mercoledì 23 maggio 2018

Giovanni Beltrami, l'incisore di Napoleone


Giovanni Beltrami ritratto dal Piccio

“V'ha egli forse mestieri di lodare quando i soli fatti tessono l'encomio il più lusinghiero?”, si chiedeva nel 1839 Antonio Meneghelli, parlando di Giovanni Beltrami “onore del cielo italiano, perchè a niuno secondo fra i glittografi antichi, e forse maggiore di quanti fiorirono ne' tempi a noi più vicini. Sono chiari il Pistrucci e il Berini; questi per molto valore nello scolpire le pietre dure tanto a rilievo, quanto ad incavo; quegli per avere incisa la lira sterlina, guardata qual tipo delle monete coniate per eccellenza. Ma niuno intraprese opere di lunga lena pari a quelle del Beltrami; niuno di accinse a rivaleggiare col pennello e collo scarpello; niuno diede in un topazzo di pochi pollici, od alta pietra di simil tempra, la Cena di Leonardo da Vinci, la Tenda di Dario di Lebrun, Giove coronato dalle Ore dell'Appiani, e Bacco consegnato da Mercurio alla Ninfa dell'antro Niseo, preso da un contorno dell'immortale Canova” (Meneghelli Antonio, Insigne glittografo Giovanni Beltrami, Padova, 1839).
Giovanni Beltrami (1779-1854) nonno del matematico Eugenio, è stato uno dei più grandi incisori di pietre dure italiani, con ogni probabilità il più grande dell'Ottocento. Presso il Museo civico Ala Ponzone si conserva quello che è considerato il suo capolavoro: un cristallo di rocca, ma secondo alcuni si tratta di un topazio bianco del Brasile, con incisa la Tenda di Dario, soggetto tratto da un dipinto del 1661 di Charles Le Brun che si trova a Versailles, realizzato nel 1828 per Bartolomeo Turina e per il fratello Ferdinando. Ma tra i suoi clienti giovanili Beltrami poteva annoverare anche la famiglia Bonaparte; nella raccolta di stampe Bertarelli a Milano è conservata un'incisione all'acquaforte di Felice Zuliani che riproduce due cammei con i ritratti di Napoleone e di sua moglie Giuseppina di Beauharnais, andati in seguito perduti, come purtroppo è accaduto a gran parte della produzione dell'incisore cremonese. Potrebbe essere proprio la signora Bonaparte la figura femminile ritratta nel cammeo, inciso in agata, che l'artista cremonese regge nel ritratto che ne fece Giovanni Carnevali, detto il Piccio, conservato oggi presso la Pinacoteca Ala Ponzone. Il ritratto ha un'impostazione cinquecentesca con l'artista raffigurato di tre quarti a mezzo busto che mostra tra le mani una delle sue creazioni. 
I cammei per la famiglia Bonaparte
I due nel 1838 avevano partecipato insieme all'esposizione di Brera per la quale Beltrami aveva preparato una raffigurazione dell'Olimpo tratta dal quadro di Andrea Appiani, che il settimanale artistico “Il tiberino” di Roma del 21 settembre 1839, così descrive: “Giovanni Beltrami cremonese, il più intraprendente glittografo, ed uno de' pià valenti che si conoscano a' dì nostri. Cominciò sin da fanciullo a trattare gli strumenti prossimi all'arte sua nell'officina del padre, il quale era orefice non vulgare. Cresciuto negli anni, ha poi condotte e i n incavo e a rilievo in pietre dure moltissime opere, buon numero delle quali sono uscite d'Italia e sono salite in molto pregio. La sua opera più celebre per complicazione è la Toma di Dario; la più pregiata dagli intelligenti è il ritratto del Sommariva. Il Beltrami è sorto artista quasi di sé, singolare nell'arte sua, principalmente per sicurezza di mano e acutezza di vista. Ora egli benchè molto innanzi negli anni, compì non ha guari un topazio bianco di Russia, nel quale ha ritratto il quadretto vaghissimo di Andrea Appiani rappresentante Giove incoronato dalle Ore. Bello in codesta piccolissima traduzione è principalmente il torso di Giove. Che se non ogni parte è con perfezione disegnata, forse vorrà darsene colpa alla piccolezza delle dimensioni. E' forse per timore di ciò il valentissimo glittografo romano allievo prediletto di Pichler, il Borini, che vive in Milano da lunghi anni, ama per consueto da lavorare alquanto più in grande; e veramente le sue teste sono bellissime che si indicano a' dì nostri. Il Beltrami sotto questa copia della lunetta d'Appiani ha scolpito il ritratto di quel pittore, e gli è riuscito bello e somigliantissimo”.
