, per il Capitolo generale di Valencia del 1647. Riuscì a tornare a Roma nel 1648 e subito sollecitò il nuovo papa Innocenzo X a riunire una commissione di cardinali per riabilitare il Ridolfi, fino alla sua completa assoluzione. Purtroppo per ironia del destino, fu tutto inutile. Tommaso Turco morì improvvisamente il 1 dicembre 1449 a 54 anni di età, e Niccolò Rodolfi pochi mesi dopo, il 1 maggio 1650, a dieci giorni dall'apertura del Capitolo che lo avrebbe sicuramente eletto maestro generale. Conclude il suo biografo: “Com'egli era uomo di gran mente, di attività, di coraggio, così concepute aveva idee, quali se mandate avesse ad effetto risultate sarebbero in gran vantaggio, e sommo lustro di quell'Ordine, di cui era capo; ma la morte che in età troppo fresca lo colse, gliene impedì la esecuzione. Li disagi sofferti ne' lunghi viaggi, le occupazioni moleste, ed incessanti, guastarongli per tal modo la sanità, che un solo anno in circa da che restituito erasi da Spagna in Roma, fu sorpreso da gravissima infermità, che tosto ei riconobbe mortale; onde chiesti, e ricevuti con superiorità d'animo, e spirito di singolar divozioni gli ultimi Sacramenti, cessò di vivere il primo dicembre 1649, che della età sua non era che il 54: Pianse la di lui morte immatura, non solamente l'Ordine nostro, che in lui perduto aveva un Generale per costumi, per dottrina, per zelo, per intrepidezza, per estimazione, e per merito a veruno de' suoi predecessori non inferiore; ma la compianse tutta Roma, l'Italia, la Europa; e lagnossene con distinzione il Pontefice Innocenzo X che al funesto annunzio, che recato gliene fu, ebbe a dire: che caduta era una colonna della cristiana Repubblica, non che della Religione Domenicana”.

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