mercoledì 13 dicembre 2017

Jacob, l'ultimo traduttore cremonese

Ebrei ashkenaziti
Cremona, nel Cinquecento, è stata sede, con Treviso, di una delle più grandi comunità di ebrei ashkenaziti in Europa. E proprio all'ombra del Torrazzo, verso la metà del secolo, nacque l'ultimo dei grandi traduttori, erede di una tradizione che affonda le proprie radici nel Medioevo. Si chiamava Jacob Alpron, o Halpron, ed è stato per tutta la vita uomo di grande cultura, correttore, pedagogo, tipografo e, soprattutto, traduttore in yiddish e in volgare. Alla sua figura ed al suo principale lavoro di traduzione di un trattato di particolare fortuna, Precetti per le donne hebree, un manuale scritto da rabbi Binyamin Slonik per guidare le lettrici nei loro compiti familiari e nella vita di coppia, è dedicato il libro di Pia Settimi “L'ultimo traduttore, Jacob Alpron tra yddish e italiano” (Ed. Il Prato, Padova, 2017). Ne esce il ritratto di una personalità straordinaria di intellettuale girovago, come molti altri stampatori ebrei del tempo, sempre alla ricerca di benefattori e di protezione per sbarcare per lo più il lunario come precettori in case facoltose. Sponsor di Alpron furono quasi sempre matrone ebree, donne energiche e di discreta cultura, cui spettava un ruolo da protagoniste nella gestione della vita domestica. A una di queste, una certa Bona, figlia di Emanuele Cuzzeri, Alpron dedica l’editio princeps, apparsa nel 1616, della propria versione, dall’yiddish in italiano, di un manuale che guidi le lettrici nei loro compiti familiari e nella vita di coppia. Nella seconda metà del Cinquecento, Alpron aveva spesso tradotto dall’ebraico in yiddish. Ai primi del Seicento, il nostro erudito girovago passa invece dall’yiddish al volgare, in risposta alle mutate condizioni linguistiche, dove il dialetto giudeo-tedesco degli ebrei immigrati in Italia settentrionale lascia il posto alla lingua nazionale, l'italiano. Gli ebrei di origine tedesca erano sparsi in tutta la pianura padana, ma erano particolarmente concentrati a Treviso e a Cremona. La stessa famiglia di Jacob proveniva con ogni probabilità da Praga. L'yiddish era loro lingua che, tra Quattro e Cinquecento, attecchisce tra le comunità ebraiche dell’Italia settentrionale grazie sopratutto alla tipografia ebraica che nel XVI secolo vive la propria epoca d'oro. È una produzione minore e popolareggiante, rivolta innanzitutto alle donne, che non sono in grado, per mancanza d’istruzione, di affrontare i grandi tomi rabbinici. Fino a quando agli inizi del Seicento un tipografo ebreo decideva di dedicare una parte consistente della sua produzione alla letteratura in volgare diretta al pubblico dei suoi correligionari. Era questi Jacob (Giacomo) Katz da Castellazzo, un polacco proveniente da Cracovia, conosciuto come il Soresina. Impiegato come correttore di testi ebraici nella stamperia di Giovanni De Gara a Venezia, qualche anno dopo si era messo in proprio e, grazie all’esperta consulenza di Leon da Modena, di cui pubblicava alcune delle opere più importanti, faceva uscire dai suoi torchi una scelta di significativi testi ebraici in traduzione volgare. L’opera più importante e controversa, uscita dalla stamperia di Soresina, era un manuale di ritualistica, rivolto alle donne ebree delle comunità dell’Italia settentrionale.
Mercanti ebrei in una miniatura
Si trattava di una traduzione ampliata e adattata di un’opera originalmente pubblicata in yiddish dal rabbino lituano Beniamin da Grodno, intesa a rendere edotte le donne sulle norme rituali che erano richieste di osservare. Il traduttore in volgare toscano era il rabbino Jacob Alpron, che, dopo essere transitato a Villafranca d'Asti, dove è documentato nel 1565, ed a Riva di Trento, approdato a Padova, apponeva numerose aggiunte per rendere il testo confacente alle esigenze del pubblico ebraico italiano (Mizwot nashim melammedah [...]. Precetti da esser imparati dalle Donne Hebree [...] composto per Rabbì Biniamin d’Harodono in lingua tedesca, tradotto ora di nuovo dalla detta lingua nella Volgare,Venezia 1616).
Era il primo libro di ritualistica che non veniva stampato in ebraico ma in italiano, e costituiva una vera e propria rivoluzione nel campo della letteratura ebraica, destinata agli ebrei della penisola. I
Precetti godettero di un prevedibile successo e venero ristampati a Padova nel 1625 e a Venezia nel 1652 e nel 1710. Poi nel 1732 la Chiesa di Roma li mise all’indice e ne vietò la pubblicazione, forse perché non vedeva di buon occhio che un testo di ritualistica ebraica si trovasse alla portata anche di un pubblico di lettori cristiani, che avrebbero potuto risultarne contaminati. Il domenicano Antonino Teoli, predicatore agli ebrei del ghetto di Roma, incaricato dalla Congregazione del Sant’Uffizio di redigere un dettagliato rapporto sui Precetti era giunto alla conclusione che si dovesse proibire quel testo perché conteneva sconcezze e oscenità, che avrebbero turbato i lettori cristiani, soprattutto i giovani e i più sprovveduti. Il tema delle tradizioni rituali ebraiche, che a dire degli inquisitori «erano esse quasi tanti fiumi derivati dal velenoso mare talmudico», esercitava un fascino irresistibile per i cristiani, che conoscevano poco e male il giudaismo rabbinico, verso il quale provavano in cuor loro sentimenti ambivalenti, di attrazione e di repulsione. D'altra parte la leadership religiosa ebraica era refrattaria a rendere pubblici in una lingua accessibile a tutti i riti giudaici nelle loro forme e con le loro giustificazioni nel legittimo timore che, interpretati con malizia e tendenziosità, avrebbero potuto essere fonte di nuove discriminazioni e persecuzioni. In questo, se pur con motivazioni diverse e talvolta diametralmente opposte, preti e rabbini andavano paradossalmente d'accordo. 

