venerdì 30 dicembre 2016

I soncinesi che fecero grande Trieste

La cattedrale di San Giusto a Trieste
E' un legame antico quello esistente tra Cremona e Trieste. Basti pensare che, secondo la tradizione, si fa risalire il toponimo Servola ai soncinesi chiamati dal vescovo cremonese Rodolfo Pedrazzani, originario di Robecco d'Oglio, tra il 1301 e il 1320 per attendere alla cura dei campi nella sua villa di Sylvula, come il promontorio era chiamato fin dai tempi romani. Altri vogliono invece che gli abitanti di Soncino venissero richiesti per terminare la cattedrale di San Giusto, data la loro abilità nel lavorare la pietra. Sarebbero stati proprio loro a realizzare il grande rosone, seguendo il modello rappresentato da quello del duomo di Cremona, realizzato nel 1274, negli anni in cui Pedrazzani vi era canonico. Ma vi è anche un documento del 1330 che parla di un pagamento di 24 soldi patriarcali per aver fornito quattromila pietre al comune triestino ad un certo Morandino da Robecco, evidentemente chiamato dal vescovo compaesano per sopperire alla carenza di “picapreda” necessari a portare a termine la grandiosa ricostruzione del duomo. Sia i soncinesi che i robecchesi esperti nella lavorazione di pietra e marmo provenivano probabilmente dalle zone prealpine bresciane, ricche di cave e miniere e la loro presenza doveva essere abbastanza radicata in quel di Servola, visto che i loro discendenti erano chiamati “Sancin” o “Sanzin” ancora nel 1648, anno a cui risale la prima testimonianza scritta. Di certo per oltre mezzo secolo, sul far del Trecento, i cremonesi, chiamati, ma più spesso spinti in Friuli dopo essere fuggiti dalla loro città, furono protagonisti indiscussi della vita politica, sociale e culturale della regione. Ad iniziare da Rodolfo Pedrazzani.
Rodolfo Pedrazzani, nominato vescovo di Trieste l'8 agosto 1302 da papa Bonifacio VIII su indicazione del suo amico ed estimatore, il patriarca di Aquileia Ottobono de' Rovari-Feliciani, originario di Piacenza, era nato a Robecco verso la metà del Duecento. Nel suo stemma di famiglia, dove campeggia un camoscio su un monte verde, sono ricordate le probabili origini montane, comuni a tanti scesi in pianura in quegli anni alla ricerca di lavoro. E la fortuna non dovette mancare alla famiglia Pedrazzani, che dal 1246 al 1420 conta sei decurioni nella Magnifica Comunità di Cremona, tra cui Ruggero, che nel 1264 fu eletto dai senatori tra i Comandanti del Corpo di milizia urbana e nel 1270 figura con altri sedici consiglieri nel governo del quartiere di Porta San Lorenzo. Nel 1288 il nostro Rodolfo figura Dottore dei decreti, Protonotaro apostolico e Canonico della Cattedrale, cioè, a differenza dei suoi predecessori esperti nell'uso della armi, laureato in diritto canonico, un corso che era possibile seguire solo a Bologna, Reggio Emilia o a Padova. E' probabile che la scelta fosse caduta su quest'ultima università, già frequentata in quegli anni da altri cremonesi, come Guglielmo da Enrigino, ricordato come “decretorum doctor” e poi decano di Aquileia tra il 1307 ed il 1352 e da Giambonino da Gazzo. A proposito di Guglielmo, questi era fratello di Giuseppe e di Sapere, il cui figlio, pure chiamato Guglielmo, divenne a sua volta canonico (1331) e poi decano del capitolo della cattedrale aquileiese (1360-1367). Giuseppe ebbe almeno sei figli, legittimi o naturali: Odorico (“natus”, cioè figlio naturale), Giovanni, Francesco, Nicolò, che nel 1341 risulta essere canonico di Udine, e Guglielmo (“natus”), anch’egli canonico di Udine nel 1343. La famiglia era di origine cremonese, ma probabilmente dovette lasciare la patria poiché legata ai della Torre milanesi, che furono sconfitti dai Visconti nella lotta per il controllo della metropoli lombarda. Giuseppe forse insieme con il fratello Guglielmo, entrò così a far parte della clientela di Pagano, vescovo di Padova dal 1302, e uno fra i maggiori rappresentanti dell’ampia consorteria familiare dei della Torre. Non è escluso che a Padova Giuseppe abbia frequentato scuole di grado superiore e forse anche di tipo universitario, come certamente fece il fratello Guglielmo. Di sicuro egli fu notaio e dal 1306 fu al servizio della curia del vescovo Pagano. 


