lunedì 26 giugno 2017

Il lager di Cingia de' Botti

Donne slave internate al campo delle Fraschette

Si tratta di un episodio sfuggito all'attenzione degli storici locali, ma in provincia di Cremona, nel periodo compreso tra il 1942 ed il 1945, sono esistiti anche dei veri e propri campi di internamento destinati agli oppositori del regime, veri e propri centri di raccolta per coloro inviati poi al famigerato campo di concentramento delle Fraschette di Alatri, campi di lavoro per i prigionieri di guerra, e campi di internamento destinati agli stranieri ritenuti nemici dello stato, per lo più di origine greca. La ricerca storica, di cui si possono trovare i primi risultati sul portale www.campifascisti.it, è ancora all'inizio e di questi ultimi si conoscono solo i nominativi ed i luoghi di internamento, contenuti in un elenco della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati del 6 dicembre 1944, conservato all'Archivio Centrale dello Stato tra i documenti della Croce Rossa Italiana, riguardante gli internati stranieri e lo spionaggio tra il 1939 ed il 1945. Sappiamo dunque che ad Izano era internata una famiglia di nazionalità inglese, costituita da Arturo Alves, sua moglie Giuditta Danenberg e la loro figlia Elsa, provenienti da Hong Kong; a Pandino era sorvegliato speciale Panajotis Mauridis, greco nato in Turchia; a Soncino risiedevano altri tre greci ariani: Giovanni Monastiriotis di Corfù, Giorgio Karanicas di Arta e Costantino Ragopulus di Patrasso; a Robecco d'Oglio erano sorvegliati due greci ariani, Giorgio Kafritsas di Karditsa e Nicolas Kuniadis di Chios e un americano, Antonio Perniciaro; altri due greci erano a Soresina, Giovanni Sakellaropulos di Santavlese e Pericle Katsanos di Larissa; Costantino Princos di Valos a Pescarolo; all'ospizio di Vescovato Sottirio Dejannis di Chalia e Giorgio Hagiantoniu di Smirne; a Piadena Giovanni Giannopulos di Lafco e Panajiotis Nicolacakos di Chidio; ed infine a Casalmaggiore era internato Kiriakos Vorvis di Spartis. Per i quattordici internati greci il 3 aprile 1945 il Ministero delle Forze Armate dette il parere favorevole allo scambio con gli 84 prigionieri italiani degli equipaggi delle due pirocisterne Taigete ed Arcola catturati dagli alleati ed internati a loro volta a Capo Verde. Da un documento di un mese prima del Capo della Polizia della Repubblica Italiana relativo alla possibilità di effettuare questo scambio, veniamo a sapere che gli stranieri appartenenti a stati esteri internati nel territorio della RSI erano 229. Non sappiamo se tutti gli stranieri internati nel cremonese rientrarono poi nello scambio proposto.
In provincia di Cremona esistevano anche altri due campi di lavoro per prigionieri di guerra a Torlino Vimercati e a Trigolo. Se ne parla in un documento dello Stato Maggiore, ufficio prigionieri di guerra, del 12 marzo 1943, senza, peraltro che venga specificato da quale centro dipendessero. Cinquanta prigionieri erano destinati all'azienda agricola del cavalier Fortunato Marazzi a Torlino e 60 alla ditta Guerrini e Ronchetti di Trigolo.
