lunedì 25 giugno 2018

Angelo Motta, il metallizzatore di corpi

Il diploma all'esposizione di Genova nel 1855
Scienziato pazzo, genio della chimica, o impostore? Sul cremonese Angelo Motta pesa il giudizio del direttore del manicomio provinciale Giuseppe Amadei che, nel 1889, dopo la sua morte, lo definì un “mattoide” (Amadei Giuseppe, Una scoperta mattoide. La metallizzazione dei corpi organici di Angelo Motta, Cremona, Ronzi e Signori, 1889). In realtà il professor Angelo Motta apparteneva a quella schiera di scienziati positivisti che, dalla metà dell'Ottocento, inseguiva il miraggio di preservare i corpi dalla decomposizione. Una schiera che, tra gli altri, annovera illustri personalità come il pavese Paolo Gorini, Girolamo Segato, Efisio Marini, Raimondo di Sangro. Personaggi eccentrici e misteriosi che hanno in comune il fatto di aver portato il loro segreto con sè nella tomba. Visti con diffidenza, osteggiati in quanto appartenenti, come quasi tutti gli scienziati del tempo, alla massoneria, bollati come stregoni. Famoso resta il caso di Paolo Gorini, nei cui confronti a Lodi si era diffusa la voce che, bussando alla porta del suo laboratorio, si poteva venire accolti da una delle sue mummie. L'orrore per la putrefazione e, di conseguenza, il desiderio di conservare i corpi umani, nasceva da diverse esigenze di tipo igienico, sanitario e scientifico, in un periodo storico in cui l'assenza di norme igieniche era all'origine del susseguirsi di epidemie coleriche e di febbre tifoide e la difficoltà di conservazione dei reperti anatomici impediva l'approfondimento degli studi in materia. Ma come conservare i corpi? Se Gorini e Segato avevano sperimentato tecniche di pietrificazione, il nostro Motta, esperto di oreficeria e galvanoplastica, era noto come il “metallizzatore”: prima di morire in miseria nel 1888, a Torino aveva trasformato in rame la testa di una bambina cremonese, Fanny Podestà, avvelenata per errore con acido solforico dalla inserviente, che aveva subito un discusso processo. Angelo Motta, nato a Cremona nel 1826, affermava di poter trasformare in metallo, tramite l’utilizzo della corrente elettrica, qualsiasi corpo immerso in una soluzione, in maniera che di questo rimanesse la struttura fino al livello molecolare, ma la sostanza non sarebbe stata altro che metallo. Osteggiato a Cremona, ma difeso da giornali come “Il Corriere cremonese”, Motta aveva trovato ferventi sostenitori in Paolo Gorini, in Giuseppe Frisi, direttore del “Corriere cremonese”, Guglielmo Calderoni, nello stesso medico onorario della real Casa Gioachino Stampacchia, ed aveva reso partecipe delle sue difficoltà e dei suoi segreti, un professore cremonese, un certo Pizzi, che in un manoscritto conservato all'Archivio di Stato (Comune di Cremona, manoscritti, n. 205) racconta la serie di incontri avuti con lo scienziato dal 23 agosto al 3 settembre 1868. Come avviene anche nel caso di Gorini, le scoperte di Motta sarebbero state del tutto casuali: “E in quanto ai suoi studi narrò – racconta Pizzi – che egli stesso deve in gran parte alle fortuite combinazioni le sue scoperte. Un giorno attendeva ad ottenere su un gesso per altre vie i risultati della galvanoplastica. Quando gli viene a cadere di mano entro un vaso contenente un fortissimo acido un altro gesso. E osservò con meraviglia che invece di decomporsi quel gesso anneriva, ed era veramente nero. Meravigliato, lo tocchò e lo raccolse con una verghetta di vetro. Allora riflettendo alla natura della composizione degli acidi ch'era nel vaso, trovò che per quella via si trovava ossia si giungeva subito alla carbonizzazione, vale a dire a rendere positivo il corpo a ricevere l'azione dell'elettricità e dell'immissione del solfato di rame, ossia alla già nota metallizzazione. Pensò e provò tosto a metallizzare quel gesso, vale a dire a sostituire nel corpo carbonato la mollecola metallica. Da quella scoperta -aggiunge Pizzi – passò all'idea della metallizzazione della carne”.