Beltrami e il Piccio si conoscevano probabilmente già da qualche anno attraverso la comune frequentazione di artisti come Giuseppe Diotti e Pietro Ronzoni. I Beltrami, d'altronde, erano una famiglia di artisti: Giuseppe, fratello di Giovanni, era mercante ed antiquario che il Piccio frequentava assiduamente per conoscere e studiare le opere antiche che transitavano nella sua bottega. Il figlio Eugenio era pittore e miniatore ed aveva sposato la cantante veneziana Elisa Barozzi, che il Piccio ritrasse in un bellissimo disegno conservato sempre al museo civico Ala Ponzone. Dal matrimonio tra i due sarebbe nato il matematico Eugenio. Un altro figlio di Giovanni, Luigi, aveva sposato una pittrice padovana, Elisa Benato a cui lo stesso Piccio aveva donato una piccola tela rappresentante “La danza delle stagioni”.
La tenda di Dario (Museo Civico Ala Ponzone, Cremona)
Eppure Giovanni aveva imparato l'intaglio delle pietre dure e preziose da autodidatta. Lui, nato nel 1779, figlio di un gioielliere, Giuseppe e di Teresa Cipelli e nipote del pittore Andrea Beltrami, “Giovanni - scrive Meneghelli – sin dall'infanzia guardava con occhio di meraviglia le pietre lavorate, e una bella testa era per lui una vera delizia. Più grandicello osò porsi all'opra; e come ignorava del tutto gli strumenti usati per quella maniera di reazioni, si lusingò che, giovandosi delle punte di diamante legate in ferro, avrebbe ottenuto in qualche guisa l'intento. Era questo il metodo dei primi incisori, ma no 'l sapeva il Beltrami; come, posta mano al lavoro, conobbe che quel meccanismo era difficile e di non felici risultamenti. Amore e Dafne in un diaspro rosso, un ritratto in corniola del conte Algarotti, una Baccante, un Giulio Papirio colla madre s'ebbero i primi tributi; però non se ne stette contento. Sentì che poteva fare molto di più; ma sentì che non avrebbe aggiunta la meta desiderata, se non gli venisse di giovarsi del metodo seguito dagli altri glittografi. Chiese al genitore di andare a Milano, di accostarsi a qualche incisore di pietre dure per apparare gli opportuni artifizii, divisando nel tempo stesso di frequentare l'Accademia di belle arti per consacrarsi a tutt'uomo al disegno, a prestar forme alla creta”. Dopo un apprendistato insoddisfacente presso il glittografo milanese Giuseppe Grassi, il giovane Beltrami se ne torna a Cremona dove nella bottega del padre inizia a fabbricarsi gli attrezzi che aveva visto, ma non aveva potuto sperimentare. Inizia col realizzare un cammeo con Eraclito e Democrito inciso su topazio orientale, Giove e Venere in agata blu e poco più tardi in topazio bianco una scena con Amore Psiche. La prima commissione importante arriva con il vicerè Eugenio de Beauharnais, figlio di Giuseppina moglie di Napoleone, che “avea veduto con occhio di compiacenza qualche saggio del nostro artista. No andò guari che gli allogò una collana di sedici camei, il cui tema esser dovea la storia di Psiche. E perchè sapeva che alla più squisita perizia glittografica accoppiava molto valore nel disegnare, e molta fecondità nella invenzione, così volle che tutto uscisse dalla sua mano, e suoi fossero i pensieri, i disegni”. Beltrami sottopone il soggetto all'artista di corte Andrea Appiani e, avutane l'approvazione, esegue il lavoro. Ma “e già l'opera viaggiava per la contemplata destinazione; ma il corriere venne aggredito, e la collana pure fu preda di quelle mani rapaci che tutto aveano involato. Increbbe al Principe Eugenio il sinistro; ma nobile retribuì a larga mano il Beltrami, come se avesse ricevuto i camei, e ordinò che un'altra collana dell'intutto eguale occupasse l'ingegno dell'abile artista”. La collana era un dono del vicerè alla sua sposa, la principessa Augusta di Baviera, sposata nel 1806. Agli stessi data il ritratto su cammeo dell'imperatrice Giuseppina: “L'area dell'agata zaffirina. Sopra cui venne eseguito, era allo incirca di un pollice e mezzo; eppure ne uscì un vero prodigio dell'arte. Nè va di che stupire: quanto più piccolo era il diametro, tanto più felici vedeane i risultati”. Nel 1815, Beltrami si trova presso la corte bavarese di Massimiliano I per cui realizza diversi lavori, tra i quali un intaglio con il ritratto del sovrano, attualmente a Vienna presso il museo del tesoro imperiale (Schatzkammer) nel palazzo di Hofburg.