Dunque tra Aquileia, Udine, Trieste e Padova la presenza cremonese era richiesta, fortemente radicata e strettamente partecipe delle vicende politiche di quella regione.
Lo stesso Rodolfo, d'altronde, quando giunse a Trieste nel 1302, venne accompagnato da un nutrito gruppo di “familiari” che non necessariamente erano persone legate al vescovo da stretti vincoli di parentela, ma tutti quelli che componevano il suo seguito, dipendenti o familiari che fossero, tutti ovviamente robecchesi. Non c'è da stupirsi per la presenza di tanti lombardi tra Aquileia, dove aveva sede il patriarcato, e Trieste che vi era soggetta. Già da molti anni la Santa Sede, riservandosi il diritto di nominare il patriarca, aveva cercato di rafforzare il fronte anti-imperiale e guelfo in una regione periferica strategica per gli equilibri politici italiani. La scelta dei pontefici, ultimo tra questi Bonifacio VIII, era dunque caduta su elementi fidati, di formazione curiale romana e del tutto estranei al contesto feudale friulano, legato all'imperatore e ai suoi fedelissimi, i conti di Gorizia. Ottobono, patriarca di Aquileia, e Rodolfo, fanno parte di questa folta schiera di presuli convinti sostenitori della dottrina teocratica e della linea politica di papa Caetani. Una delle prime azioni intraprese da Rodolfo è la ripresa dei lavori per integrare e unificare tra di loro le due chiese gemelle di Santa Maria Assunta e San Giusto in un'unica cattedrale, già iniziata dai suoi predecessori, ma che ora ragioni di fede, di immagine e prestigio spingono ad ultimare. Rodolfo con il suo impegno ed il suo zelo si conquista l'apprezzamento del metropolita Ottobono, che lo aveva “raccomandato” a Bonifacio VIII, e ora lo gratifica rendendolo partecipe di importanti momenti pastorali e politici, inasprendo, però, il risentimento che già covava nei suoi confronti il vescovo di Padova Pagano della Torre, per essergli stato preferito dal pontefice alla sede di Aquileia.
E qui il cammino del vescovo Rodolfo Pedrazzani, poi morto il 7 marzo 1320, si incrocia inevitabilmente con quello dell'altro grande cremonese destinato, qualche anno dopo, a diventare decano aquileiano.