Il diploma all'esposizione cremonese del 1863
L'anno prima, d'altronde, Motta aveva dato corpo ai suoi progetti andando a San Fiorano, nel Lodigiano, per riprodurre la mano destra di Garibaldi oggi conservata al museo civico di Cremona. In realtà il nostro professore, prima di ricorrere all'eroe dei due mondi, aveva fatto un tentativo con l'Ospedale maggiore di Cremona per ottenere una mano da metallizzare. Ma il Prefetto aveva declinato l'invito, suggerendogli, in una lettera del 6 settembre 1864, di rivolgersi altrove: “Lo scrivente nel mentre esprime alla S.V. Ill.ma le proprie congratulazioni per l'amore che professa alla Galvano Plastica, studiandosi di dare a questa scienza maggiore incremento e di farne l'applicazione ad oggetti anatomici, è nella dispiacenza di non poterle accordare il permesso di esportare da questo Civico Ospedale la mano di un cadavere per farne esperimenti di metallizzazione, essendo questo un procedimento a cui si oppongono particolari discipline sanitarie, e che produrrebbe un triste effetto morale nel pubblico, segnatamente in coloro che nell'interno di questo stabilimento hanno a lamentare la morte dei loro cari. Per ora trovi la S.V. argomenti dei proprio studi nelle membra di qualunque siasi animale bruto, e quando avrà constatato potersi ripromettere felici risultati potrà rivolgersi a questa Compagnia di Carità che presi i propri concerti col corpo sanitario dello Spedale, le somministrerà nella camera anatomica quei mezzi che valgano ad assecondarla ne' suoi studi di più elevata utilità anatomopatologica”. Ma Motta non si era dato per vinto, forte della celebrità conquistata sui giornali e dell'amicizia riservatagli da Paolo Gorini. Lo stesso Fulvio Cazzaniga scrive il 17 luglio 1865 un articolo entusiasta sul “Corriere cremonese” dopo aver visitato il suo laboratorio. E si capisce che ormai Motta ha valicato il confine e fatto il salto di qualità, senza attendere l'Ospedale Maggiore. Nel suo studio non vi sono, infatti, solamente “mazzi di fiori, animaletti, gambi di melgone, frutta, penne d'oca, cigari, canestri, e perfino merletti riprodotti tali quali in rame, essendo che questo metallo si è surrogato alle molecole organiche e ne riproduce esattamente tutte le forme e le foggie più minute e delicate”. E Cazzaniga sottolinea che “i suoi processi sono tali che si può ottenere la metallizzazione completa di un oggetto, per modo che la sostanza di questo scompaja affatto per essere sostituita integralmente dal rame in tutte le parti sue; ovvero si riesce ad una semplice rivestitura esterna che lasciando intatta la sostanza ne porge le forme estere mascherate completamente di rame”. Ma c'è ben altro: “Abbiamo visto nel suo studio un cranio umano, non più osseo, ma tutto di rame, colla riproduzione la più esatta e squisita delle più piccole forme, delle più delicate particelle che lo costituiscono. E' una vera meraviglia. V'ha di più ancora; questa metallizzazione il Motta l'ha ottenuta non solo delle parti ossee dello scheletro, ma delle molli eziandio, e con pari fortuna; poich'egli riproduce in rame nientemeno che tutto un cadavere, il quale si rifa di metallo senza perdere menomamente della sua identità quasi diremmo fotografica, e senza per nulla scemare nella freschezza che possedea prima dell'operazione. Esso infatti possiede la testa di una bambina, di cui gli inconsolabili genitori vollero conservare una immagine fedele. Essa è tal quale, è un maschera metallica stupenda, quasi fosse di raso, di un rame finissimo e splendido, che non si potrebbe desiderare né più somigliante né più vera. Così abbiamo visto una piccola mano d'un altra bambina, e un pezzo di cuore di majale”. Tuttavia anche Cazzaniga mostra di non capire esattamente come avvenga il processo di trasformazione, confuso ancora con la galvanoplastica. “E' questa una bella e nuova scoperta di applicazione della galvanoplastica, della quale le arti, le scienze e la stessa pietà delle famiglie ne possono grandemente vantaggiare- scrive Cazzaniga - Se il segreto di conservare i cadaveri del Segato è perduto, ora possiamo rallegrarci che il Motta ha discoperto il modo di perpetuare le forme di qualsiasi sostanza organica animale e vegetale in guisa da tramandarne fino alla fine dei secoli la esatta riproduzione. E però la conservazione dei cadaveri e delle loro forme è però poco meno che eterna, si si vogliano soltanto rivestire di rame sia che la loro metallizzazione la si voglia completa rifacendo esattamente non solo tutte le forme, ma tutti i visceri e le ossa interne per la più tarda posterità”.