Circa dieci anni più tardi, Carolina Augusta di Baviera, figlia di Massimiliano e divenuta imperatrice d'Austria, gli commissiona un ritratto in onice dell'imperatore Francesco I simile a quello già eseguito per il padre. Tra i clienti privati figura Bartolomeo Turina di Cremona che gli commissiona diversi lavori:
Angelica e Medoro, la Ricchezza conquistata da Cupido, la Testa di Niobe e Rinaldo e Armida. Sempre per Bartolomeo Turina e per il fratello Ferdinando esegue un Bacco fanciullo, un Amore e Psiche (ante 1834), una corniola color acqua marina di sua invenzione e la Tenda di Dario (1828) oggi al museo civico Ala Ponzone. “Di questa Tenda – osserva il Meneghelli – si è fatto un gran cenno sin dalle prime; ma non si è detto che l'argomento è preso da un ampio dipinto; non si è detto che venne fedelmente tradotto in un topazzo di soli cinque pollici e mezzo. Tre anni interi d'incessante preoccupazione ci mostrano la lunghezza e la difficoltà dell'imprendimento, cone gli amplissimi elogi che ne fecero attestano la felicità con cui liberò la sua fede. Non v'ebbe Giornale che non magnificasse il Beltrami; e più dei Giornali va posta a calcolo la lettera tutta lodi, tutta congratulazioni, che s'ebbe dal Cicognara, giudice di molto autorevole nella provincia delle arti belle...Da oltre venti sono le figure della scena rappresentante una specie di accampamento, cui fan corona parecchi alberi indigeni: sta nel mezzo la tenda, dove il figlio di Filippo, al cui fianco vedi il fedele Efestione, accoglie le desolatissime donne di Dario. Quante volte m'ebbi sotto gli occhi l'impronto di quella incisione, tante ammirai l'ingenuo straordinario del nostro artista, che tutto tradusse, tutto espresse da vero maestro. Il volto delle supplichevoli parla il più eloquente linguaggio di un dolore giunto agli estremi; Alessandro ed Efestione nella stessa loro alterezza ti si mostrano alquanto commossi: eppure sono faccie di poche linee. Felice nel colpire gli affetti, no 'l fu meno nel presentare gli atteggiamenti svariati dei tanti che ritti o genuflessi stansi intorno al Macedone. Se mire all'armonia delle membra, non puoi desiderarla maggiore; se volgi lo sguardo ai contorni, non sapresti immaginarli più dolci; se ti arresti al piegare dei panni, lo scorgi vero e spontaneo. E' questo un vero portento dell'arte”.
Il bacio al MOMA (New York)
Nel 1834 risulta ultimata, per il conte Sola di Milano, una corniola bianca con il ritratto di Raffaello, mentre, in quello stesso anno, Beltrami è impegnato nella lavorazione dell'Olimpo di Appiani per essere presentato all'esposizione di Brera.
Altri committenti privati sono
Bartolomeo Soresina Vidoni e Giovanni Battista Sommariva. Nei primi anni Venti dell'Ottocento, il conte Giovan Battista Sommariva è impegnato in un progetto ambiziosissimo: la decorazione del salone della sua villa di Tremezzo sul lago di Como.
Per questo aveva ordinato al noto scultore danese
Bertel Thorvaldsen una serie di bassorilievi in marmo raffiguranti l'ingresso trionfale di Alessandro a Babilonia. I bassorilievi giungono da Roma tra il 1818 e il 1826, anno della morte del Sommariva che non può così vedere compiuta l'opera.