Antico calendario ebraico
L'ambiente in cui nasce Jacob Alpron era culturalmente molto vivo. Durante la dominazione spagnola la colonia cremonese era divenuta la più numerosa ed influente dell'ebraismo lombardo. Al momento della definitiva espulsione degli ebrei dallo Stato di Milano nel giugno del 1597 a Cremona erano presenti 37 nuclei familiari, per un totale di circa 220 persone, ma qualche anno prima, nel 1590, le presenze erano arrivate ad essere 456. Nel 1576 la popolazione si concentrava soprattutto in tre zone cittadine: S. Lucia, S. Bartolomeo, S. Sofia, S. Nicola alle spalle del palazzo del Comune; S. Elena, S. Margherita, S. Leonardo, S. Agata lungo la strada per Milano; S. Vito, S. Prospero, Mercatello, S. Tommaso, S. Ippolito sul fianco del duomo, verso la porta per Venezia. A Cremona, a differenza delle altre città, non venne mai attuato per difficoltà di realizzazione il progetto della segregazione in un ghetto, individuato nella contrada “Prato del vescovo” che dal fianco del duomo giungeva a Santa Maria in Betlem. Le attività prevalenti erano quella feneratizia, con tassi di interesse oscillanti dal 20 fino al 40%, il commercio dell'usato, l'oreficeria e soprattutto la stampa.
Sappiamo che a Cremona venne copiato un libro di preghiere già nel 1479 e, sempre nella seconda metà del XV secolo, un libro di preghiere per le feste. Risale poi al 1480 la copia del Commento di Gersonide al Pentateuco, mentre un Pentateuco era stato copiato nel 1474. Nel 1550 il celebre copista Meir da Padova copiò qui dei rotoli della Legge per Josef Norlenghi. Nella seconda metà del XVI secolo ebbe luogo anche l'episodio del Kherem, cioè la scomunica, proclamata dai rabbini di diverse città italiane, convenuti a Cremona, contro il Me'or Einajim di Azariah de' Rossi, accusato di esprimere teorie in contrasto con la tradizione, in particolare riguardo alle aggadot (insegnamenti) talmudiche e midrashiche e riguardo alle pretese della cronologia di risalire all'epoca della creazione del mondo. Il testo del Kherem fu approvato dal rabbino Avraham Menachem Porto-Cohen (Katz) e sottoscritto da Shaul Refael Carmini, rappresentante degli ebrei del Ducato, entrambi cremonesi.
L'attività tipografica per cui Cremona divenne famosa è legata alla pubblicazione di svariate opere ebraiche, stampate nella tipografia di Vincenzo Conti, prima, e, poi, di Cristoforo Draconi, entrambi cristiani, che, con la loro produzione, soppiantarono per qualche anno il primato di Venezia.
Vincenzo Conti era stato già attivo nel campo tipografico proprio a Venezia da cui si trasferì a Cremona, dove ottenne il permesso di stampare in latino nel 1555 e, l'anno seguente, iniziò a stampare testi ebraici, dietro invito degli israeliti locali, cui era vietato l'esercizio dell'attività tipografica.
La produzione del Conti si estese per un arco di 11 anni (1556–1567), suddividendosi in due periodi: dal 1556 al 1561 e dal 1565 al 1567. A differenza di quanto era in uso, Conti si servì di caratteri tipografici nuovi e di svariate decorazioni per i frontespizi. Dal 1560–61 sino al 1565 l'attività tipografica cremonese fu interrotta a causa della disputa sul Talmud che si era conclusa con il rogo del 1559, in cui furono bruciati anche numerosi esemplari della tipografia del Conti. Era accaduto che nel 1559, a seguito di una violenta predicazione quaresimale, l'Inquisitore Giovanni Battista Clarino aveva ordinato di consegnare entro poche ore, sotto pena pecuniaria, tutti i libri proibiti, Talmud in primis: in seguito alle accorate proteste ebraiche presso il sovrano Filippo II, il governatore dello Stato di Milano Cristoforo Madruzzo, pur ordinando la restituzione dei libri sequestrati agli ebrei, non vi incluse il Talmud, mentre gli Inquisitori cercarono di sottrarre la questione all'intervento dell'autorità laica, mandando al rogo oltre 10.000 libri[
La prima opera stampata dal Conti fu Ammudei Golah di Isaac ben Josef di Corbeil, che uscì grazie alla collaborazione di Samuel Boehm e Shmuel Zanvil Pescarol (Pescarolo): quest'ultimo, oltre ad aver collaborato alla stampa di diverse altre opere in cui, tuttavia, secondo l'uso del tempo, non sempre il suo nome figurava, era correttore di stampa e responsabile della censura secondo le regole imposte dall'Inquisizione. Quanto a Boehm, prima di essere attivo a Cremona, era stato noto correttore di stampa a Venezia.
Il rabbino Meir Heilpron, anch'egli di provenienza veneziana, fu attivo nella stampa di opere ebraiche a Cremona e, poi, a Mantova, mentre il rabbino Hajim Gattegno fu coinvolto nell'edizione dello Zohar, che è l'opera più famosa legata alla tipografia del Conti, uscita nel 1559. La stampa di opere in yiddish si deve, invece, a Leib Bress, rabbino di provenienza tedesca, ma legati all'attività tipografica furono anche il rabbino Abraham Pescarol (Pescarolo) e il rabbino David Norlenghi.
Vincenzo Conti dal 1558 al 1567 continuò a stampare libri ebraici censurati dall'Inquisizione, servendosi, però, della tipografia di Riva di Trento, fondata da un altro ebreo cremonese, il medico Jacob Marcaria, che vi si era trasferito nel 1557, dopo che a Cremona era stato membro del tribunale rabbinico, presieduto da Yosef Ottolenghi, in seguito alla pubblicazione della bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum, che vietava ai medici ebrei di curare pazienti cristiani.
A Cremona Conti ultimò la stampa del Mahzor tedesco, iniziata a Sabbioneta (nel Ducato di Mantova), nel 1556, da Tobia Foa, presso cui il Conti aveva fatto il suo apprendistato, e, di converso, a Sabbioneta, venivano terminate opere cominciate a Cremona.
Dopo la morte del Conti, nel 1569 o nel 1570, l'attività tipografica fu ripresa da Cristoforo Draconi che stampò, nel 1576, l'opera Josef Lekah di Eliezer Ashkenazi, giovandosi dell'aiuto di Solomon Bueno.
Contratto matrimoniale ebraico
Tra le figure di spicco nell'editoria ebraica dell'epoca vi è anche il rabbino Josef Ottolenghi (Ottolengo), d'origine tedesca, residente a Venezia, che si trasferì a Cremona, in virtù della libertà di studio e di stampa che vi regnava, in contrasto con quanto accadeva altrove in Italia, e vi aprì una yeshivah, dando grande impulso agli studi e promuovendo l'afflusso di molti studenti forestieri. La sua opera in favore dell'incremento degli studi ebraici si ritrova menzionata con grande rilievo nella ben nota cronaca di Josef ha-Cohen, Emeq ha-Bakhah, in cui si attribuisce il rogo del Talmud del 1559 alla controversia tra l'Ottolenghi e il suo concorrente Joshua de' Cantori che, a quanto si evince da una serie di indizi, non avrebbe avuto competenza sufficiente per curare adeguatamente l’attività editoriale, praticata, peraltro, principalmente a scopo di lucro.
Legato alla disputa sul Talmud fu anche il gesuita Vittorio Eliano, d'origine ebraica, nipote del noto grammatico Elia Levita Ashkenazi, che soggiornò a Cremona come inviato dell'Inquisizione e fu attivo come censore, della cui assistenza professionale si servì, per la sua attività di stampa di manoscritti, Joshua de' Cantori.
Il vicario dell'Inquisizione inviato a remona., fra Sisto da Siena, ebraista, assistette al rogo di 12.000 codici talmudici, di mille copie del Commento della Torah di Menachem da Recanati e di 10.000 scritti di attinenza talmudica, salvando, tuttavia, 2.000 esemplari dello Zohar che giacevano nella tipografia del Conti.
Alcuni dei rabbini coinvolti nell'attività tipografica furono anche autori di opere stampate e manoscritte in particolare Josef Ottolenghi, Abraham Pescarol e David Norlenghi). Il noto Eliezer Ashkenazi (Lazzaro Tedeschi), che fu anche rabbino a Cremona. per un breve periodo, fu autore di alcune opere manoscritte, come Menachem Coen-Porto.