Una vecchia foto dell'ospedale Germani
a Cingia de' Botti
Ma la località di internamento più importante della Provincia era Cingia de' Botti. Infatti secondo un documento segreto dello Stato Maggiore del reale Esercito, Ufficio protezione impianti a difesa Antiparacadutisti del 3 settembre 1942, nell'ospedale della frazione di Pieve Gurata sarebbero stati internati 72 congiunti di ribelli del Carnaro deportati dai territori della provincia annessa di Fiume, affidandone la sorveglianza a sette militari della stazione dei Carabinieri: “Risulta, inoltre – scrive il Capo dell'Esercito Vittorio Ambrosio - che per altri elementi del genere sarebbero in corso provvedimenti di sgombero e sistemazione nel Regno con modalità analoghe. Pur condividendo l'opportunità dell'allontanamento dalla Venezia Giulia dei congiunti dei ribelli, non sembra che la sua attuazione, con le modalità suaccennate, offra tutte le garanzie che appaiono neessarie e ciò perchè trattandosi di individui da considerarsi pericolosi, siccome aderenti e facenti parte di vere e prorpie organizzazioni a noi contrarie, particolarmente sviluppate nei territori della frontiera orientale non è da escludere che, lasciati relativamente liberi, anche se vigilati, possano cercare di concorrere ad atti di sabotaggio ed attentati promossi dalle organizzazioni stesse, svolgere facile propaganda ai nostri danni, (specie verso i contadini e le classi meno colte) e, comunque,dedicarsi ad attività incontrollate, in collegamento con le ripetute organizzazioni sia direttamente sia per corrispondenza (dato che questa ultima, con la sistemazione in esame, può assai facilmente eludere da censura. Quanto sopra – conclude Ambrosio – m'indusse a prospettare a codesto Ministero l'opportunità di raccogliere gli elementi in questione in appositi luoghi di concentramento, fuori dal contatto con la popolazione civile ed adeguatamente vigilati dalle forze di polizia”. Il generale Ambrosio, d'altronde, conosceva bene la situazione dei territori occupati, in quanto aveva partecipato alle operazioni sul fronte jugoslavo ottenendo in pochi giorni notevoli successi personali che gli procurarono la nomina a Commendatore dell'Ordine militare di Savoia e, all'inizio di quell'anno, la nomina a Capo di Stato Maggiore dell'Esercito.
Tuttavia, la Difesa Territoriale di Milano, sotto la cui giurisdizione ricade anche il territorio del comune di Cingia de' Botti, considera non adeguata la sistemazione degli internati in quanto vi è troppo contatto con la popolazione civile, e propone al Ministero degli Interni di trasferire i "congiunti di ribelli" in un campo di concentramento. Il 24 ottobre 1942 l'Ispettorato per i servizi di guerra del Ministero dell'Interno rispondendo alle osservazioni del Capo di Stato Maggiore informa che ha interessato la Prefettura di Milano affinché i congiunti di ribelli vengano internati nei ricoveri di mendicità della provincia, onde limitare la loro libertà di azione e assicurare una conveniente sorveglianza. “Disposizioni analoghe – scrive il prefetto Giuseppe Stracca, ispettore per i servizi di guerra – sono state impartite per la sistemazione degli sfollati dalla frontiera orientale avviati in altre Provincie del Regno. E poiché lo stesso Stato Maggiore del Regio E. aveva, nei primi giorni del mese in corso, richiesto a questo Ispettorato ed alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza di provvedere alla ricezione e sistemazione nella penisola di altro contingente di sfollati, ammontante a circa 50 mila unità, il problema è stato oggetto di nuovo, attento esame sotto l'aspetto politico-militare.
L'incendio di un villaggio jugoslavo
In un appunto al Duce, di cui si unisce copia -aggiunge Stracca – questo Ispettorato pose in evidenza che detti elementi costituivano un serio pericolo per la compagine politica e per l'ordine pubblico del Paese e rappresentò la opportunità che quelli pericolosi e sospetti dovessero essere mantenuti nei Campi di concentramento di cui dispone la stessa Autorità Militare. Questo Ispettorato avrebbe, tutt'al più, potuto provvedere alla ricezione e sistemazione nelle Provincie delle sole popolazioni che avevano chiesto la nostra protezione, delle donne abbandonate da mariti e dei bambini rimasti privi di assistenza da parte dei loro congiunti. Questi stessi concetti confermò il rappresentante di questo Ispettorato nella riunione tenutasi il giorno 3 corrente mese, presso il Comando Supremo – Ufficio Affari Generali, Reparto III, per l'esame delle questioni relative alla sistemazione degli internati civili sgombrati dai territori della frontiera orientale in seguito ad azioni di polizia militare”.
