sabato 19 maggio 2018

Lo sciopero dei dodici giorni


Contadine cremonesi negli anni 40 (Archivio storico CGIL)
E' una delle pagine più dure nella storia delle nostre campagne ed è stata scritta settant'anni fa, tra il maggio ed il giugno del 1948. Lo sciopero dei contadini per il nuovo patto colonico, passato alla cronaca come “lo sciopero dei dodici giorni”, fu conseguente alla rottura della trattativa tra la Federterra e le associazioni agricole sulla questione del prezzo del latte, la tredicesima mensilità e la regolamentazione delle disdette, ma avvenne nel clima teso che aveva seguito le elezioni del mese prima, con la pesante sconfitta del Fronte Popolare, tra i sequestri d'armi della cosiddetta “paramilitare” e violenze di ogni genere. Lo sciopero fu indetto il 26 maggio, ma dopo 6 giorni la Confederterra estese lo sciopero ai bergamini; a quel punto la corrente democristiana se ne dissociò pubblicamente ritenendo che esso assumeva carattere politico e ne attuò il boicottaggio, dando poi origine alla definitiva rottura dell'unità sindacale. La tensione giunse al massimo: arresti e fermi di capilega, feriti in scontri con crumiri e forze di polizia, l’uccisione da parte di un carabiniere del giovane contadino Luigi Venturini tra Spino d’Adda e Pandino e le parole di dolore di don Primo Mazzolari: “Mi stanno sul cuore il morto di Spino d’Adda, i feriti e la crescente asprezza della convivenza tra agricoltori e salariati (…) Il salariato non è un rapporto guaribile ma una struttura da abbattere”.
«I lavoratori si erano organizzati – ricorda Enrico Fogliazza - e negli anni 1947-1948, pur rivendicando più alti salari e migliori regole di lavoro, avevano messo in campo la fondamentale rivendicazione con la quale si chiedeva la regolamentazione delle disdette, per offrire un minimo di garanzie di lavoro e di casa, che assieme a libertà e dignità era il sogno di sempre. I lavoratori volevano - in attesa delle legge - che si stabilisse anche in sede contrattuale un primo riconoscimento della disdetta sulla base della giusta causa. Dal 18 maggio al 6 giugno1948 si sviluppò una fortissima azione di lotta e venne presentata alle controparti, in tutte le provincie padane, assieme alle richieste per il rinnovo dei patti colonici provinciali, la richiesta di un avvio delle trattative su questo importante argomento. Ai primi rifiuti di parte padronale, si mise in moto la strategia dello sciopero graduato fino a giungere, anche in rapporto alla resistenza padronale, alla grave decisione dello sciopero sul bestiame da latte. Si presentava la minaccia di uno scontro di gravi dimensioni. I tre segretari della Confederterra milanese, che fungevano anche da coordinamento regionale, non insistettero più di tanto e si accontentarono di "portare a casa" qualcosa sui salari. Quella decisione venne seguita anche da qualche altra provincia. Ma la battaglia data riguardava questioni di principio difficilmente negoziabili in cambio di un pugno di denari. Fu, questa, una questione che con ogni probabilità sfuggì al gruppo dirigente nazionale della CGIL, che conosceva poco i termini del contendere, che non conosceva in maniera approfondita i rapporti sociali e di classe imperanti nella cascina della Padania irrigua, che probabilmente considerava quella battaglia alla stregua di una normale lotta sindacale per il rinnovo contrattuale. La lotta rimase in piedi, dura e molto ravvicinata, nella provincia di Cremona, nella Bassa Bresciana, nell'alto Mantovano e nel Lodigiano. Il fronte si era indebolito. Mancò la decisione nazionale della CGIL di alzare il confronto all'alzarsi dell'obiettivo. Mancò la generalizzazione della lotta, mancò l'assunzione del confronto come vero e proprio "scontro politico e di potere" e mancò dunque l'appoggio generale della classe operaia organizzata, con le sue strutture e con le sue organizzazioni, a sostenere la lotta per l'applicazione di un principio costituzionale. Cremona ed una parte importante delle organizzazioni della Pianura padana rimasero isolate, a condurre una lotta molto avanzata, ardua e difficilissima».