Negli stessi anni, il Sommariva decide di far incidere i soggetti dei bassorilievi su pietre preziose a affida l'incarico a
Giovanni Beltrami. Conosciamo uno di questi lavori, un topazio di Siberia datato 1825, con incisa la scena di Due palafrenieri che trattengono Bucefalo, il cavallo di Alessandro il Macedone, attraverso un disegno di Paolo Vimercati Sozzi, attualmente presso il museo Poldi Pezzoli di Milano. Dell'intaglio originale di Beltrami si sono perse le tracce, non risultando nemmeno inserito nel catalogo che accompagna la dispersione della collezione Sommariva avvenuta a Parigi nel 1839.
Sempre per Sommariva Beltrami produce numerose gemme intagliate tratte da alcuni dei dipinti della sua collezione. Di queste esiste un'agata con la
Comunione di Atala (ora in collezione privata), tratta da un dipinto di Anne-Louis Girodet che si trova a Parigi al museo del Louvre, un cristallo di rocca con Il Bacio dal dipinto di Francesco Hayez oggi al Metropolitan di New York (quello di Tremezzo realizzato nel 1823 per Sommariva, non quello più celebre di Brera che è del 1859) e un intaglio raffigurante Curzio, che si trova a Londra al British Museum. Del 1827 è un altro lavoro che desta la meraviglia dei contemporanei: un topazio del Brasile con incisa L'Ultima cena di Leonardo da Vinci “lungo qualche linea meno di un pollice”. Racconta Meghenelli che “tanto malagevole era l'assunto, ch'egli stesso in sulle prime si accusava di troppo ardimento. Fece cuore; ma osservò il più scrupoloso silenzio, onde, se per isventura la mano fosse venuta meno all'impresa vagheggiata, niuno il sapesse, e niuno quindi l'accagionasse di pretensione smodata. L'opera riuscì per eccellenza, e l'autore di mostrò maggiore di se stesso. La vide il principe Giovanni di Soresina Vidoni, la volle a tutto costo per sé, e se ne andò a Roma con quel tesoretto. Quanti lo videro, tanti l'ammirarono, tanti furon di lodi larghissimi, e ragguardevole Porporato fece le più calde istanze perchè gli fosse ceduto, offrendo il prezzo di mille scudi; al che quel Principe acconsentire non seppe, com'era a vedersi”.

sabato 19 maggio 2018

Lo sciopero dei dodici giorni


Contadine cremonesi negli anni 40 (Archivio storico CGIL)
E' una delle pagine più dure nella storia delle nostre campagne ed è stata scritta settant'anni fa, tra il maggio ed il giugno del 1948. Lo sciopero dei contadini per il nuovo patto colonico, passato alla cronaca come “lo sciopero dei dodici giorni”, fu conseguente alla rottura della trattativa tra la Federterra e le associazioni agricole sulla questione del prezzo del latte, la tredicesima mensilità e la regolamentazione delle disdette, ma avvenne nel clima teso che aveva seguito le elezioni del mese prima, con la pesante sconfitta del Fronte Popolare, tra i sequestri d'armi della cosiddetta “paramilitare” e violenze di ogni genere. Lo sciopero fu indetto il 26 maggio, ma dopo 6 giorni la Confederterra estese lo sciopero ai bergamini; a quel punto la corrente democristiana se ne dissociò pubblicamente ritenendo che esso assumeva carattere politico e ne attuò il boicottaggio, dando poi origine alla definitiva rottura dell'unità sindacale. La tensione giunse al massimo: arresti e fermi di capilega, feriti in scontri con crumiri e forze di polizia, l’uccisione da parte di un carabiniere del giovane contadino Luigi Venturini tra Spino d’Adda e Pandino e le parole di dolore di don Primo Mazzolari: “Mi stanno sul cuore il morto di Spino d’Adda, i feriti e la crescente asprezza della convivenza tra agricoltori e salariati (…) Il salariato non è un rapporto guaribile ma una struttura da abbattere”.