In un'altra nota della Direzione di Pubblica Sicurezza si osserva che “dato l'intenso, continuo afflusso dalle nuove Provincie e dai territori occupati d'internandi politicamente pericolosi, i campi di concentramento sono quasi completamente saturi e pertanto non si ha alcuna possibilità di sistemare le persone succitate nei campi stessi: si soggiunge che i vari comuni del Regno e le altre località a disposizione dell'Ispettorato dei Servizi di Guerra sono del pari quasi interamente sature e soltanto con grandi difficoltà si è riusciti finora a sistemare le persone di cui sopra nelle pochissime zone rimaste disponibili. Si soggiunge infine che recentemente questo ufficio, in dipendenza delle difficoltà di cui sopra, ha dovuto rispondere in senso negativo ad una richiesta del Comando Supremo tendente ad immettere nei campi di concentramento per internati civili 18000 elementi sospetti rastrellati dalle autorità militari nel corso delle operazioni effettuate nelle nuove provincie e nei territori occupati. Si assicura tuttavia che gli elementi di cui sopra, destinati nei vari comuni del Regno, sono sottoposti ad opportuna vigilanza da parte degli organi di polizia”.
Sembra che a Cingia de' Botti gli internati fossero alloggiati presso un istituto ospedaliero, ma certamente lo fu un gruppo di altri 27 familiari di ribelli che arrivò a Cremona il 28 luglio 1942 e due giorni dopo venne internato presso l'Ospedale Germani, come si apprende da una nota della Prefettura all'Ispettorato Servizi di Guerra del 23 novembre 1942: “Si precisa che il secondo gruppo di 27 congiunti di ribelli giunto a Cremona il 28 luglio senza alcun preavviso, venne trattenuto fino al 30 detto (epoca in cui venne sistemato presso l 'Ospedale Germani di Cingia de' Botti) per stabilire se trattavasi di congiunti di ribelli e quindi da internare, oppure di amici dell'Italia e quindi da proteggere e sistemare in Cremona”.
L'hotel Al Parco di Lovran
Non è nota l'identità di questi internati ed il loro destino, se non di alcuni di essi. Una di questi, Eleonora Mateicic, come informa una nota della Prefettura del Carnaro alla Direzione Generale per i Servizi di Guerra del 12 gennaio 1943, aveva chiesto di essere inviata all'internamento presso i fratelli Zvonimir e Mario che, dopo essere stati arrestati a Podhum. erano stati inviati prima nel campo di concentramento provvisorio di Lovran nei pressi di Fiume e poi a Cingia de' Botti. La Prefettura spiega che “allo scopo di prevenire la possibilità che la predetta possa, spinta dal bisogno, svolgere attività deleteria, si propone che venga internata nel predetto comune per riunirsi ai suoi familiari”. Il Ministero dell'Interno si dice d'accordo con la proposta di internamento, ma poco prima della partenza di Eleonora Mateicic per Cingia de' Botti dove dovrebbe ricongiungersi con la famiglia, il prefetto di Cremona con un telegramma urgente prega di sospendere il trasferimento perché tutti gli internati di Cingia de' Botti stanno partendo per il campo di concentramento Le Fraschette di Alatri.
Il periodo dell'internamento all'Ospedale Germani è allietato anche da nuove nascite: Antonia Ban, che fa parte del secondo gruppo, ha dato alla luce il 4 dicembre 1942 una bimba cui viene dato il nome di Palmira e Maria Valeria, due giorni dopo, la piccola Angela Marsanic. Sempre il 6 dicembre Elisabetta Grabar dal Germani viene trasferita al reparto maternità dell'Ospedale Maggiore. I neonati vengono aggiunti al gruppo degli sfollati ed assistiti anch'essi con una retta di 7 lire al giorno. Di altre donne si conosce solo il nome: Bozica e Ivka Ban, Angela Darinka e Gorina Grabar, Giovanna Hatesic, Giuliana Klic, Barbara e Caterina Kukulian. Elvira Juretic, Caterina Lukesic, Albina Marsanic, Luigia e Maria Mateicic, Maria Skaron, Maria e Mattea Simon, Susanna Sudan, Ljuba Zmarich, Francesca e Vittoria Zoretic.