Il 1 maggio 1948 in piazza del Comune
Le trattative si svolgevano in Prefettura tra mille difficoltà, mentre nelle campagne lo sciopero registrava un'altissima adesione. L'associazione agricoltori era rappresentata da Geremia Bellingeri, Franco Santini di Cella Dati e Gianni Ferlenghi di Cremona. Della delegazioni sindacale facevano parte Adriano Andrini (Segretario della Camera del Lavoro), Enrico Fogliazza (segretario di Confederterra), i consegretari Federterra Carlo Ricca per il Psi, Primo Bonvini per la Dc, Giuseppe Cavagnoli e Angelo Formis, consegretario della Camera del Lavoro per la Dc. La conclusione, che poteva essere a portata di mano, si allontanava, secondo quanto asserito dagli Agricoltori, “per una inutile quanto assurda intransigenza dei rappresentanti dei contadini sul prezzo del latte alimentare fornito in azienda ad ogni famiglia di salariato. Come è noto il litro di latte di ogni lavoratore giornalmente prelevato alla stalla era per il passato compensato con dieci lire: il prezzo data ancora dal lontano marzo 1946 quando il vincolo della fornitura del latte alimentare al consumatore impediva una diversa remunerazione. Oggi che il latte alimentare fa aggio sullo stesso latte ad uso industriale, è un assurdo economico pretendere la conferma dello stesso prezzo. Forse che i consumatori delle città e dei paesi acquistano oggi il latte che loro abbisogna ancora al prezzo di politico di 14-15 lire di allora? La tesi dei contadini è quindi, almeno da un punto di vista logico, peregrina: ma è tale da condurre alle più impensate conseguenze, quando ci si mette nella veste degli attuali dirigenti delle Camere del lavoro, per i quali spesse volte lo scardinamento di un elementare principio di diritto acquista il valore di un passo avanti nella lotta delle conquiste sindacali” (La Provincia del Po, 9 maggio 1948, p.4).
Diversa l'interpretazione della trattativa da parte sindacale: “La discussione verte e si trascina sul problema delle disdette – ricorda Franco Dolci (Compagni, Cgil-Spi, 2007, pp. 111-112)- E' in discussione un principio di fondo per entrambe le parti. Per gli agrari il diritto o meno di usare la mano d'opera come vogliono; diritto che si estrinseca nella libertà di disdettare come e quando vogliono. I sindacalisti rivendicano invece il principio della 'giusta causa', ossia disdetta sì, ma solo nel caso in cui vi siano fondatissimi motivi che la giustificano. L'obiettivo degli agrari – in sostanza- era quello di fare piazza pulita, usando l'arma della disdetta, di dirigenti e attivisti politici, sindacali, amministratori comunali, ecc. Nel loro animo c'era la volontà di assestare un colpo mortale all'organizzazione dei lavoratori. I sindacalisti dicono «No!»”.
Il primo congresso dei salariati e braccianti agricoli    
La sera del 25 maggio si giunse alla definitiva rottura delle trattative, con la dichiarazione dello sciopero che avrebbe avuto inizio alle 12 del giorno successivo. Tre i punti su cui non era stato possibile raggiungere un accordo: il prezzo del latte, la gratifica o tredicesima mensilità e le disdette ed i traslochi. Accanto alla notizia, il giornale riportava nella stessa pagina la condanna ad un anno, sette mesi e quindici giorni di carcere del rappresentante del Fronte Popolare di Azzanello per aver impedito la riunione elettorale dell'on. Giannino Ferrari del Blocco Nazionale, e la denuncia di Guido Percudani per istigazione a delinquere e concorso nell'occultamento di armi nell'inchiesta sulla “paramilitare comunista”, a dimostrazione del clima infuocato che accompagnava la protesta dei contadini. Lo stesso pomeriggio del 26 maggio il Prefetto tentò una nuova mediazione tra le parti, che dopo sei ore di discussione si arenò nuovamente sul problema delle disdette. Così il giornale ricostruisce l'incontro: “I rappresentanti della Federterra hanno iniziato sostenendo che il blocco delle disdette e dei traslochi si rende necessario per la mancanza di case; a questo gli agricoltori hanno risposto assicurando a tutti i lavoratori la casa. Sormontata la prima difficoltà la commissione della Federterra ne ha presentato una seconda: la necessità cioè di garantire a tutti i salariati agricoli il lavoro anche per la prossima annata. A questa seconda richiesta i rappresentanti della Associazione Agricoltori hanno risposto assicurando oltre alla casa anche il lavoro. La Federterra ha allora portato sul tappeto una terza questione: gli eccessivi spostamenti che obbligherebbero un salariato agricolo che lavora a Casalmaggiore, di spostarsi ad esempio fino a Crema. Ma anche su questo punto i rappresentanti degli agricoltori hanno risposto proponendo la delimitazione di zone nelle quali dovrebbero avvenire gli spostamenti così da superare le difficoltà fatte presenti dalla Federterra. Sorpassato anche quest'altro ostacolo, la Federterra ha sollevato allora una nuova obiezione: quella che in termine tecnico si chiama «qualifica». Anche su questo punto l'Associazione Agricoltori si è dichiarata disposta a garantire che per la prossima annata, nei limiti del normale imponibile di mano d'opera, tutti i salariati agricoli troveranno lavoro”.