«I lavoratori si erano organizzati – ricorda Enrico Fogliazza - e negli anni 1947-1948, pur rivendicando più alti salari e migliori regole di lavoro, avevano messo in campo la fondamentale rivendicazione con la quale si chiedeva la regolamentazione delle disdette, per offrire un minimo di garanzie di lavoro e di casa, che assieme a libertà e dignità era il sogno di sempre. I lavoratori volevano - in attesa delle legge - che si stabilisse anche in sede contrattuale un primo riconoscimento della disdetta sulla base della giusta causa. Dal 18 maggio al 6 giugno1948 si sviluppò una fortissima azione di lotta e venne presentata alle controparti, in tutte le provincie padane, assieme alle richieste per il rinnovo dei patti colonici provinciali, la richiesta di un avvio delle trattative su questo importante argomento. Ai primi rifiuti di parte padronale, si mise in moto la strategia dello sciopero graduato fino a giungere, anche in rapporto alla resistenza padronale, alla grave decisione dello sciopero sul bestiame da latte. Si presentava la minaccia di uno scontro di gravi dimensioni. I tre segretari della Confederterra milanese, che fungevano anche da coordinamento regionale, non insistettero più di tanto e si accontentarono di "portare a casa" qualcosa sui salari. Quella decisione venne seguita anche da qualche altra provincia. Ma la battaglia data riguardava questioni di principio difficilmente negoziabili in cambio di un pugno di denari. Fu, questa, una questione che con ogni probabilità sfuggì al gruppo dirigente nazionale della CGIL, che conosceva poco i termini del contendere, che non conosceva in maniera approfondita i rapporti sociali e di classe imperanti nella cascina della Padania irrigua, che probabilmente considerava quella battaglia alla stregua di una normale lotta sindacale per il rinnovo contrattuale. La lotta rimase in piedi, dura e molto ravvicinata, nella provincia di Cremona, nella Bassa Bresciana, nell'alto Mantovano e nel Lodigiano. Il fronte si era indebolito. Mancò la decisione nazionale della CGIL di alzare il confronto all'alzarsi dell'obiettivo. Mancò la generalizzazione della lotta, mancò l'assunzione del confronto come vero e proprio "scontro politico e di potere" e mancò dunque l'appoggio generale della classe operaia organizzata, con le sue strutture e con le sue organizzazioni, a sostenere la lotta per l'applicazione di un principio costituzionale. Cremona ed una parte importante delle organizzazioni della Pianura padana rimasero isolate, a condurre una lotta molto avanzata, ardua e difficilissima».
Il 1 maggio 1948 in piazza del Comune
Le trattative si svolgevano in Prefettura tra mille difficoltà, mentre nelle campagne lo sciopero registrava un'altissima adesione. L'associazione agricoltori era rappresentata da Geremia Bellingeri, Franco Santini di Cella Dati e Gianni Ferlenghi di Cremona. Della delegazioni sindacale facevano parte Adriano Andrini (Segretario della Camera del Lavoro), Enrico Fogliazza (segretario di Confederterra), i consegretari Federterra Carlo Ricca per il Psi, Primo Bonvini per la Dc, Giuseppe Cavagnoli e Angelo Formis, consegretario della Camera del Lavoro per la Dc. La conclusione, che poteva essere a portata di mano, si allontanava, secondo quanto asserito dagli Agricoltori, “per una inutile quanto assurda intransigenza dei rappresentanti dei contadini sul prezzo del latte alimentare fornito in azienda ad ogni famiglia di salariato. Come è noto il litro di latte di ogni lavoratore giornalmente prelevato alla stalla era per il passato compensato con dieci lire: il prezzo data ancora dal lontano marzo 1946 quando il vincolo della fornitura del latte alimentare al consumatore impediva una diversa remunerazione. Oggi che il latte alimentare fa aggio sullo stesso latte ad uso industriale, è un assurdo economico pretendere la conferma dello stesso prezzo. Forse che i consumatori delle città e dei paesi acquistano oggi il latte che loro abbisogna ancora al prezzo di politico di 14-15 lire di allora? La tesi dei contadini è quindi, almeno da un punto di vista logico, peregrina: ma è tale da condurre alle più impensate conseguenze, quando ci si mette nella veste degli attuali dirigenti delle Camere del lavoro, per i quali spesse volte lo scardinamento di un elementare principio di diritto acquista il valore di un passo avanti nella lotta delle conquiste sindacali” (La Provincia del Po, 9 maggio 1948, p.4).