Il 20 gennaio 1943 arriva alla Prefettura con telegramma l'ordine del Sottosegretario all'interno Guido Buffarini Guidi perchè le famiglie dei ribelli vengano fatte accompagnare al campo di concentramento di Fraschette in provincia di Frosinone mantenendo intatti i nuclei familiari ed escludendo solo quelli che abbiano trovato un'occupazione stabile, e contemporaneamente l'invito alla Prefettura di Frosinone di comunicare alla direzione del campo l'arrivo di complessive 400 persone. Come informa un successivo telegramma della Prefettura di Frosinone, il 4 febbraio gli internati cremonesi erano arrivati a destinazione e fatti proseguire con i loro bagagli per il campo di Le Fraschette. Tra di loro non vi era Eleonora Mateicic che nel frattempo aveva trovato lavoro presso la famiglia del tenente colonnello Giuseppe Maltese, giudice del Tribunale di Guerra di Fiume, ed aveva di conseguenza rinunciato a raggiungere i due fratelli internati a Cingia de' Botti, ed ora, siamo all'11 febbraio 1943, trasferiti nel campo Le Fraschette di Alatri.

La maggior parte degli internati a Cingia de' Botti provenivano dal campo di concentramento di Lovran, istituito presso il Park Hotel, una struttura alberghiera di 500 posti requisita dalla prefettura di Fiume, presso di cui passarono, per tutto il tempo in cui rimase in funzione, circa tremila civili internati, molti di questi sgomberati dal villaggio di Podhum. Qui, il 12 luglio 1942, i soldati italiani al comando del maggiore Armando Goleo, per ordine del prefetto della Provincia del Carnaro Temistocle Testa avevano fucilato in un campo ai piedi della collina, almeno duecento abitanti del villaggio, che fu poi dato alle fiamme. I fucilati erano maschi per lo più dai 16 ai 64 anni. I bambini, i vecchi e le donne, cioè l’intera popolazione del paese, furono deportati nei vari campi di internamento in Italia, dai quali parecchi di loro non fecero più ritorno. Molti dei cognomi delle donne internate a Cingia de' Botti, ricorrono anche nelle lapidi di bronzo sul muro di cinta del Parco delle Rimembranze di Podhum: Ban, Grabar, Hatesic, Kukulian, Marsanic, Mateicic, Skaron. L’eccidio fu compiuto, secondo Testa, per vendicare sedici soldati uccisi dai ribelli di Podhum nella prima decade di luglio, mentre fonti del Fascio di Fiume puntarono il dito, all’epoca, sulla morte di due maestri elementari, i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, il 16 giugno 1942, mandati dal regime fascista nelle terre occupate e annesse per italianizzare gli slavi. Secondo le fonti partigiane i due maestri elementari vennero fucilati il 14 giugno, dopo un processo sommario, per attività di spionaggio condotta dai coniugi Renzi contro il Movimento di Liberazione. I due maestri, peraltro, erano malvisti, anzi odiati dalla popolazione di Podhum per le dure e immeritate punizioni e i maltrattamenti inflitti ai bambini loro affidati solo perchè faticavano ad imparare l'italiano.
Il campo Le Fraschette di Alatri
Il campo delle Fraschette di Alatri, dove vennero trasferiti i 79 internati di Cingia de' Botti, era stato invece progettato nell’aprile del 1941 per ospitare 7.000 prigionieri di guerra, ma, dato il difficile problema di trovare una sistemazione alle migliaia di sfollati, il Ministero degli Interni decise presto di destinarlo a questo uso. Alla fine prevalse l'uso campo di internamento per migliaia di slavi che venivano deportati per rappresaglia contro l’attività partigiana. La gestione dell’internamento, però, fu affidata non alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, bensì all’Ispettorato Generale per i servizi di guerra. Ciò consentiva al governo di risparmiare il versamento del sussidio di L. 6,50 al giorno per ogni internato. Per questo all'interno del campo si pativa la fame, e si mangiava solo, da parte degli slavi, la brodaglia preparata dai militari. Diversa era invece la situazione per i non numerosi internati anglo-maltesi che venivano assistiti dalla Croce Rossa svizzera. Traccia chiarissima del trattamento riservato agli slavi risulta dalla consultazione dei registri di morte, da cui risulta che moriva, in percentuale, il 95% di internati slavi, quasi ogni giorno, dai due mesi di età agli 89 anni. Nel luglio 1943 su 1.162 “dalmati” presenti nel campo, circa 500 erano bambini, quasi tutti orfani. Gli internati erano civili, familiari di “ribelli” slavi, tenuti in ostaggio per convincere i partigiani a rinunciare alle loro attività in cambio del ritorno a casa degli internati. Dopo l’8 settembre, il venir meno della vigilanza consentì a molti internati di fuggire, e, nel novembre dello stesso anno, le SS tedesche imposero al governo di Salò il trasferimento degli ultimi rimasti al campo di Fossoli, presso Carpi. Gli slavi, però, avevano avuto modo, per la massima parte, di tornare fortunosamente e faticosamente a casa, visto che ai tedeschi il loro destino non interessava.