Fu peraltro per la difficoltà di stabilire univocamente quale fosse la “giusta causa” indispensabile per determinare la disdetta e la composizione delle “commissioni paritetiche” che avrebbero dovuto giudicarla a troncare qualsiasi discussione. Il 30 marzo “La Provincia del Po” annunciava che “Tutti i lavori agricoli sono fermi; gli unici salariati che lavorano sono gli addetti al bestiame, per l'alimentazione del quale gli agricoltori debbono recarsi nei campi per tagliare e raccogliere l'erba”. Si segnalavano pochi episodi di tensione tra capilega e coltivatori diretti occupati nella fienagione a Torlino, Palazzo Pignano e Montodine, e si lasciavano intuire difficoltà di rapporti tra il direttore di Coldiretti Gaetano Zanotti, candidato con la Dc il 18 aprile, che invitava gli associati ad interrompere i rapporti lavoro con i dipendenti che scioperavano, e l'organo della Dc “Il Popolo” che invece aveva solidarizzato con i contadini in sciopero. E la Coldiretti chiariva il proprio pensiero in un articolo di fondo pubblicato il 1 giugno, dove si affermava: “I diritti dei lavoratori vanno tutelati e non saremo mai noi quelli che chiudono gli occhi difronte alle esigenze e alle necessità di questa categoria; ma tali diritti vanno tutelati nel quadro di un superiore interesse generale e non con una visione esclusivamente particolaristica. Soprattutto devono sempre evadere dalle questioni sindacali e ed economiche i movimenti politici e purtroppo anche in questo caso non crediamo si possa decisamente affermare che questi motivi non abbiano il loro peso”. Nel frattempo si moltiplicavano gli arresti: nove scioperanti a Soresina, venuti da Casalbuttano per aver impedito il lavoro ad alcuni contadini, e altri arresti a Drizzona e Piadena.
Cascina cremonese degli anni 40 (Archvio storico CGIL)
Ad una settimana dall'inizio dell'agitazione, mentre si affida un tentativo di mediazione all'Ispettore del Ministero dell'agricoltura Gennari, si rompe il fronte sindacale: il responsabile comunista della Camera del Lavoro Adriano Andrini, contro il parere del responsabile democristiano e di quello socialista, nel pomeriggio del 1 giugno ordina di estendere lo sciopero ai mungitori, escludendo solo le stalle che conferiscono il latte alla Centrale. La “Celere” è costretta ad intervenire all'azienda Gerre del Sole di Stagno Lombardo dove i mungitori erano stati minacciati con forconi e badili, così come alla cascina Quinzani di San Felice, altri incidenti si verificano a Genivolta, Sospiro e Piadena, dove carabinieri e polizia intervengono a disperdere gruppi di una cinquantina di attivisti che si aggirano per le campagne. Mentre fallisce una nuovo incontro in Prefettura tra il vicepresidente di Confida Arnaldo Bonisoli, Giacomo Guarneri e Geremia Bellingeri da una parte e Bosi, Pianezza e Spagnolin per Confederterra, la “Provincia del Po” rinuncia all'aplombe tenuto sino ad ora ed attacca risolutamente il Pci: “Gente che ha lavorato per tanti anni e che comprende quanto sia indispensabile curare un simile patrimonio non può rimanere indifferente in un simile momento. Ma c'è Andrini che gira per le campagne. C'è Fogliazza e ci sono tutti gli attivisti del PC (meno quelli che son finiti in galera in seguito alla scoperta della paramilitare) che vanno e vengono a bordo di automobili e che cercano di tener alto il morale degli scioperanti. Quale spontaneità in questo sciopero! Poveri contadini! Ci hanno fatto pena, vedendoli sulle porte dei cascinali ricevere l'imbeccata di qualche brutto ceffo venuto da Cremona per ordine del partito delle Poste Vecchie” (La Provincia del Po, 3 giugno 1948, p. 2).