Antonio Campi si servì dell'incisore ebreo David da Lodi per la pianta della città di Cremona, pubblicata nel suo libro Cremona fedelissima città, del 1585

L'aspirina di Matteo Moro

Foglie di salice bianco
Gli effetti dell'acido salicilico, da cui si ottiene l'aspirina, sono noti da tempo. Erodoto, nelle sue “Storie” parla di un popolo stranamente più resistente degli altri alle comuni malattie, che usa masticare le foglie di salice. Ippocrate, il padre della medicina moderna, descrive nel V secolo una polvere amara estratta dalla corteccia del salice, utile per alleviare il dolore ed abbassare la febbre. Lo stesso rimedio viene citato dai sumeri, dagli egizi e dagli assiri, ma era conosciuto anche dai nativi americani che lo usavano per curare il mal di testa, la febbre, i dolori muscolari. E' stato il reverendo Edward Stone, nel 1757, a scoprire gli effetti benefici della corteccia del salice, da lui assaggiata, e sei anni dopo, in una lettera inviata alla Royal Society, a giustificarne l'utilizzo contro le febbri. Ma, prima che nel 1828 Johann Buchner isolasse in cristalli la sostanza attiva dell'estratto di corteccia del salice bianco, fu un medico cremonese a suggerirne l'uso di massa per combattere gli effetti delle forme di raffreddamento tra i contadini, dopo averne sperimentati gli effetti su se stesso. Il medico si chiamava Matteo Moro e di lui è rimasto il ricordo per essere stato l'inventore, qualche anno prima, di una particolare seggiola ostetricia destinata alle partorienti. Curiosamente, però, Francesco Robolotti, medico lui stesso, ed autore di una storia della medicina cremonese, non lo ricorda tra i medici illustri suoi contemporanei, limitandosi ad annotare che un suo opuscolo venne rintracciato tra le carte del dottor Giambattista Rasori, di Barzaniga.
Matteo Moro suggerì la cura con l'acido salicilico in una lettera inviata alla “Gazzetta di Cremona” dei fratelli Manini, il 22 luglio 1816 a pag. 240: Eccone il testo: Il dott. Moro Medico Chirurgo, già conosciuto per le di lui produzioni stampate in Milano, membro di diverse accademie, s'affretta di manifestare quanto segue.
Le osservazioni in medicina, quanto più sono semplici, altrettanto sono pregievoli. Una delle piante comunissime a rinvenirsi nelle Provincie della Lombardia si è il Salice, o Salcio (Salix alba, fragilis, pentandra Linnei). Tre sono le specie di salice che servono al medesimo scopo, e poco diversificano fra loro nell'azione medica. Il Salice in genere è conosciuto anche dal più idiota de' contadini avendolo tutto di sott'occhio, coronando per lo più i loro campi. Questa pianta indigena è considerata febbrifuga per sapore amaro, stittico, balsamico della sua corteccia, specialmente ne' suoi rami. Questo succedaneo alla China-China si è rescritto in decozione, facendo bollire nell'acqua la corteccia di detta pianta, ed in altri modi: ma parlando dei contadini, talvolta pressati dalle facende della campagna, non trovano il tempo di fare con esattezza questa bollitura decozione, colatura ecc., per cui al loro solito trascurano ogni utile mezzo e si riducono gravemente infermi.
Il dott. Moro nel 1815 fu travagliato da febbre intermittente di tipo terzana, prese alquante once di china, e la febbre dopo un certo periodo di tempo, gli ritornava. Dovendo per la di lui pubblica delegazione visitare i suoi ammalati, alla mattina montava a cavallo, e nel suo gire pigliava de' ramicelli di salice, e masticandone questa corteccia ed inghiottendone la scialiva, provò in effetto che più oltre non sentì la febbre, e che tanti contadini soggetti alla febbre terzana consigliati da lui a far uso di quella corteccia nello stesso modo, comodissima per loro da aversi, e potendola masticare anche nel tempo che travagliano in campagna, specialmente alla mattina a digiuno si preservavano dalla recidiva di detta terzana.
Questa semplicissima osservazione può essere di grand'utile pei nostri contadini, tanto più nella stagion presente, dove in alcune province lombarde dominano molte febbri del suindicato carattere. Posta anche la necessità di dover con giudizio del Medico arrestare colla China China, od altro farmaco, certe febbri intermittenti, per la loro intensità e carattere perniciose, sarà sempre cosa utile e vantaggiosa ai nostri contadini, che loro sia nota l'azione febbrifuga di un semplice che tutto di hanno sott'occhio, e il facile metodo di adoperarlo per impedire la recidiva della terzana.
Quanti uomini di campagna non andrebbero soggetti alle coliche, alle dissenterie, al tenesmo etc. se trovandosi sull'aja con al verga in mano battere i loro raccolti, facessero uso della suddetta corteccia per masticazione! Essi per moto e pel calore estivo non soffrirebbero questa sete inestinguibile che di sovente li obbliga a bere in gran copia dell'acqua, e bevendone anche sarebbe corretta da quel succo amaro, balsamico, corroborante che ne impedirebbe i tristi effetti.
S'affretta l'osservatore, affinchè stante le attuali contingenze ciò sia reso a pubblica notizia in bene dell'umanità. Da Cremona, lì 12 luglio 1816.
Fisico D.G. Matteo Moro, Medico chirurgo maggiore”

Vecchia pubblicità dell'aspirina
Non si hanno molte notizie sull'opera di Matteo Moro. Viene citato il 7 dicembre 1797 come medico curante di Francesca Sartori di 51 anni di Borgo Ticino (Pavia) (Annotazioni medico-pratiche sulle diverse malattie trattate nella clinica medica della R. Università di Pavia negli anni MDCCXCVI, MDCCXCVII, MDCCXCVIII...del signor professore Giuseppe Frank...di Valeriano Luigi Brera, vol. II, Crema, Donna, 1807, pp. 77).
Francesco Robolotti ricorda di aver trovato tra le carte del dottor Giambattista Rasori, di Barzaniga, morto nel 1821 di tifo petecchiale, un opuscolo dal titolo “Sull'opera di ostetricia del prof. Nessi e del dottore Matteo Moro” e lo dice medico di Cremona (Robolotti Francesco, Storia e statistica economico-medica dell'Ospitale Maggiore di Cremona, Cremona, Feraboli, 1831, p. 277).
Nel giornale di medicina pratica compilato da Valeriano Luigi Brera, (vol.III, Padova, Stamperia del Seminario, 1813, p.273) si cita il caso di un'ernia inguinale spuria “per causa verminosa” in un paziente settantenne curato felicemente a Cremona da Matteo Moro. Che nel 1814, è citato tra i membri dell'Ateneo Veneto. Una guarigione che ha del prodigioso: “Si presentò al signor dott. Matteo Moro, Medico-chirurgo in Cremona, un settuagenario di buon temperamento con tumore dolente nella regione inguinale destra, accompagnato da tormini, da movimento febbrile e da scarsezza di escrezioni alvine. Tuttochè mancasse il vomito, il tumore aveva al tatto l'aspetto d'un'ernia piuttosto omentale che intestinale. Si tentà in vano di farne la riduzione; e perciò venne prescritto un clistere mollitivo: Riveduto nel giorno susseguente quest'infermo si osservò, che dal tumore riputato ernioso era uscito un grosso lombricoide; e che svanita ogni tumefazione inguinale non vi rimase che il foro fatto dal verme fuor uscito. Immediatamente si dissiparono la colica e la febbre, e l'alveo divenne regolare. La picciola ferita fu ridotta in pochi giorni a cicatrice”.
Nel 1812 Matteo Moro aveva presentato una nuova seggiola ostetrica di sua invenzione per la casa delle partorienti di Santa Caterina alla ruota di Milano “seggiola rinvenuta utile non solamente pel parto naturale, ma ben anco per il non naturale” (Storia della medicina in aggiunta e continua a quella di Curzio Sprengel scritta dal dott. Francesco Freschi, vol. VIII, parte seconda, Milano, Volpato, 1851, p. 1389 e Dizionario Classico di medicina interna ed esterna, Venezia, Antonelli, 1835, p. 700) L'opuscolo, accompagnato da due tavole in rame, pubblicato da Sonzogno, è recensito dal Giornale del Taro del 1812, a pagina 158: “Le cognizioni del sig. dottor Moro in punto d'ostetricia non possono essere dubbiose: dodici e più anni di pratica non interrotta gli debbono aver presentate innumerevoli occasioni di rettificare i suoi principi teorici, di esercitar la sua mano, e di stabilire quali fossero gli stromenti ed apparecchi di cui, per avventura, ancor mancava questo ramo sì importante della chirurgia. I viaggi ch'egli ha intrapresi per le città principali del Regno, il suo non breve soggiorno in questa capitale e le spese da lui impiegate per arricchirsi ognor più più di lumi nell'esercizio della sua arte, sono nuovi titoli che procacciar debbono al nostro professore confidenza ed estimazione. Guidati da questi riflessi, abbiamo, tempo fa, raccomandata la sua operetta, intitolata 'Dottrina umana delle cose principali per una levatrice'; ed ora ci facciamo premura di annunziare la nuova seggiola ostetricia, da lui ultimamente inventata, sicuri che le persone dell'arte ne riconosceranno tutta l'utilità, e non tarderanno a farne uso, ed a sostituirla alle altre seggiole praticate da prima. I favorevoli voti, che ha già riscosso da incliti personaggi l'invenzione del sig, dottor Moro, mentre le presagiscono il più felice successo, debbono altresì fin d'ora incoraggiarne l'autore, e dargli fondate speranze sulla pubblica riconoscenza”.