Il rosone di San Giusto

Guglielmo da Enrigino nacque probabilmente negli anni Ottanta del Duecento, da famiglia cremonese. La data può essere ipotizzata osservando il suo curriculum universitario, dove infatti è qualificato come “doctor decretorum”, titolo senza dubbio conseguito nello “Studium” di Padova, città nella quale compare in diverse riprese anche dopo essere approdato in Friuli, fra il 1308 e il 1309 e poi fra il 1311 e il 1312, e dove verosimilmente si trovava per studiare diritto canonico. Il suo arrivo in Friuli avvenne durante gli anni di governo del patriarca Ottobono (1302-1315), che era stato prima vescovo di Padova, ma Guglielmo era legato soprattutto a Pagano della Torre che subentrò a Ottobono quale vescovo della città euganea e divenne a sua volta, nel 1319, patriarca. Del resto Pagano aveva mantenuto saldi rapporti con il Friuli e, tramite i suoi parenti, interferiva costantemente nelle questioni della Chiesa aquileiese. Che la famiglia di Guglielmo fosse vicina alla consorteria dei Torriani è confermato dal fatto che il fratello Gabriele fu, come abbiamo visto, notaio e scriba di Pagano durante l’episcopato padovano, per poi accompagnarlo ad Aquileia insieme con una numerosa “familia” costituita per lo più da lombardi, soprattutto cremonesi. Ed è appunto in armonia alle fortune di questo nutrito gruppo di persone provenienti dalle città lombarde, affluito in Friuli fin dai tempi di Raimondo della Torre (1274-1299) e forse anche di Gregorio di Montelongo (1252-1269) e ingrossatosi nel primo Trecento, che si colloca anche la vicenda di Guglielmo.
Egli, si può dire, rappresenta più di ogni altro il profilo dell’élite dirigente forestiera che si impiantò in Friuli, spesso, come è stato per gli operai di Soncino, per radicarvisi definitivamente. Non si trattava solo di parenti e di “fideles” dei patriarchi, ma anche di un personale preparato su un piano culturale e giuridico e pronto a soddisfare le esigenze e le pratiche di governo e amministrative della chiesa aquileiese: un personale non facilmente reperibile in Friuli. La conseguenza fu la progressiva estromissione del gruppo dirigente friulano dai posti di comando e dai benefici più redditizi del patriarcato. Esso fu appunto sostituito da questi personaggi, che venivano compensati per i loro servigi con un plebato, un seggio o una dignità capitolare, una prelatura o, se laici, con beni di natura beneficiale-feudale. In tale contesto la carriera di Guglielmo ad Aquileia fu particolarmente brillante e raggiunse presto il suo apice, mai poi superato. Il 21 maggio 1307 il vescovo Pagano della Torre comunicò al patriarca Ottobono e al capitolo della cattedrale che il decanato di Aquileia, vacante, era stato riservato dal legato papale Napoleone Orsini a Guglielmo, figlio naturale (“natus”) di Enrigino da Cremona, allora arciprete della chiesa di S. Maria di Sarmazza di Padova, e intimò loro di accoglierlo entro sei giorni e a conferirgli il possesso della prebenda. Da quel momento Guglielmo resse il decanato per più di quarant’anni, cumulando anche un canonicato a Cividale. Una responsabilità non da poco, perchè egli ricopriva la seconda dignità ecclesiastica della diocesi, dopo quella dell’ordinario, e, vista la particolare sovrapposizione di poteri spirituali e temporali dei patriarchi, spesso si trovò costretto ad agire su più fronti. La sua azione è testimoniata da numerosi documenti, per lo più inediti, compresi nei protocolli dei notai di curia, ma è sinteticamente resa in una breve nota biografica vergata sul necrologio della cattedrale di Aquileia, che ne attesta la stima e l’onore con cui era considerato dai suoi confratelli.