Una vecchia foto della mano di Giuseppe Garibaldi
Il silenzio di Motta sul procedimento da lui adottato per la conservazione dei corpi è destinato ad alimentare lo scetticismo, e lui lo sa bene. Ma la sua è una scelta consapevole. Motta era nato come orefice ed aveva lavorato anche alla Zecca, partecipato come volontario alla prima colonna Tibaldi del 1848, per poi trasferirsi in Sardegna come impiegato presso gli uffici del ministero delle miniere piemontese. Di ritorno si era stabilito a Genova, dove fece fortuna effettuando analisi chimiche sui coloranti per conto di grossi negozianti e perizie per il tribunale. A Genova nel 1855 era stato premiato con menzione onorevole all'Esposizione industriale per un cartello ed una cornice di zinco, nel 1863 aveva ottenuto la medaglia d'argento all'Esposizione industriale di Cremona e nel 1864 all'Esposizione del Comizio agrario di Crema, mentre negli stessi anni realizzava una navicella d'oro e d'argento raffigurante la città di Cremona per il conte Cavour. Motta, come racconta Pizzi “studiava la galvanoplastica, tentando altre vie”. Quali fossero, possiamo immaginarcelo, dal momento che Pizzi nel suo racconto accosta Motta a Segato, che “pietrificava i cadaveri” e a Gorini, “ricco professore di Lodi” che “studiava ed operava alla conservazione dei cadaveri”, che per questo era riuscito ad ottenere dal Governo il “cavalierato e la pensione di L: 2500”. Intanto “Motta studiava esperienze”, racconta Pizzi, seguendo da vicino gli esperimenti di Gorini “e toccando della sua gran ricerca della Metallizzazione dei cadaveri, parve accennare che producendo una certa temperatura intorno al pezzo anatomico ci lo conservi e difenda dalla putredine. E questa temperatura osservò qual'è nel ghiaccio ordinario, e che s'accresce unendo al ghiaccio il sale, e che si moltiplica a dismisura con altri silicati, i quali in parte si hanno in commercio, altri invece no, e sono o un preparato dei chimici, o, per quelli ch'egli adopera nelle sue operazioni, una composizione e un segreto tutto suo”. Ma Motta, per proseguire le sue ricerche, ha bisogno di risollevarsi dalla crisi finanziaria in cui è caduto. Divulgare il suo segreto non avrebbe senso, è l'unico asso nella manica che possiede per aspirare ad ottenere quella pensione che gli potrebbe consentire di vivere serenamente. Ed ecco allora che, come ultima spiaggia, si rivolge a Pizzi. “Gli articoli di giornali non mi fan nulla – dice – Io avrei bisogno di trarmi la spina dal piede e poi saprei ben io camminare da me. Avrei bisogno sanare i miei debiti, ridivenire tranquillo, avere mezzi bastevoli, poi: ecco la via. Interessare un Accademia alla Metallizzazione del Bassorilievo invicto (era un lavoro che Motta aveva proposto al Seleroni, ndr) oppure in quella d'un Bambino. Fare constatare dall'Accademia in tutti i modi l'oggetto nello stato di natura, poi presentarlo metallizzato. Quando l'Accademia abbia riconosciuta per mia l'opera, per mio il segreto, va constatarne la proprietà in faccia all'Europa, ed a qualsiasi, allora vi sono anche disposto a spiegare il mio metodo e insegnare eziandjo all'Accademia anche tutte le mie memorie delle mie esperienze e le copiose note. Tanto più che allora avrei anche provveduto alla mia esistenza, dappoichè per legge, colle scoperte ho un diritto alla pensione”.