martedì 13 giugno 2017

Cremona è sempre meglio di Hitler

I primo numero de "La difesa della razza"

Ci fu un momento, settantacinque anni fa in piena guerra mondiale, in cui l'accoglienza non venne meno anche nei confronti di quelli che il nazismo identificata come i nemici per eccellenza: gli ebrei. Anche dopo l'approvazione delle leggi razziali nel 1938 e nonostante i rapporti sempre più stretti intrattenuti da Farinacci con i gerarchi tedeschi in quegli anni, Cremona non voltò le spalle ai profughi ebrei in fuga dalla Germania e dalla Jugoslavia. Quello che raccontiamo è un episodio sconosciuto, che non ha mai trovato spazio nella storiografia cremonese, ma che risalta nella drammatica veridicità dei documenti ufficiali nelle pagine curate da Anna Pizzuti sugli “Ebrei stranieri internati durante il periodo bellico” per il sito campifascisti.it a corredo di un eccezionale database che contiene, oltre ai dati anagrafici degli internati, informazioni sull’ultimo luogo di internamento documentato, sugli eventuali spostamenti avvenuti in precedenza, ma anche le notizie, quando è stato possibile reperirle, su quello che accadde loro dopo l’8 settembre del 1943. I documenti originali riguardanti Cremona, provenienti dal Ministero dell'Interno, sono conservati presso l'Archivio Centrale dello Stato a Roma.
Sono una decina i nomi degli ebrei rintracciati in due “campi di internamento libero” a Cremona e a Gussola. I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano in comune con quelli tedeschi molto più che le denominazione. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Non è stato possibile identificare con precisione l'ubicazione di questi due “campi”. Nel caso del capoluogo è possibile che il campo avesse sede nella stessa location in cui, nello stesso periodo, vennero ospitati anche i cosiddetti “internati protettivi” provenienti da Lubiana e Fiume, tra di essi con ogni probabilità anche altri ebrei (ad esempio una certa Francesca Babnic, poi ospitata da una famiglia di origine ebrea), anche se non specificato nei documenti. Di loro non si è saputo più niente dopo il 19 ottobre 1943, giorno in cui si sono allontanati facendo perdere le proprie tracce. Il loro nome, però, non si trova fra quelli di quanti, provenienti dai campi italiani, sono finiti nei lager tedeschi. Si chiamavano: Daniele Hammerschmild, tedesco, nato a Schloppe il 14 febbraio 1884, arrivato a Cremona il 16 settembre 1940 insieme al fratello Willy (nato il 6 marzo 1889) dal campo di Campagna, in provincia di Salerno. Con loro c'era anche la sorella maggiore Jenny (nata il 15 maggio 1881), non attestata nello stesso campo, ma sicuramente presente a Cremona e ritrovata dopo la Liberazione a Fermignano in provincia di Pesaro, dove era stata deportata il 31 maggio 1943. Con lei anche il figlio, Alfredo Lewin, nato a Berlino l'11 settembre 1911, deportato a Fermignano il 5 maggio 1942. A Cremona c'era anche Susanna Hammerschmild, nata a Berlino il 12 marzo 1926, ed allontanatasi dal campo insieme agli altri il 19 settembre 1943. Con loro anche Irene Mengasz, nata a Sibinj in Iugoslavia il 15 giugno 1935, Amelia Rosenfeld nata a Nagyernie, il 10 gennaio 1893, ufficialmente documentata poi a Milano, e Hela Steinfeld, tedesca, nata a Rintien il 11 aprile 1896, giunta a Cremona da Lanciano il 12 luglio 1940 ed allontanatasi con gli altri il 19 ottobre 1943.