A partire da tale ricordo, si può riassumere la pluridecennale permanenza friulana di Guglielmo secondo tre filoni: uno politico-istituzionale, uno ecclesiastico-religioso, uno culturale. I primi due sono sicuramente meglio documentati, ma il terzo è forse quello che potrebbe riservare maggiori sorprese. Per gli obblighi della sua dignità, Guglielmo era tenuto ad assistere con assiduità il patriarca e gli episodi di collaborazione non mancano e testimoniano una fedeltà che rimase salda sotto i patriarcati di Ottobono, Gastone e Pagano della Torre, Bertrando di Saint-Geniès, Nicolo di Lussemburgo, anche se mostrò la migliore intesa specialmente con Pagano e con Bertrando. Pagano impiegò più volte il decano come ambasciatore o nunzio nelle continue guerre e trattative che lo opponevano ai conti di Gorizia o a Venezia, soprattutto per le questioni istriane, fra il 1330 e il 1331, nelle quali egli diede prova di capacità diplomatiche, sebbene condizionate dalla endemica fragilità degli accordi e dei compromessi che venivano continuamente raggiunti e infranti. Bertrando, quasi alla fine del suo patriarcato, si rivolse a Guglielmo in una celebre lettera nella quale ricapitolava la sua azione di governo. Il documento a suo modo dichiara il grado di partecipazione che a quell’opera aveva prestato pure il decano, lodato dalla nota obituaria per aver difeso «viriliter e tamquam verus pugil eiusdem ecclesie» i diritti minacciati dai nemici esterni, Veneziani e Trevigiani avanti gli altri. Tuttavia i momenti di maggiore impegno sul piano politico toccarono a Guglielmo durante le vacanze della sede patriarcale succedute alla morte di Ottobono, nel gennaio del 1315, e di Pagano nel dicembre del 1332. Nella prima circostanza egli fu affiancato dal conte Enrico di Gorizia, che fungeva da capitano generale per il Friuli, nella seconda, sia pure solo per pochi mesi, dal nunzio papale Pietro “de Talliata”. In entrambe le evenienze, che si protrassero per molti mesi, benché fra mille difficoltà, seppe traghettare le sorti del patriarcato nelle mani del nuovo ordinario («rexit et gubernavit laudabiliter et potenter», scrive l’anonimo autore del suo elogio), allacciando subito con lui rapporti di fiducia. Sotto il profilo più propriamente ecclesiastico-religioso ,Guglielmo seppe innanzi tutto tutelare e aumentare i redditi del proprio capitolo, acquisendo per la prebenda decanale la pieve di Trivignano e lasciando una notevole quantità di legati pii ad utilità dei suoi confratelli. Fra il 1330 e il 1339 Guglielmo promosse una delibera capitolare che razionalizzava la complessa macchina della celebrazione degli anniversari del capitolo e dava regole precise per la suddivisione degli introiti, materia che suscitava continue liti. Sono inoltre ricorrenti suoi interventi per mantenere la disciplina capitolare. Egli partecipò ai sinodi diocesani e ai concili provinciali convocati dai patriarchi, fra i quali spiccano quelli del 1335 e del 1339 ove con una larga adesione dei vescovi suffraganei fu redatta una legislazione provinciale, che rimase sostanzialmente immutata fin dopo il concilio di Trento. Nel 1325 Guglielmo donò “pro anima” al capitolo una mezza marca aquileiese, da pagarsi annualmente in perpetuo, in occasione della festa delle quattro vergini aquileiesi Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, per retribuire i partecipanti all’officio divino che si stabiliva di celebrare. A prima vista si tratta di un normale lascito devoto, tuttavia esso forse non era estraneo a un orizzonte diverso, nel quale si contemperavano religione e cultura, intesa nella sua ricaduta artistica. A questo periodo, infatti, viene normalmente datata la realizzazione dell’arca delle Vergini aquileiesi, ascritta a un ampio programma di committenza monumentale pensato da Pagano della Torre, che sarebbe stato ben consapevole pure delle sue valenze ideologiche e propagandistiche. Guglielmo viene descritto come «elegancia moribus et scientia inter alios excellens et conspicuus»: al di là delle lodi di maniera per un defunto, forse in lui si può riconoscere uno degli ispiratori o dei compartecipi della “politica” artistica di Pagano e una sensibilità culturale che, sia pure ipotizzabile per il suo cursus di studi, era rimasta sinora in ombra. Guglielmo morì ad Aquileia l’8 febbraio 1352, non prima di aver favorito la carriera di un omonimo nipote, figlio di ser Sapere, canonico aquileiese dal 1331 e anch’egli decano fra il 1360 e il 1367. E, come lui, di origine cremonese

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