Improvvisamente la situazione precipita, dopo il fallimento dell'ultima trattativa. A Spino d'Adda, durante tafferugli tra carabinieri e dimostranti, un carabiniere apre il fuoco “a scopo intimidatorio”, ma, aggiunge il giornale “disgraziatamente un proiettile aveva raggiunto un contadino che stava tentando di colpire con un badile un libero lavoratore”, come se non bastasse i carabinieri “nuovamente circondati da elementi facinorosi che tentavano di disarmarli”, avevano nuovamente aperto il fuoco ferendo altri due dimostranti. A Malagnino, nella cascina di Anacleto Mainardi, vengono aggrediti due mungitori improvvisati, poi gli scioperanti, dopo aver abbattuto il cancello della fattoria e sfondate le porte delle stalle, con pezzi di pietra feriscono alcuni capi di bestiame e rovesciano i secchi di latte appena munto. Ovunque si ha notizia di tafferugli, posti di blocco improvvisati, cavi del telefono tagliati, saccheggi, e poco prima della mezzanotte del 3 giugno giungeva a Cremona un contingente dei Carabinieri del Battaglione mobile di Milano, dotato di autoblinde e carrarmati leggeri per aver ragione degli insorti. A Roma il ministro Scelba riferisce al presidente del consiglio Alcide de Gasperi di quanto sta accadendo a Cremona e a Decima di Persiceto, in provincia di Bologna, dove la “Celere” aveva caricato una folla di tremila braccianti intervenuti a minacciare venti mondine accusate di crumiraggio.
Nuova giornata di tensione venerdì 4 giugno: Giacomo Bernamonti e Adriano Andrini tentano di tenere un comizio in piazza del Comune ai dimostranti venuti dalla campagna, ma vengono fermati e condotti in questura e la folla fatta sfollare dalla piazza con l'intervento di due autoblindo dei carabinieri. Nel pomeriggio, tuttavia, circa cinquecento donne riescono a manifestare in piazza chiedendo la liberazione dei sette contadini arrestati in seguito a fatti di Spino d'Adda, prima di recarsi ordinatamente davanti alla Prefettura e poi alla Camera del Lavoro in via Palestro.
E' in questa convulsa fase che si gioca l'ultima carta: il pomeriggio di sabato 5 giugno giunge da Roma il sottosegretario al Ministero del Lavoro Giorgio La Pira per trovare una soluzione. Alla sera, però, arriva anche la notizia della morte di Luigi Venturini, il contadino di 21 anni colpito da un carabiniere durante gli incidenti di Spino d'Adda. E' questa tragedia che spinge monsignor Giovanni Quaini a far incontrare nuovamente agricoltori e capilega per trovare finalmente un accordo di cui, tra le poche righe, si legge tutta la drammaticità: “I sottoscritti agricoltori e capilega di Spino d'Adda, in considerazione della incresciosa situazione creatasi e al fine di riappacificare gli animi, senza entrare nel merito allo sciopero e senza compromettere quella che sarà la composizione dello sciopero stesso e le trattative in corso tra la Confida e la Confederterra, dichiarano di accettare le richieste avanzate dalla Federterra nei termini che verranno concordati tra le due parti, relativamente ai punti di vertenza in corso. Frattanto, a partire dall'una di stanotte, il lavoro verrà ripreso nelle aziende dei firmatari per il foraggiamento e mungitura del bestiame con l'impiego di salariati”. Martedì 8 giugno 1948 “La Provincia del Po” usciva con un titolo a otto colonne in prima pagina: “I contadini hanno ripreso il lavoro. L'accordo tra Agricoltori e Federterra è stato raggiunto domenica: disdette libere, latte a 21 lire 21 mila lire la 13ª mensilità”. Lo sciopero finiva con un'ultima giornata di violenza ad Azzanello, dove i contadini avevano tagliato una quarantina di gelsi del marchese Stanga e lanciato bombe rimaste inesplose, e a Villarocca di Pessina dove era stato dato alle fiamme un carro. Finiva anche nella disillusione. “L'accordo, in materia di disdette – ricorda Franco Dolci – non rispecchiava gli obiettivi che il sindacato e i lavoratori si erano proposti; tanto meno corrispondeva ai rapporti di forza esistenti che, in quel momento, erano a favore dei sindacati. Perchè allora la firma? Sulla firma pesò la situazione del patrimonio zootecnico. I giornali diffondevano notizie allarmistiche presentando carcasse di vacche morte perchè non accudite dai bergamini; pesò la dissociazione dei sindacalisti Dc dallo sciopero dei mungitori, dissociazione che favorì il crumiraggio; infine pesò il non uniforme comportamento delle varie province in lotta, eludendo gli impegni assunti in sede di approvazione delle piattaforme rivendicative provinciali...Si consideri anche l'orientamento dell'opinione pubblica non sufficientemente sensibile sul significato umano, sociale e politico del problema. Tale significato era ben chiaro nel vertice politico-sindacale e nei lavoratori più sensibili e attivi; ma non era chiaro in tutti e men che meno nei lavoratori delle altre categorie. Non era raro udire acidi giudizi sui paisàan; «cosa vogliono ancora questi paisàan che durante la guerra han fatto la borsa nera...». Giudizi ingiusti, ma diffusi. L'antico dissenso città-campagna trovava la sua manifestazione anche in queste ingiuste espressioni polemiche”.

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