Diversa l'interpretazione della trattativa da parte sindacale: “La discussione verte e si trascina sul problema delle disdette – ricorda Franco Dolci (Compagni, Cgil-Spi, 2007, pp. 111-112)- E' in discussione un principio di fondo per entrambe le parti. Per gli agrari il diritto o meno di usare la mano d'opera come vogliono; diritto che si estrinseca nella libertà di disdettare come e quando vogliono. I sindacalisti rivendicano invece il principio della 'giusta causa', ossia disdetta sì, ma solo nel caso in cui vi siano fondatissimi motivi che la giustificano. L'obiettivo degli agrari – in sostanza- era quello di fare piazza pulita, usando l'arma della disdetta, di dirigenti e attivisti politici, sindacali, amministratori comunali, ecc. Nel loro animo c'era la volontà di assestare un colpo mortale all'organizzazione dei lavoratori. I sindacalisti dicono «No!»”.
Il primo congresso dei salariati e braccianti agricoli    
La sera del 25 maggio si giunse alla definitiva rottura delle trattative, con la dichiarazione dello sciopero che avrebbe avuto inizio alle 12 del giorno successivo. Tre i punti su cui non era stato possibile raggiungere un accordo: il prezzo del latte, la gratifica o tredicesima mensilità e le disdette ed i traslochi. Accanto alla notizia, il giornale riportava nella stessa pagina la condanna ad un anno, sette mesi e quindici giorni di carcere del rappresentante del Fronte Popolare di Azzanello per aver impedito la riunione elettorale dell'on. Giannino Ferrari del Blocco Nazionale, e la denuncia di Guido Percudani per istigazione a delinquere e concorso nell'occultamento di armi nell'inchiesta sulla “paramilitare comunista”, a dimostrazione del clima infuocato che accompagnava la protesta dei contadini. Lo stesso pomeriggio del 26 maggio il Prefetto tentò una nuova mediazione tra le parti, che dopo sei ore di discussione si arenò nuovamente sul problema delle disdette. Così il giornale ricostruisce l'incontro: “I rappresentanti della Federterra hanno iniziato sostenendo che il blocco delle disdette e dei traslochi si rende necessario per la mancanza di case; a questo gli agricoltori hanno risposto assicurando a tutti i lavoratori la casa. Sormontata la prima difficoltà la commissione della Federterra ne ha presentato una seconda: la necessità cioè di garantire a tutti i salariati agricoli il lavoro anche per la prossima annata. A questa seconda richiesta i rappresentanti della Associazione Agricoltori hanno risposto assicurando oltre alla casa anche il lavoro. La Federterra ha allora portato sul tappeto una terza questione: gli eccessivi spostamenti che obbligherebbero un salariato agricolo che lavora a Casalmaggiore, di spostarsi ad esempio fino a Crema. Ma anche su questo punto i rappresentanti degli agricoltori hanno risposto proponendo la delimitazione di zone nelle quali dovrebbero avvenire gli spostamenti così da superare le difficoltà fatte presenti dalla Federterra. Sorpassato anche quest'altro ostacolo, la Federterra ha sollevato allora una nuova obiezione: quella che in termine tecnico si chiama «qualifica». Anche su questo punto l'Associazione Agricoltori si è dichiarata disposta a garantire che per la prossima annata, nei limiti del normale imponibile di mano d'opera, tutti i salariati agricoli troveranno lavoro”.