Un'altra famiglia ebrea era internata a Gussola, dove era presente ancora il 6 agosto 1942, data da cui non si hanno più sue notizie. Si trattava di Hans Wolf Stawski, tedesco di Berlino dove era nato il 21 settembre 1906, giunto a Gussola da Urbania il 20 maggio 1942; della moglie Gertrude Cohen, di cui non si conosce il luogo di nascita, e dei due figli Pietro, nato nel 1938, e Gabriella, nata nel 1940.

Una coppia mista ariano-ebrea
esposta al pubblico ludibrio
Secondo una stima ufficiale del marzo 1940 si trovavano ancora in territorio italiano 3870 ebrei immigrati e rifugiatisi in Italia. Immediatamente dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il l0 giugno 1940, il governo fascista varò delle misure per l’internamento dei cittadini delle nazioni nemiche, seguendo in tal modo l'esempio delle Germania, della Francia, delle Gran Bretagna e di altri paesi. L'internamento fu motivato come strumento per garantire la sicurezza interna e la sicurezza militare, ad esempio contro lo spionaggio, e con esso si voleva evitare che uomini abili al servizio militare lasciassero il paese e si arruolassero nell'esercito nemico. A partire dalla metà di agosto del 1939, dunque poco prima dell'inizio della guerra, le autorità italiane cominciarono i primi preparativi. Solo a partire dal maggio del 1940, quando vengono emanate le prime circolari, sono documentabili le prime disposizioni relative all’internamento degli immigrati e dei profughi. In tal modo l'internamento, che all'origine non aveva nulla a che vedere con la politica razziale varata con la legge del 1938, entrò in stretta relazione con quest'ultima. Il 15 giugno fu ordinato l'arresto degli uomini ebrei di età compresa tre il 18 e i 60 anni, di nazionalità tedesca, polacca e ceca oppure apolidi. Le donne e i bambini furono allontanati dalla loro residenza e concentrati in luoghi isolati sotto il controllo della polizia nel cosiddetto "internamento libero”. Il periodo trascorso nelle prigioni locali immediatamente dopo l'arresto durato in genere alcune settimane, prima di poter raggiungere i campi di internamento, fu sentito da tutti i detenuti come particolarmente duro. Le celle erano in genere strapiene, prive delle necessarie attrezzature sanitarie e spesso pullulavano di insetti. Accadeva poi frequentemente che gli ebrei fossero rinchiusi insieme ai criminali comuni. Ma la cosa più pesante da sopportare era l'incertezze sulle intenzioni delle autorità italiane, per il timore che il governo italiano decidesse di rispedire i rifugiati in Germania.
Il trasporto nei campi di internamento ebbe luogo in piccoli gruppi sotto il controllo della polizia, utilizzando le ferrovie. Durante il trasporto dalla prigione ai vagoni ferroviari ai polsi dei detenuti venivano strette talora delle manette, come si usa fare con i delinquenti. Alle donne e ai bambini veniva di regola risparmiato l'arresto, ma si aggiungeva loro di tenersi pronti per la partenza in un giorno determinato e di presentarsi alla prefettura della provincia prevista per il loro internamento.
A partire dal 1941 nel campo di Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su richiesta degli internati, di passare al regime di “libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Così molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati. E' questo il caso degli ebrei “cremonesi”, che, per sfuggire alla deportazione, scapparono insieme dal campo il 19 ottobre 1943 facendo perdere le proprie tracce.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza” In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, alle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire,che era calcolata sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevata a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare .per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche l'isolamento in un comune lontano dal proprio domicilio abituale comportava una notevole limitazione della libertà personale. Gli internati venivano strappati all'ambiente loro familiare, separati da parenti e amici, e costretti a vivere in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove era loro proibito ogni contatto con gli abitanti, ad eccezione dei padroni di casa. Non potevano allontanarsi dal territorio comunale senza autorizzazione speciale e dovevano presentarsi alla stazione di polizia o dei carabinieri in orari determinati, di solito una volta al giorno. Potevano lasciare la casa dove abitavano solo durante il giorno, senza però mai superare un determinato perimetro. Quando le donne e i bambini partivano per l'internamento, l'autorità di polizia del luogo di residenza consegnava loro il «foglio di via obbligatorio», con il quale dovevano presentarsi entro una data prestabilita alla questura della provincia decisa dal Ministero dell'interno, che li destinava a un comune. Di solito le donne con i loro bambini raggiungevano in treno il capoluogo della provincia, e da lì venivano portate in treno, con la corriera o con un tassi collettivo al luogo di destinazione definitivo. Da tutti i resoconti di cui disponiamo, sia quelli degli internati che quelli dei prefetti o degli ispettori generali, si ricava l'impressione che anche nell’«internamento libero» gli alloggi fossero quasi sempre poveri o squallidi, quando non addirittura invivibili. Pur costretti a rinunciare alle più modeste comodità quotidiane, molti internati dovettero adattarvisi per oltre tre anni.