Il nostro medico cremonese può dunque essere inserito tra i primi sperimentatori dell'efficacia dell'acido salicilico, anche se la vera storia dell’aspirina ha avuto inizio nel XVIII secolo grazie alle fortuite associazioni mentali di un pastore della contea di Oxford. Un giorno, passeggiando in un bosco, il reverendo Edward Stone, esperto botanico, assaggiò, per caso, un pezzetto di corteccia di un salice. Trovandola particolarmente amara richiamò nella sua mente l’amaro sapore della cinchona, pianta dalla quale veniva estratto il chinino, conosciutissimo anti-malarico, importata dal Perù.
Il reverendo, esperto anche di questioni mediche, iniziò a pensare che la scorza di salice poteva essere utile per combattere le febbri malariche, pur essendo stupito del fatto che, paradossalmente, questo albero crescesse proprio nelle regioni più umide e insalubri. Il 2 giugno 1763, Edward Stone lesse una relazione alla riunione della Royal Society di Londra, in cui venivano presentati i successi ottenuti, nella lotta alle febbri malariche, con il decotto di scorza di salice su 50 soggetti febbricitanti. Nella sua ricerca intitolata: "Sulla corteccia di salice nella cura delle febbri malariche" avviò sulla scena terapeutica i salicilati e quindi l’aspirina. Il decotto di corteccia di salice tanto esaltato da questo ecclesiastico di Chipping Norton nell’Oxfordshire agiva effettivamente nelle febbri malariche. Poco importava se l’azione antifebbrile non era associata a quella anti-malarica effettiva del chinino. Iniziarono nei primi decenni del XIX secolo indagini serrate in punti disparati dell’Europa nel tentativo di ottenere allo stato puro quella che veniva ritenuta la sostanza attiva del salice.
Nel 1828 il professor Johann Andreas Buchner di Monaco di Baviera ne ricavò, mediante ebollizione, una massa gialla che chiamò salicina. L'anno seguente il farmacista francese Leroux isolò la salicina, principio composto da glucosio ed alcool salicilico in forma cristallina:
30 grammi di "salicina" vengono estratti da 500 grammi di scorza di salice. Nel 1835, in Svizzera, da un cespuglio selvatico molto comune nei campi si ottiene una sostanza simile: viene chiamata "spirsauro" e qualche anno dopo ci si accorge che è acido acetilsalicilico allo stato puro.
Si deve però, a Raffaele Piria, chimico napoletano, il merito di aver scoperto che dalla salicina si poteva giungere all’acido salicilico. Piria ne dette comunicazione in due articoli, "Ricerche sulla salicina ed i prodotti che ne derivano" (1838) e "Ricerche di chimica organica sulla salicina" (1845). Intanto la salicina era stata trovata in diversi vegetali come nei fiori di ulmaria e nell’olio di gualteria (essenza di Wintergreen).
Ed infine, nel 1853 il chimico Charles Frederic Gerhardt di Strasburgo produsse per la prima volta l'acido acetilsalicilico, in forma tuttavia chimicamente impura e quindi non stabile. Il procedimento di acetilazione risultò così complesso da scoraggiare le aziende farmaceutiche, tanto da ritardare di circa 44 anni il passo successivo. Ad Hermann Kolbe di Marburgo va invece il merito di aver scoperto la struttura dell'acido salicilico e di averlo sintetizzato.
Nel 1874 si poté così avviare la produzione industriale dell'acido salicilico, il cui prezzo era dieci volte inferiore a quello del prodotto naturale. Questa sostanza aveva tuttavia un gusto sgradevole e spesso aggrediva la mucosa gastrica, costringendo le persone afflitte da dolori a scegliere tra due mali.
Felix Hoffmann
Ad arriviamo a quello che è stato sempre ritenuto lo scopritore dell'aspirina: Felix Hoffmann, era un giovane chimico dell’industria chimica tedesca Bayer di Leverkusen, in Renania Bayer. Il padre di Felix, affetto da una grave forma di malattia reumatica, assumeva il salicilato di sodio che gli conferiva un grande giovamento, nonostante il sapore sgradevole e l’effetto gastrolesivo. Nel tentativo di migliorare la qualità di vita del padre, Felix Hoffmann iniziò a condurre indagini sistematiche alla ricerca di un composto efficace e tollerabile, alternativo al salicilato di sodio. Muovendo dalle esperienze di Gerhardt, Hoffmann tentò di nobilitare l'acido salicilico per migliorarne la tollerabilità e riuscì nel suo intento mediante l'acetilazione, cioè attraverso la combinazione di acido salicilico con acido acetico. Il 10 agosto 1897 egli descrisse nelle sue note di laboratorio l'acido acetilsalicilico (ASA), da lui sintetizzato in forma chimicamente pura e stabile.
Ma il vero scopritore dell'aspirina non sarebbe stato lo scienziato cui da sempre viene attribuita l'impresa, ma il suo superiore, ebreo tedesco, Arthur Eichengruen, il cui ruolo è stato cancellato con l'ascesa al potere dei nazisti in Germania.
Questa rivelazione è stata fatta di recente da Walter Sneader, vicecapo del dipartimento di scienze farmaceutiche all'università di Strathclyde, a Glasgow a seguito di alcune ricerche che gli hanno permesso di trovare una descrizione della scoperta dell'aspirina di Hoffmann nella Storia della Tecnologia Chimica datata 1934 (un anno dopo la presa del potere di Adolf Hitler).
Sneader sostiene che: Hoffmann era una delle 10 persone che lavoravano sotto Eichengruen ai tempi della scoperta; un procedimento messo a punto da Eichengruen è stato seguito negli esperimenti che hanno portato all'aspirina. Secondo il professore scozzese, Eichengruen non aveva condizioni di contestare Hoffmann nel 1934 perché stava lottando contro la marea di antisemitismo e sperava di salvare la Eichengruen Lavori Chimici, l'azienda che aveva fondato dopo aver lasciato la Bayer nel 1908. 
Arthur Eichengruen

Eichengruen non ce l'ha fatta. La sua azienda e gran parte dei suoi averi sono stati sequestrati e, a 75 anni, è stato mandato al campo di concentramento di Theresienstadt nell'attuale Repubblica Ceca. E' sopravvissuto, ma non è stato in grado di pubblicare le sue rivendicazioni di aver scoperto l'aspirina fino al 1949. Lo ha fatto in un allora oscuro giornale scientifico tedesco chiamato Pharmazie, un mese prima di morire, ma la Bayer ha smentito tali affermazioni.
Prima della sua registrazione, l'ASA fu sottoposto dalla Bayer a sperimentazione clinica, una prassi fino ad allora sconosciuta. I risultati furono così positivi che la direzione dell'azienda non esitò ad avviare la produzione del farmaco.
Quando l'1 febbraio 1897 la Bayer mette in commercio l'aspirina il nome non è scelto a caso: la "a" è l'abbreviazione di acido acetilsalicilico, "spir" viene da "spirsäure" che in lingua tedesca sta per "acido della spirea", la pianta da cui per la prima volta venne  estratto l'acido, e "ina" è uno dei suffissi classici utilizzati in chimica.  Il nome "aspirina", dunque, è una testimonianza precisa di quanto di utile può essere contenuto nelle erbe ma costituisce anche il punto di arrivo di una lunga ricerca scientifica. Il 1° febbraio 1899 venne depositato il marchio Aspirina che un mese dopo, il 6 marzo, fu registrato nella lista dei marchi di fabbrica dell'Ufficio Imperiale dei Brevetti di Berlino.  Iniziava così una marcia trionfale: l’affermazione dell’aspirina fu da questo punto un crescendo. 