Fu peraltro per la difficoltà di stabilire univocamente quale fosse la “giusta causa” indispensabile per determinare la disdetta e la composizione delle “commissioni paritetiche” che avrebbero dovuto giudicarla a troncare qualsiasi discussione. Il 30 marzo “La Provincia del Po” annunciava che “Tutti i lavori agricoli sono fermi; gli unici salariati che lavorano sono gli addetti al bestiame, per l'alimentazione del quale gli agricoltori debbono recarsi nei campi per tagliare e raccogliere l'erba”. Si segnalavano pochi episodi di tensione tra capilega e coltivatori diretti occupati nella fienagione a Torlino, Palazzo Pignano e Montodine, e si lasciavano intuire difficoltà di rapporti tra il direttore di Coldiretti Gaetano Zanotti, candidato con la Dc il 18 aprile, che invitava gli associati ad interrompere i rapporti lavoro con i dipendenti che scioperavano, e l'organo della Dc “Il Popolo” che invece aveva solidarizzato con i contadini in sciopero. E la Coldiretti chiariva il proprio pensiero in un articolo di fondo pubblicato il 1 giugno, dove si affermava: “I diritti dei lavoratori vanno tutelati e non saremo mai noi quelli che chiudono gli occhi difronte alle esigenze e alle necessità di questa categoria; ma tali diritti vanno tutelati nel quadro di un superiore interesse generale e non con una visione esclusivamente particolaristica. Soprattutto devono sempre evadere dalle questioni sindacali e ed economiche i movimenti politici e purtroppo anche in questo caso non crediamo si possa decisamente affermare che questi motivi non abbiano il loro peso”. Nel frattempo si moltiplicavano gli arresti: nove scioperanti a Soresina, venuti da Casalbuttano per aver impedito il lavoro ad alcuni contadini, e altri arresti a Drizzona e Piadena.
Cascina cremonese degli anni 40 (Archvio storico CGIL)
Ad una settimana dall'inizio dell'agitazione, mentre si affida un tentativo di mediazione all'Ispettore del Ministero dell'agricoltura Gennari, si rompe il fronte sindacale: il responsabile comunista della Camera del Lavoro Adriano Andrini, contro il parere del responsabile democristiano e di quello socialista, nel pomeriggio del 1 giugno ordina di estendere lo sciopero ai mungitori, escludendo solo le stalle che conferiscono il latte alla Centrale. La “Celere” è costretta ad intervenire all'azienda Gerre del Sole di Stagno Lombardo dove i mungitori erano stati minacciati con forconi e badili, così come alla cascina Quinzani di San Felice, altri incidenti si verificano a Genivolta, Sospiro e Piadena, dove carabinieri e polizia intervengono a disperdere gruppi di una cinquantina di attivisti che si aggirano per le campagne. Mentre fallisce una nuovo incontro in Prefettura tra il vicepresidente di Confida Arnaldo Bonisoli, Giacomo Guarneri e Geremia Bellingeri da una parte e Bosi, Pianezza e Spagnolin per Confederterra, la “Provincia del Po” rinuncia all'aplombe tenuto sino ad ora ed attacca risolutamente il Pci: “Gente che ha lavorato per tanti anni e che comprende quanto sia indispensabile curare un simile patrimonio non può rimanere indifferente in un simile momento. Ma c'è Andrini che gira per le campagne. C'è Fogliazza e ci sono tutti gli attivisti del PC (meno quelli che son finiti in galera in seguito alla scoperta della paramilitare) che vanno e vengono a bordo di automobili e che cercano di tener alto il morale degli scioperanti. Quale spontaneità in questo sciopero! Poveri contadini! Ci hanno fatto pena, vedendoli sulle porte dei cascinali ricevere l'imbeccata di qualche brutto ceffo venuto da Cremona per ordine del partito delle Poste Vecchie” (La Provincia del Po, 3 giugno 1948, p. 2).
Improvvisamente la situazione precipita, dopo il fallimento dell'ultima trattativa. A Spino d'Adda, durante tafferugli tra carabinieri e dimostranti, un carabiniere apre il fuoco “a scopo intimidatorio”, ma, aggiunge il giornale “disgraziatamente un proiettile aveva raggiunto un contadino che stava tentando di colpire con un badile un libero lavoratore”, come se non bastasse i carabinieri “nuovamente circondati da elementi facinorosi che tentavano di disarmarli”, avevano nuovamente aperto il fuoco ferendo altri due dimostranti. A Malagnino, nella cascina di Anacleto Mainardi, vengono aggrediti due mungitori improvvisati, poi gli scioperanti, dopo aver abbattuto il cancello della fattoria e sfondate le porte delle stalle, con pezzi di pietra feriscono alcuni capi di bestiame e rovesciano i secchi di latte appena munto. Ovunque si ha notizia di tafferugli, posti di blocco improvvisati, cavi del telefono tagliati, saccheggi, e poco prima della mezzanotte del 3 giugno giungeva a Cremona un contingente dei Carabinieri del Battaglione mobile di Milano, dotato di autoblinde e carrarmati leggeri per aver ragione degli insorti. A Roma il ministro Scelba riferisce al presidente del consiglio Alcide de Gasperi di quanto sta accadendo a Cremona e a Decima di Persiceto, in provincia di Bologna, dove la “Celere” aveva caricato una folla di tremila braccianti intervenuti a minacciare venti mondine accusate di crumiraggio.