Un ghetto ebreo
Ma Cremona, oltre ad essere un luogo di internamento per gli ebrei stranieri profughi in Italia, lo fu anche per  alcuni internati protettivi provenienti dalla province annesse di Fiume (Rijeka) e Lubiana, sotto la minaccia dei terribili Ustascia e dei ribelli comunisti di Tito. Di fronte alla persecuzione che, si è calcolato, avrebbe comportato la morte di 65.000 ebrei nei campi jugoslavi e tedeschi, l'unica salvezza possibile era, per chi poteva, tentare di fuggire verso i territori posti sotto il controllo degli italiani, e la legislazione antiebraica fascista, confrontata con la violenza degli ustascia, appariva il male minore. Lo stesso internamento che aveva privato della libertà migliaia di ebrei stranieri già presenti in Italia nel giugno del 1940, appariva dunque, ai fuggiaschi, come garanzia di salvezza.
I primi arrivi avvengono nel giugno del 1942. Si tratta di 17 persone provenienti dalla provincia di Lubiana. Sappiamo che le donne e i bambini vengono alloggiati presso la "Casa di Nostra Signora", e successivamente presso l'Istituto della Pace, mentre gli uomini presso la trattoria Montone. L'assistenza, almeno nel primo periodo, è a carico della locale Federazione dei Fasci di Combattimento, proprio in virtù del fatto che i profughi sfuggissero alla persecuzione degli ustascia. Successivamente, le spese passano a carico dell'ECA (Ente Comunale di Assistenza). I nomi sono contenuti nella richiesta di rimborso per le spese sostenute per il loro mantenimento inviata dalla Regia Prefettura di Cremona al Ministero dell'Interno, Direzione Generale per i Servizi di guerra. Si tratta di: Matteo Hrbar, di anni 55, di sua moglie Maria Ansek, di 50, e dei figli Franz. Lodovico, Matteo, Ludmilla, Sofia, Elena, Ivan, Miroslav e Giuseppe; della famiglia di Maria Ocvirk, di anni 49, con i figli Rudolf, Ivanka e Liubra; di Giuliana Atmic (Stimu) di anni 48 e di Francesca Babnic, anch'essa di 48 anni. Il Prefetto Giovanni Battista Laura aggiunge: “Si prega esaminare l'opportunità di aderire alla richiesta dell'ECA tenendo presente che per circostanze facilmente intuibili una sistemazione degli sfollati contenuta nei limiti di spesa prescritti, avrebbe dato luogo a vivo malcontento da parte degli sfollati stessi ai quali non poteva passare inosservata la differenza di trattamento in confronto a quella già disposta dalle Federazione Fascista”. Lo stesso documento informa anche del loro rimpatrio, avvenuto nel dicembre del 1942. In realtà ad essere rimpatriata a Bloska Polica, con foglio di via per indigenti, sembra essere solo la famiglia di Hribar Matteo e dei suoi nove figli. Degli altri sei internati protettivi sappiamo solo che Francesca Babnic si trasferisce, sempre nel dicembre del 1942, da Cremona a Preggio, in provincia di Perugia, presso la famiglia Contini, probabilmente come domestica.