lunedì 11 dicembre 2017

Il medico della teriaca

Un vaso farmaceutico del XVIII secolo
Una panacea per tutti i mali, dove scienza e magia insieme davano origine ad un mix che era insieme antidepressivo e ansiolitico, aspirina e viagra, antidolorifico, antibiotico, ricostituente e molto altro ancora. La teriaca o triaca, con le sue oltre settanta erbe e l'indispensabile veleno di vipera, è stata per duemila anni la medicina più preziosa e ricercata, in grado di sbaragliare qualsiasi altro preparato chimico, aldilà di ogni ragionevole dubbio e buonsenso. A contribuire al successo di questo prodotto della farmacopea europea, tale da farne una preparazione ancora ricercata agli inizi del secolo scorso, è stato un medico cremonese della fine del Cinquecento, Orazio Guarguanti, originario di Soncino, che tra il 1595 ed il 1605 scrisse un'Apologia della Teriaca dedicata al vescovo di Lodi e Nunzio Apostolico presso la Serenissima Signoria di Venezia Ludovico Taverna. Guarguanti assicura che la teriaca “mantiene in salute, rende la vita più tranquilla e la prolunga, ringiovanendo tutti i sensi” ed è questo il motivo per cui “i Romani Imperatori avevano come usanza a ogni far di Luna prenderne due scropoli  in un cucchiaio di miele con due bicchieri d’acqua” (lo scrupolo equivale a grammi 1,075). A detta del Guarguanti la teriaca era adatta a depurare l'organismo e guarirlo dalle malattie più disparate: “per combattere la tosse vecchia e nuova, per i dolori di petto(angina), per le infiammazioni dello stomaco e i dolori colici, per le febbri maligne causate dalla putredine del rene, per rafforzare la difesa del cuore e i suoi spiriti, per difendere il corpo da qualsiasi veleno e dai morsi delle vipere e dei cani, per ridonare vigore ai corpi corrotti da cagioni occulte, per ridonare l’appetito perduto, per sanare le emicranie antiche, per curare le vertigini e le difficoltà dell’udire, per svegliare gli appetiti venerei, per frenare le pazzie dei frenetici inducendo il sonno, per favorire l’evacuazione dei vermi e specialmente di quelli larghi e infine per preservare il corpo dall’infezioni quali quelle della lebbra e della peste.A Venezia, dove il nostro medico soncinese scriveva, la preparazione della teriaca costituiva un'attività economica di tutto rispetto, grazie alla facilità con cui potevano essere reperite le materie prime necessarie. Il riconoscimento della loro alta qualità diede un grande impulso all'attività degli speziali che, per certificare il prodotto e proteggerlo dalle adulterazioni, iniziarono a preparare la teriaca pubblicamente, dopo aver esposto le piante medicinali e le vipere nei tre giorni precedenti la cerimonia a cui partecipavano le maggiori autorità della Serenissima ed il Collegio dei Medici che, una volta realizzata la preparazione, ne avrebbe certificato la qualità ed autorizzato la vendita. L'evento si svolgeva a maggio, quando giungevano a maturazione alcuni dei componenti, e gli speziali che preparavano l'intruglio indossavano una casacca bianca con pantaloni rossi. Confluivano allora a Venezia medici e speziali per imparare le tecniche di preparazione e scoprirne trucchi e segreti. Fra questi, attirato dal successo del medicamento, anche Giovanni Battista Cucchi, maestro speziere dell'Ospedale Maggiore di Milano, che diventerà poi il primo produttore milanese, procurando all'Ospedale notevoli guadagni. La Teriaca veneziana, tuttavia, era la migliore. Tutti i componenti, come il Pepe lungo, il Phù (valeriana), l’Oppio, il Cinnamomo (cannella), lo Zaffrano (zafferano), la Mirrha, l’Opobalsamo (Balsamo orientale), il Vino (Malvasia), venivano scelti con grande cura dagli speziali veneziani, favoriti dal fatto che le flotte della Serenissima portavano dall’Oriente le migliori qualità degli ingredienti necessari. Dai vicini colli Euganei venivano poi le vipere, che andavano catturate verso la fine della primavera, ma prima dell’inizio dell’estate, e non dovevano essere né di sesso maschile né gravide. L’unico altro componente di origine animale erano i testicoli di castoro.
Orazio Guarguanti
E' in questo ambiente che arriva nel 1585, accompagnato da una lusinghiera fama, il nostro Orazio Guarguanti, proveniente da Padova, dove aveva completato gli studi medici sotto la guida di Girolamo Mercuriale. Orazio era nato a Soncino nel 1554, dove aveva iniziato gli studi sotto la guida di dotti precettori, per poi passare a Padova per apprendere la filosofia e la medicina, laureandosi il 3 marzo 1580. Riferisce Paolo Ceruti nella sua Biografia Soncinate, che nel diploma di laurea “vien chiamato dottissimo eruditissimo giovane, e così compitamente ornato d'ogni dote di natura, che nulla più si potesse in lui desiderare: e dopo le più solenni attestazioni della probità e buona sua condotta vi si dice: che nei pubblici esperimenti, a cui venne sottoposto spiegò così meravigliosa eccellenza d'ingegno, di memoria e di dottrina, che non solo sostenne; ma superò di gran lunga la comune aspettazione di que' dottori”. Nel 1589 Orazio entrò nel collegio dei Medici di Venezia e nel 1595 diede alle stampe tre opuscoli, il primo dei quali dedicato appunto alla teriaca. Il motivo lo spiega lui stesso nella dedica al vescovo di Lodi Ludovico Taverna: “Le ragioni, che m'hanno indotto a scriverne, sono state due: la prima fu il rispetto della vostra sanità; la seconda l'eccellenza della medesima Theriaca. Il rispetto della sanità perchè non si può imaginare rimedio alcuno, che meglio della Theriaca possa preservare V.S. Illustrissima da q ualunque infirmità: Mi sono poi indotto a scriverne, rispetto alla Theriaca stessa, perche sempre m'ha recato una gran maraviglia il vedere, che dalla maggior parte de' Medici de' nostri tempi è stato quasi dismesso l'uso di lei: i quali vengono cosi di rado, & con tanto timore ad usarla, che pare che si sieno dimenticati delle segnalate virtù, che si sogliono scoprire in essa per custodia, & per sanità della vita nostra. Imperoche se la Theriaca (come diceva Galeno) fosse buona solamente al morso de' serpenti, ò semplicemente contra i veleni, senza dubio, che noi non ci doveremmo curar tanto di lei: se bene anco per questo ella è cosa preciosa. Ma perche ella è un rimedio mirabile, quasi ad infine malatie: come a conservar la sanità, a render la vita tranquilla, & a prolungarla, a rinvigorire tutti i sensi, & non solo a discacciare i mali presenti, ma a preservarci sicuramente, che noi non cadiamo nelle malattie: io perciò non posso tolerare, ch'ella sia cosi di rado adoperata in Italia, & massime d'alcuni medici di questa Città. Et ho per meglio usarla, quando noi godiamo la nostra sanità, & schifare le malattie, che non voler mai in sanità prender medicamenti, ò rimedi di qualunque sorte, & diventare alla fine sottoposti alle malattie”.