Pressato dalle insistenze di Pizzi, Angelo Motta qualcosa aveva, in realtà, già rivelato all'amico: “Ma come ridurre a carbonato la carne, volendone pure conservarne l'anatomia, le forme, l'identità, siccome anche gli è riuscito in molti esperimenti? - si chiedeva Pizzi – Coll'isolamento dall'aria. Egli chiude ermeticamente il corpo in un suo apparecchio. Poi vi lavora con gli acidi a carbonarlo, ossia, forse, ridottolo colle temperature ad uno stato momentaneo di pietrificazione, lo circonda cogli acidi, lo isola dall'aria, preparatevi attorno le punte dei conduttori elettrici, poi lo riscalda e da luogo consecutivamente alle due operazioni,carbonare e metallizzare la quale seconda è anche lenta e lunghissima”:
La lettera di Garibaldi a Motta (Archivio di Stato di Cremona)
Con questo sistema, al momento dell'incontro con Pizzi, il 23 agosto 1868, Motta aveva già metallizzato un cranio coi denti e la mascella, la mano di una bambina, “ma – aggiunge Pizzi - temo non la mano reale, sibbene per tipologia”; otto mani umane “ben naturali, vantaggiando sempre nella semplicità e nella precisione”; una testa di uomo “che gli riescì con un difetto nelle orecchie che s'erano molto ristrette, ed un buco li presso per bruciatura d'una corrente elettrica apertasi ivi”, ed una di una ragazzina dodicenne. Ma poi accade un fatto destinato a pesanti conseguenze. “Ei temeva – racconta Pizzi – però che nell'interno i cervelli non fossero ridotti a perfezione e però aperti, avessero a tradire il segreto dei suoi apparecchii”. E' un periodo di grave crisi finanziaria, il creditori bussano alla porta, ed uno di essi, un certo Donati per una cambiale scaduta spedisce nell'appartamento del Motta ammalato due giovinastri, certi Barbarina e Furini, che sequestrano tutto quello che riescono a recuperare. E' in quel momento che Motta, seppur sofferente, temendo che possano scoprire il suo segreto, in piena notte si alza dal letto e scioglie nell'acido tutti gli oggetti metallizzati che in quel momento si trovano nel suo laboratorio.
Qualche anno dopo, nel 1871, Motta si trasferisce a Torino, dove tutti lodano la metallizzazione della mano di Garibaldi, «quella mano che par viva e ognora spirante i fremiti dell’eroe battagliero e i sussulti del vincitore», che però poi risulta finta, un modello ricoperto di rame, come conclude una severa commissione del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1880. Motta prima dice alla commissione che è vero, che in realtà non fa altro che rivestire i corpi di metallo, senza metallizzarli completamente, ma subito dopo invia al Ministero una sua piccata e irosa protesta, in cui si rimangia tutto e dice che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto metallizzare davvero qualunque cosa. In una relazione consegnata personalmente al re Umberto in un'udienza concessagli al Quirinale il 1 febbraio 1880, Motta insiste: “Io posso affermare che la metallizzazione è completa, ciò che è ben diverso dal galvanismo, il quale si arresta alla superficie dei corpi. La sostanza prima è appieno scomparsa. Coll'uso delle correnti elettriche, dei liquidi e dei solidi da me preparati, coll'uso della pila, coll'apparecchio d'altre forze, messe in relazione con un dato processo, l'oggetto passa da una sostanza all'altra, il corpo da metallizzare è, si può dire, come assorbito da una sostanza metallica, per cui della sostanza primitiva non rimane che la forma, e questa poi nella più perfetta naturale configurazione, meno il peso ed il colore che si può applicare poscia a piacimento. In una parola, rimane tutto l'organismo naturale del corpo, colla perfetta e, direi, matematica conservazione di forme anche microscopiche. E questo è appunto il risultato vagheggiato dai miei desideri ed al quale diressi tutto lo sforzo della mia pochezza”. Motta riesce a convincere il re che gli conferisce la croce di cavaliere dell'Ordine mauriziano, riesce a convincere Paolo Gorini che scrive una sua difesa appassionata, il dottor Gioachino Stampacchia, che pubblica un articolo sulla Gazzetta di Torino del 24 settembre 1877. Comunque passano gli anni, la sua fama cresce, anche se il suo «mirabile trovato» rimane un enigma; Motta sta male, promette di scrivere nel testamento il segreto della sua metallizzazione per la «dilettissima Cremona», ma alla fine, ovviamente, se lo porta nella tomba. Un anno dopo il suo strenuo detrattore, Giuseppe Amadei, scriverà che la sua metallizzazione «non è un fatto di fisica o di chimica, ma un fenomeno psicologico» o un’idea, equiparabile alla ricerca della pietra filosofale degli alchimisti. E Motta è appunto «un alchimista de’ nostri giorni», portatore di un’“idea fissa”, un “delirio di grandezza”, e una “cocciutaggine nevrotica”.