Il 19 luglio 1942 arrivano da Rijeka, nella cosiddetta provincia del Carnaro, altre sei famiglie, in tutto 24 persone “per protezione contro l'attività dei ribelli” che vengono alloggiate all'Asilo Notturno Broggi-Simoni, in via Cadore, e per il vitto presso la trattoria Capellini, con una spesa per il loro mantenimento che ha superato di gran lunga quella massima stabilita dalla circolare ministeriale del 18 giugno 1942. “A seguito della nota 28 ottobre 1942 n. 23605/303.3. - scrive il Prefetto al Ministero dell'Interno – l'ECA venne avvertito che la spesa doveva esser contenuta nei limiti di L. 8 giornaliere più L. 50 mensili per alloggio al capo famiglia e di L. 4. r L. 3 giornaliere per ciascun congiunto rispettivamente maggiore o minore di età. Ma l'Ente non poté, da un giorno all'altro, modificare l'assistenza già in atto perchè il nuovo trattamento non avrebbe potuto garantire un minimo di vitto ed alloggio assolutamente indispensabile. Peraltro non si appalesava opportuno scindere i nuclei famigliari per sistemarli presso ospizi di ricovero della provincia (i quali non avrebbero potuto accogliere provvisoriamente uomini, donne e bambini) anche nella previsione di collocamento al lavoro in Comune...Dal 16 febbraio l'assistenza è stata limitata a quella disposta da codesto Ministero, dato che ad integrare il fabbisogno indispensabile di ciascun nucleo famigliare concorrono i salari che percepiscono i componenti avviati al lavoro”.
Non sappiamo praticamente nulla sulle condizioni di vita degli internati protettivi alloggiati presso l'Asilo Notturno di Cremona. La loro presenza sembra protrarsi almeno fino a giugno del 1943. Infatti in quella data Maria Brunelich (o Brnelich) chiede di essere trasferita da Gottolengo in provincia di Brescia, a Cremona presso il fratello 
Sappiamo così che Brunelich (o Brnelich) Antonio, nato a Cucugliano (Kukuljan) il 10/8/1902 è alloggiato presso l'asilo notturno della città assieme alla moglie Uliana Zoritic e alle due figlie Zora di 11 anni e Maria di 8 anni. Antonio ha trovato occupazione presso l'azienda Ceramiche Frazzi.

I documenti raccolti da Anna Pizzuti dimostrano che, mentre molti dei profughi, una volta entrati in territorio italiano, cercavano di rimanervi come clandestini, altri si recavano presso le autorità di polizia e presentavano istanze con le quali chiedevano il permesso di dimora in località del Regno e, in attesa delle determinazioni del Ministero, il permesso di soggiorno.
Nelle istanze venivano descritte le terribili violenze subite e si parlava di parenti portati via dagli ustascia e dei quali non si avevano più notizie. Le autorità, anche quelle militari che presidiavano i territori croati, quindi, erano perfettamente informate di quali fossero i rischi che avrebbero corso le persone che respingevano o allontanavano. L'aspirazione dei fuggitivi, comprensibilmente, era quella di essere internati in un qualsiasi campo o località dell'Italia, ed era la soluzione che la Delasem (Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei) cominciò ben presto a proporre in ciascuna delle zone "critiche".
In generale furono accolti coloro che dimostravano di potersi mantenere a proprie spese, ma anche quelli che avevano collaborato con le autorità militari italiani o che, a qualsiasi altro titolo, risultavano "favorevolmente noti" alle autorità. Ad ogni modo l'afflusso dei profughi si interruppe nella seconda metà del 1942. A partire da questo periodo l'inasprirsi dello scontro con i partigiani portò ad un controllo delle frontiere ancora più rigido di quanto non lo fosse stato in precedenza. In più, dall'estate di quell'anno, entrò in vigore l'accordo stipulato tra i tedeschi ed i croati che prevedeva la deportazione verso la Polonia di tutti gli ebrei non ancora periti negli eccidi o nei campi di sterminio jugoslavi. Nonostante ciò, da Roma continuarono ad arrivare ancora ordini di respingimento, anche quando era ormai ampiamente noto che il destino dei profughi sarebbe stato segnato. Il 25 novembre del 1942 il questore di Fiume trasmette a tutti gli uffici sottoposti una circolare ministeriale, nella quale si legge:"Con riferimento a precorsa corrispondenza si comunica che questo Ministero, riesaminata la situazione degli ebrei profughi dalla Croazia che emigrano clandestinamente nel territorio delle nuove province per sottrarsi a presunte vessazioni e che si rifiutano di far ritorno in patria dove correrebbero pericolo di vita ha deciso che gli stessi debbono per norma essere respinti nei paesi di provenienza."