Il trattato di Orazio Guarguanti
Come detto la preparazione della Triaca costituiva a Venezia un avvenimento, che iniziava nei tre giorni precedenti con l'esposizione dei fasci delle erbe, cortecce, fiori e radici necessarie, confezionati con eleganti nastri di seta colorata, dei vasi di Murano contenenti menta, resine, forme, balsami e oppio, e soprattutto, dalle gabbie di ferro contenenti le vipere per la fabbricazione dei trocisci, specie di pastiglie che ne consentivano una migliore conservazione. Le vipere venivano dapprima decapitate, poi scuoiate, venivano eliminate le viscere e bollita la carne. Quindi la carne veniva impastata con aneto e del pane abbrustolito grattugiato e messa ad essicare all'ombra mentre gli altri ingredienti venivano pestati dentro grandi mortai di bronzo e di legno. A controllare le varie fasi di preparazione della teriaca erano il Cassiere, il Notaio e Fiscale del Magistrato alla Sanità, un Protomedico, il Priore e due Consiglieri del Collegio dei Medici Fisici, il Priore e due Consiglieri dell'Arte degli speziali a cui venivano mostrate le droghe una volta pestate dentro i grandi mortai posti fuori dalle botteghe per evitare di respirar ela polvere. Quindi la teriaca veniva posta a macerare in grandi giare che venivano sigillate alla presenza delle autorità preposte al controllo.. Trascorsi due mesi si invitavano nuovamente i controllori perchè togliessero i sigilli alle giare per poter mettere il composto in commercio. Le spezierie cui era permesso produrre vendere la teriaca erano chiamate “triacanti”. A descrivere minuziosamente la preparazione in modo da insegnarla ai propri colleghi è lo speziale veneziano Giorgio Melichio, conosciuto in tutta Europa e padrone della "Spetiaria allo Struzzo in Venezia" , contemporaneo ed amico del nostro Orazio Guarguanti, che nel 1595 compone "Avertimenti nella compositioni de' medicamenti per uso della spetiaria". Scrive dunque il Melichio: “Dirò però quel tanto che noi usiamo farla nell'inclita Città di Vinegia, giardino e publica piaza di tutta Europa: ornata di così periti & esperti Spetiali che sono anni ratione al mondo.Dirò hora quel tanto che s'ha avertito nella Theriaca fatta da me in Vinegia il presente anno ordinatamente.Fur preparati tutti i simplici necessarij per la composizione così della Theriaca come del Mithridato e fattone scelta furno messi in bellissimi vasi e riposti in luoco publico & molto ornato per tre continui giorni ad effetto che sian spettaculo a tutti e che ciascun potesse volendo esaminare le predette cose: & al quarto giorno, convocati gli Eccellenti Priori, e Consiglieri così di Medici, come di spetiali, e fatto diligente esamina de gli ingredienti, furno con molta diligenza tolti a peso secondo la descrizione presente di modo che non si prendeva cosa se non co'l giusto peso non variando ponto di più o meno. Dopo si toglievano le cose a pestare grossamente e tutti si mettevano in un gran bacile così rotte e poi meschiate bene insieme si partivano in sei mortari & si davano a pestare perchè le cose umide s'unissero con le secche acciochè non s'attacassero nel mortaro se ben l'ontuosità della mirrha il facesse anco. Primo fur contusi li trochisci di vipere; imperochè quando son ben preparati è la loro sostanza simile alla colla del carniccio difficili a pestarli: poi si aggiungono il pepe longo e poco dopo la cassia, il cinamono e rotti si rimetton nel bacile. Poi si rompe pestando l'irios, il costo, la gentiana,l'aristologia, il centaurio,il pentasilon, il meo, il phu, il stecado, il squinanto & il spigo; quali rotti si mischiatano con gli altri nel bacile. Appresso si pestano li semi de i navoni, il pettosello,gli anisi, seseli, finocchio, thlaspi, ammi, dauco & l'amomo. Et rotte furo aggionte con l'altreavertendo che per ciascun ordine di cose che si pestavano aggiungevano nel mortaro un poco di mirrha a tal che nel pestar le cose le spetie non s'attenessero al fondo del mortaro imperochè l'ontuosità della mirrha tiene unite le cose eshalabili. Dopo si pesta il scordio, dittamomarrobio,calamento, polio, chamepiteo, folio & hiperico. La gomma e l'incenso si pestaranno in altro mortaro sole, acciò non s'attaccassero con l'altre spetie, come in altri con esperienza s'è visto. Li trochisci scillini, e gli hedicroi insieme soli sian pesti e uniti all'altre spetie. Le rose & zaffrano sian messe un poco al sole & dopo peste & gionte all'altre.
Il reupontico sia pesto & aggionte con l'altre. La terra lemnia si trita senza fatica,l'agarico sia fregato al tamiso & così si facci in polvere. Le gomme saran ben contuse & dopo vi si aggionga del vin malvatico & stiano per una notte infuse & e il dì sequente con debita portion di detto vino sian passate per il staccio,il simil parimenti si fara nel succo di liquiritia & e de l'hipocistis:l'acatia si triturarà con li semi cioè che sia messa con essi nel triturarli, percioche l'orientale è si secca & arida che facilmente si pestrarà con li semi”.
Pieter Brueghel, l'alchimista
Era comune la pratica della sostituzione di alcuni elementi non solo per la preparazione della teriaca, ma in generale per tutti i rimedi che si preparavano. Essa era permessa solo nei casi di impossibilità assoluta di approvvigionamento e, assolutamente vietata, se lo scopo era solo quello di speculare sui costi. Il permesso indusse molti "spetiali speculatori" a mascherare, dietro l'impossibilità dell'approvvigionamento, le sostituzioni più strampalate dando vita a medicamenti che non avevano alcun effetto terapeutico. Ciò spinse i monaci speziari prima, e quelli secolari poi, a creare nelle immediate vicinanze delle loro "farmacie" o nelle Università, gli orti botanici o "orti dei semplici" dove venivano, con grande cura, coltivate le specie vegetali più difficilmente rintracciabili.

La teriaca continuò ad essere preparata a Bologna fino al 1796, a Venezia presso la spezieria Testa d'Oro fino alla metà del 1800 e a Napoli fino al 1906. Un fenomeno che, a ben vedere, ha dell'incredibile. Come è possibile che per due millenni medici ed amministratori mettessero a repentaglio la loro credibilità affidandosi ad un medicamento che non aveva alcun riscontro nella pratica clinica ed alcun fondamento scientifico? Effettivamente nella teriaca sono presenti alcuni componenti che, come poi si è dimostrato, potevano realmente modificare, almeno in maniera transitoria, alcune condizioni morbose dell'organismo, con effetti, se non curativi, almeno palliativi. Ricordiamo gli effetti cardiotonici della scilla, l'azione sedativa dell'oppio, gli effetti antidepressivi dell'iperico o ansiolitici della valeriana, o gastroprotettivi della liquirizia. Di certo la teriaca ha rappresentato la sfida più completa dell'antichità alle malattie, mettendo insieme le migliori piante medicinali, i migliori medici, la migliore qualità degli ingredienti uniti ad un pizzico di magia, superstizione, e mistero.