Nuova giornata di tensione venerdì 4 giugno: Giacomo Bernamonti e Adriano Andrini tentano di tenere un comizio in piazza del Comune ai dimostranti venuti dalla campagna, ma vengono fermati e condotti in questura e la folla fatta sfollare dalla piazza con l'intervento di due autoblindo dei carabinieri. Nel pomeriggio, tuttavia, circa cinquecento donne riescono a manifestare in piazza chiedendo la liberazione dei sette contadini arrestati in seguito a fatti di Spino d'Adda, prima di recarsi ordinatamente davanti alla Prefettura e poi alla Camera del Lavoro in via Palestro.
E' in questa convulsa fase che si gioca l'ultima carta: il pomeriggio di sabato 5 giugno giunge da Roma il sottosegretario al Ministero del Lavoro Giorgio La Pira per trovare una soluzione. Alla sera, però, arriva anche la notizia della morte di Luigi Venturini, il contadino di 21 anni colpito da un carabiniere durante gli incidenti di Spino d'Adda. E' questa tragedia che spinge monsignor Giovanni Quaini a far incontrare nuovamente agricoltori e capilega per trovare finalmente un accordo di cui, tra le poche righe, si legge tutta la drammaticità: “I sottoscritti agricoltori e capilega di Spino d'Adda, in considerazione della incresciosa situazione creatasi e al fine di riappacificare gli animi, senza entrare nel merito allo sciopero e senza compromettere quella che sarà la composizione dello sciopero stesso e le trattative in corso tra la Confida e la Confederterra, dichiarano di accettare le richieste avanzate dalla Federterra nei termini che verranno concordati tra le due parti, relativamente ai punti di vertenza in corso. Frattanto, a partire dall'una di stanotte, il lavoro verrà ripreso nelle aziende dei firmatari per il foraggiamento e mungitura del bestiame con l'impiego di salariati”. Martedì 8 giugno 1948 “La Provincia del Po” usciva con un titolo a otto colonne in prima pagina: “I contadini hanno ripreso il lavoro. L'accordo tra Agricoltori e Federterra è stato raggiunto domenica: disdette libere, latte a 21 lire 21 mila lire la 13ª mensilità”. Lo sciopero finiva con un'ultima giornata di violenza ad Azzanello, dove i contadini avevano tagliato una quarantina di gelsi del marchese Stanga e lanciato bombe rimaste inesplose, e a Villarocca di Pessina dove era stato dato alle fiamme un carro. Finiva anche nella disillusione. “L'accordo, in materia di disdette – ricorda Franco Dolci – non rispecchiava gli obiettivi che il sindacato e i lavoratori si erano proposti; tanto meno corrispondeva ai rapporti di forza esistenti che, in quel momento, erano a favore dei sindacati. Perchè allora la firma? Sulla firma pesò la situazione del patrimonio zootecnico. I giornali diffondevano notizie allarmistiche presentando carcasse di vacche morte perchè non accudite dai bergamini; pesò la dissociazione dei sindacalisti Dc dallo sciopero dei mungitori, dissociazione che favorì il crumiraggio; infine pesò il non uniforme comportamento delle varie province in lotta, eludendo gli impegni assunti in sede di approvazione delle piattaforme rivendicative provinciali...Si consideri anche l'orientamento dell'opinione pubblica non sufficientemente sensibile sul significato umano, sociale e politico del problema. Tale significato era ben chiaro nel vertice politico-sindacale e nei lavoratori più sensibili e attivi; ma non era chiaro in tutti e men che meno nei lavoratori delle altre categorie. Non era raro udire acidi giudizi sui paisàan; «cosa vogliono ancora questi paisàan che durante la guerra han fatto la borsa nera...». Giudizi ingiusti, ma diffusi. L'antico dissenso città-campagna trovava la sua manifestazione anche in queste ingiuste espressioni polemiche”.