La Caporetto del capitano Giuseppe Denti

Il capitano di complemento Giuseppe Denti
Il monte Kum è un montagna alta poco meno di mille metri situata nella parte orientale della provincia di Udine, nei pressi del confine con la Slovenia. Nel corso della Grande Guerra costituiva una cima strategica per il fronte italiano, inserita nell'ultima linea di difesa ad oltranza e fu di conseguenza una delle postazioni più colpite nella battaglia di Caporetto. La cima, difesa dalla brigata Elba, venne conquistata dalle truppe tedesche dell'8° reggimento dei Leibgrenadier alle 11 del 26 ottobre 1917, mentre le truppe superstiti italiane si ritiravano verso Castelmonte e il monte Spik. Ancora oggi sono visibili le gallerie scavate e le piazzole dove erano alloggiati i pezzi di artiglieria. Qui era stato inviato come capitano di complemento Giuseppe Denti, richiamato alle armi nell'aprile del 1915. Aveva trentacinque anni ed abitava con la moglie e le due figlie a Cingia de' Botti, dove faceva il maestro elementare, ed avendo fatto il corso allievi ufficiali a Brescia nel 1903, era stato richiamato da tenente, trovandosi così già capitano nel settembre 1915 e nell´agosto 1916 comandante del I battaglione del 262° reggimento della brigata Elba. Giuseppe Denti scrisse quasi ogni giorno alla famiglia descrivendo la guerra in trincea e le dure condizioni di vita dei soldati ma, soprattutto, durante la prigionia nel campo di Celle, presso Hannover, comunicando la delusione e la disperazione seguita alla disfatta di Caporetto. (Giuseppe Denti, Siamo qui come le foglie. Lettere, immagini e note dal fronte e dalla prigionia, a cura di Rolando Anni, Brescia, Grafo, 1976). La minuziosa precisione nel descrivere i momenti vissuti tra il 23 ed il 27 ottobre, giorno della cattura, rispondeva alla necessità di ripristinare la verità in seguito ai giudizi pesantemente negativi pronunciati in Italia, ma ben presto diffusi anche nel lager, su quelli che oramai erano considerati “i vinti di Caporetto”. Nei giorni della più tragica sconfitta subita dall'esercito italiano, nella concitazione degli avvenimenti e tra i continui spostamenti cui era stato soggetto il suo reggimento, Denti era riuscito tuttavia a redigere alcuni scarni appunti, che poi aveva ripreso in mano e completato con l'urgenza di render ragione del suo comportamento. E questo fin dai giorni immediatamente seguiti alla cattura, quando dal campo di prigionia di Rastatt, aveva scritto una prima lettera il 20 novembre, informando la famiglia della sua sopravvivenza ma anche, e soprattutto, del fatto che la sua coscienza fosse tranquilla, con la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile, ferito dall'incomprensione per i prigionieri di guerra dimostrata da tutta la stampa italiana, ad iniziare dalle parole di D'Annunzio che aveva parlato degli “imboscati d'Oltralpe”. Dalle sue parole trapela la determinazione del soldato, ma anche il senso di impotenza e frustrazione del comandante, che nulla può fare per salvare i propri uomini. Pagine bellissime e profondamente vere, umane, sofferte.
Il 23 ottobre 1917 scriveva alla moglie: “Carissima, non allarmarti se qualche giorno resterai senza notizie. Cosa dovuta a un piccolo spostamento che facciamo oggi. Qui nient'altro di nuovo. Benassi sta bene e vi saluta. Non ho potuto vedere Bazzani: lo aspettavo ieri sera, avendolo fato chiamare, ma si vede che non ha potuto. Pasini mi ha fatto vedere delle carte, (una dei carabinieri e una del dottore) per chiedere licenza speciale. Mene interesserò appena potrò e farò il possibile per fargliela avere, ma temo che sia difficile. Mi ha scritto anche Tedolfi (sono tutti soldati di Cingia de' Botti, ndr). Saluti e bacioni a tutte. Peppino”.

Trincea sul monte Kum
All'alba del 24 ottobre 1917 un'armata austrotedesca attacca gli italiani fra Plezzo e Tolmino, alla congiunzione fra la prima e la seconda armata. Usando la tecnica dell'infiltrazione, i reparti scelti, fra i quali quello dell'allora tenente Erwin Rommel, rompono il fronte, allargano la breccia, minacciano di aggiramento la terza armata. E' il caos. In pochi giorni una fiumana di sbandati che gli alti comandi non sono in grado di riorganizzare, si ritira verso il Piave, Le cifre: 12.000 morti, 30.000 feriti, quasi 300.000 prigionieri, altrettanti sbandati e oltre 300.000 profughi, l'intero Friuli occupato. "La mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico ... ". Le parole con cui il 28 ottobre 1917 Cadorna motiva il disastro di Caporetto.
Il 24 ottobre il compito del 262° reggimento era quello di difendere le trincee di Monte Kum anche allo scopo di raccogliere truppe che fossero state buttate dalle prime linee.  Il II battaglione del 262°, comandato dal capitano Giovanni Metitieri, occupava il costone di Pusno- Srednje, il III, agli ordini del maggiore Giovanni Ruva, lo sperone di Clava e di case Malinske, mentre il I veniva utilizzato a San Volfango e Lombai. Il battaglione di Denti aveva una forza di circa 600 uomini ed era composto da tre compagnie fucilieri, due sezioni mitragliatrici Fiat (una sezione era passata al III/262°), due sezioni pistole mitragliatrici, una sezione lanciatorpedini e un reparto zappatori; se il battaglione fosse stato a ranghi completati, per complessivi 900-1.000 uomini, avrebbe avuto una notevole potenza di fuoco, ma quel 26 ottobre era ridotto a un paio di mitragliatrici Fiat e a 6 pistole mitragliatrici.
Nel suo diario alla data del 24 ottobre il tenente Giuseppe Denti annota: “Ore 2: comincia il bombardamento. Resto fermo nella posizione di attesa fino alle 14. Verso le 15 ricevo ordine dal Com. di reggimento di assumere lo 'schieramento' di sicurezza e di muovere su Pusno. Inizio tosto il movimento, ma un contrordine quasi immediato lo fa sospendere (Andai personalmente a ricevere ordini al Com. di reggimento, caverna n.4) Alle 17 ricevo l'ordine di occupare la trincea da Ruckin fin oltre S, Volfango. Il Com. di reggimento resta nella caverna n.4; io passo così alla diretta dipendenza del com. di brigata, che si trova presso S. Volfango. La Brigata è distesa da Casoni Solarie (261°) a Ruckin e M. Kum (262°). La Brigata Napoli (75°-76°) è a Podklabuc e M. Piatto. Vicino a noi ci sono pure le brigate Firenze (127°-128°) e Arno (213°-214°) con le quali formiamo divisione (la 19ª). Pare che il 76° fosse fatto prigioniero la sera del 24 e infatti il 2° battaglione mandato su a prendere collegamento col detto reggimento non lo trovò”.
La ritirata delle truppe italiane
Il 25 gli vengono tolte due compagnie e la sezione pistole che passano agli ordini della brigata Spezia e vanno a occupare la trincea Lombai-Obrank-Monte Napour.
Denti rimane con 350 uomini: 1a compagnia col sottotenente Casati, due sezioni di mitraglieri della 1301a compagnia con i tenenti Cotta e Strano, una sezione di pistole del Tenente Faulisi, la sezione lanciatorpedini dell´aspirante Cornacchia e il reparto zappatori del sottoTenente Guffanti. Durante la notte si sentono fischi, richiami e grida di comando e si vedono luci di lampadine nei boschi sulle pendici del Kolovrat, il battaglione al suo fianco rigetta un attacco, ma alle 2 il Tenente medico Grisi lo avverte che molta gente si ritira in disordine per la strada di Passo Zagradan.
Scrive Denti: “Relativa calma apparente. Vedo molta gente, carreggi,salmerie, ritirarsi per la strada da passo Zagradan. Aeroplani nemici volano bassissimo sulle nostre posizioni. Il bel tempo permette di vedere a occhio nudo sulla strada Vorgiski-Sredrje-Pusno truppe, salmerie, file di camion immobili. Non si sa se nostri o nemici. Guardando coi binocoli e giudicando dal loro contegno ci persuadiamo che sono nemici. Data la distanza non si può far fuoco di fucileria o di mitragliatrici. Ore 14: notato il non intervento della nostra artiglieria. La batteria vicino al S. Volfango durante la notte fa saltare i pezzi. Durante la notte (ore 23-24) sento a sinistra, alle posizioni del 261°, fucileria e tiro di bombe a mano. Sul mio fronte, durante la notte, niente di nuovo: giù nella valle luci di lampadine, fischietti, e di quando in quando grida di comando o grida strazianti di feriti. Raddoppio vigilanza (la seconda con ufficiale). Riferiscono nulla di nuovo”.
La situazione precipita all'alba del 26 ottobre, quando il monte viene investito dai granatieri brandeburghesi dell´8° reggimento del Colonnello von Gluszewski, dal 52° fanteria della 5a divisione tedesca, Generale von Wedel, del Gruppo Scotti, ma soprattutto dal 3° reggimento Jäger comandato dal Colonnello Ralf von Rango facente parte della II brigata Jäger della 200° divisione del Generale von Below.
Il 3° reggimento era forte di 36 mitragliatrici pesanti e 72 di leggere e il 24 aveva compiuto. l´impresa di conquistare lo Jeza. 
Alle 5 circa, chiamato da un portaordini della brigata, mi presento al generale Spiller (Gaetano Spiller, comandante della 7ª brigata fanteria, fatto in seguito prigioniero, ndr) il quale afferma di aver spedito il portaordini molto tempo prima. Suppongo che il portaordini abbia perso molto tempo per trovarmi, sia per la difficoltà del percorrere la lunga trincea, sia perchè in quel momento mi trovavo alla estremità destra (sud) della linea, vicino a Ruckin, e precisamente al posto di medicazione (ten. Medico cott. Grisi). Il tenente medico Grisi si porta al deposito munizioni (caverna 3). All'alba tutti i miei uomini erano al bivio Ruckin, ove, secondo l'ordine del generale Spiller, dovevo mettermi a disposizione del mio colonnello Della Croce, che cerco invano. Sulla strada c'era un'enorme quantità di casse di munizioni. Spiller, sopravvenuto, dopo aver lasciato la galleria del comando, in fiamme, dà ordine di portare via. Mentre i soldati si caricano quelle casse sulle spalle, siamo presi dal fuoco di alcune mitragliatrici delle prime pattuglie nemiche che si erano affacciate sulle alture lasciate da noi. La 2ª e la 3ª compagnia resistono fino alle 12,30, colpiti d'infilata da cannoncini tedeschi. Il battaglione Giardina, dietro di noi, è in scompiglio; i soldati si sbandano, molti fuggono giù per la Ligonza, molti in valle Burkin; ed egli stesso si dirige alla caverna n. 4, già occupata dal com. del 262°. Il mio reparto zappatori si dirige in valle Burkin prima che io possa richiamarlo; solo una trentina di zappatori mi segue. L'ufficiale mitragliere, quello della sezione pistole, tutti gli ufficiali della 1ª compagnia si ritirano per la strada Ruckin-Tribil. Frattanto molte perdite avevamo subito, sotto il vicino tiro delle mitragliatrici nemiche. Io col mio aiutante maggiore in 2ª (aspirante Zucchi) e un centinaio di uomini mi ero infilato nella trincea alta del Kum, da dove potei far fuoco su densi nuclei nemici che già apparivano sugli speroni del Kum, su Colle Glava e a Ruckin. Sul Kum militari dell'apparato ottico, tranquilli, facevano la solita toilette. I mitraglieri, forse, del nostro reggimento, prendevano il rancio. Alle ore 11, vistomi circondato, decido di ritirarmi scendendo sulla strada per le pendici sud-occidentali del Kum e dirigendomi verso Tribil-Castelmonte”.
Gli italiani la mattina del 24 ottobre
A Tribil – prosegue la narrazione di Denti – di sotto un ospedale da campo sgombra in tutta fretta. Nelle prime ore del pomeriggio arriviamo al bivio di S. Leonardo ove troviamo truppe di varie brigate e generali. Si sosta. Il generale Negro di Lamporo (comandante la 19ª divisione) e il colonnello Della Croce mi accompagnano un po' indietro, verso la chiesetta di S. Nicolò mi indicano il posto ove stendere i miei uomini (circa 200 fra 261° e 262°). Incendi nelle valli Judrio e Natisone. Combattimenti sul Korada. Naturalmente la trincea esistente, che fa fronte alla valle Judrio, non serve, e gli uomini si creano piccoli ripari individuali e possono fronteggiare attacchi provenienti dalla strada, cioè da nord-est, nord e nord-ovest. Metto anche posti di osservazione sul versante Judrio. Mitragliatrici Fiat senza munizioni. S. Etienne sul cocuzzolo. A sera torna il generale e il colonnello. Ci assicurano che nella notte ci avrebbero mandato viveri e munizioni. Notte di vigilanza. Alcuni ufficiali (cap. Nuovo, ten. Patruno e altri) ritenendo che ormai fosse impossibile resistere in quella posizione, mi abbandonano. Mando Zucchi al Com. di reggimento (alle 2 ant.) e ritorna dicendomi di averlo trovato un trecento metri dietro, in un camminamento coperto. Una seconda volta mando un portaordini. Poi non fu trovato più”.

Arriva il 27 ottobre. “Verso le 2 arriva il maggiore Giardina (261°) con circa 400, compresi due ufficiali e pochi soldati del mio reggimento (Montanari); lo aiuto a disporli prolungando la mia destra, giù per la valle Judrio, allo scopo di prendere collegamento con la brigata Napoli (75°-76°). Già l'avevo cercato io tale collegamento, per ordine del Com. di Divisione, ma inutilmente. Nemmeno il magg. Giardina riesce a trovarlo. Avevo saputo da un aiutante di battaglia della brigata Napoli venuto circa a mezzanotte, che pochi e piccoli nuclei della stessa si trovavano quasi alle nostre spalle, giù quasi al fondo valle Judrio, a un paio d'ore di cammino. Un camion (ore 4-5) ci aveva portato casse di galletta e scatolette e bombe a mano e filo di ferro che è subito messo in opera dal ten. Faulisi sulla strada. Alle ore 6,30 circa, colla prima luce, il ten. Casati e Zucchi mi segnalano truppa nemica che si avanza verso di noi sulla strada. Ordino il fuoco a cui rispondono numerose mitragliatrici nemiche e piccoli cannoni che seguivano i reparti d'assalto. Tutti a posto. Già ritirati i posti d'osservazione. Ma il nostro fuoco di fucileria è debole per scarsità di munizioni. Nutrito è invece, ma per breve tempo, quello della sez.. S. Etienne (tenenti Gai e Gamba). Il contegno di questi mitraglieri fu ammirevole. Un colpo nemico guastò un'arma: sotto il fuoco il sergente mitragliere cambia il pezzo guasto e riprende il fuoco. Don Tedeschi si incarica dello sgombro e prima medicazione feriti. All'ultimo, essendosi i nemici portati sotto l'altura, si inizia il lancio di bombe a mano che li trattiene per parecchio tempo. Molti feriti. Finite le bombe a mano il fuoco della difesa illanguidisce: un'arma della S. Etienne si ritira avendo finiti i nastri. I nemici ne approfittano avvicinandosi. Ormai eravamo quasi accerchiati. Arriva un camion di munizioni che si distribuiscono immediatamente. Troppo tardi! Già i primi nemici ci sono addosso. A questo punto si ha notizia che reparti del 261° sono aggirati sulla destra. Il sottoten. Zaccaroni del 261°chiede rinforzi a noi e in cerca del 159° che doveva rinforzare il 261°. Raduniamo a stento una ventina di uomini e li consegniamo a Gritti. Il mio aiutante maggiore cerca di ritirarsi: non può. Trova la trincea ingombra di truppa della brigata Milano arrivata troppo tardi (battaglione d'assalto del 159°) Mischia corpo a corpo, tutte le rivoltelle si scaricano. Molte furono le nostre perdite. Morto il cap. Asdamo, ferito il magg. Giardina, morto il portaferiti che con don Tedeschi era al posto di medicazione improvvisato. Molti feriti giacciono senza poter essere soccorsi. Completamente accerchiati e reso impossibile qualsiasi tentativo di resistenza, dovemmo deporre le armi (ore 8,30).