giovedì 29 dicembre 2016

Ho visto l'orrore, dieci anni dopo

Nel 1956 Adriano Andrini, ex partigiano con il nome di battaglia “Primo” e poi “Rino”, dal 1957 al 1961 assessore alle finanze nella giunta comunale del sindaco Arnaldo Feraboli, fu uno dei primi italiani a mettere piede nel campo di sterminio di Mauthausen a pochi anni dalla sua chiusura. Ne ricevette un'impressione fortissima e decise di scrivere alcune note per lasciare traccia della sua personale esperienza, che poi replicò un paio d'anni dopo visitando il lager di Auschwitz, ed ancora nel 1961 inviato dal sindaco Vincenzo Vernaschi con il vicesindaco Mario Coppetti ed il consigliere comunale Marchesini in occasione di un pellegrinaggio internazionale a Dachau. Di quel viaggio venne pubblicato nel 1995 un resoconto in un libretto intitolato “Pellegrini a Dachau”, pubblicato nel 1995. In occasione dei venticinque anni dalla scomparsa di Andrini, avvenuta il 21 settembre 1991, e dei 60 anni da quel primo viaggio, Mario Coppetti, con l'aiuto di Giuseppe Azzoni e dei due figli di Andrini, Maurizio e Gabriele, è riuscito a recuperare anche il dattiloscritto con gli appunti dei primi due viaggi che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire un'unica narrazione intitolata “Tre viaggi nel passato” che Andrini aveva pronto per dare alle stampe, curandone la pubblicazione. I tre racconti costituiscono una testimonianza eccezionale e drammatica perchè a guidare i cremonesi nella visita erano le stesse persone che in quei campi avevano vissuto l'inferno dello sterminio nazista, accompagnati spesso dall'imbarazzo e dalla reticenza di chi invece, fino all'ultimo, aveva taciuto. La descrizione dei campi costituisce il fulcro dei tre racconti, dove in realtà di è anche molto altro riguardante il contesto storico e sociale, i compagni di viaggio, le discussioni politiche, la difficile situazione della Germania e dell'Est europeo postnazista.

Mauthausen
 MAUTHAUSEN.
Apparve il custode, armato di una grossa chiave con la quale ci aperse il portone, Entrati, ci guardammo intorno. Il polacco, che era rimasto zitto per alcuni minuti, ci indicò il punto della muraglia, dove i tedeschi, all'arrivo, l'avevano obbligato, con gli altri, a denudarsi – era il febbraio del '45- e, con getti d'acqua gelida, 'disinfestarono i nuovi arrivari, Alcuni non si rialzarono più. Iniziava lo sterminio. Vicino al fabbricato del comando spuntavano ancora le bocche di presa degli idranti, ormai arruginite. Il custode taceva, ma dalle sue espressioni si capiva che i particolari raccontari dal polacco non gli andavano a genio, per cui ci stimolava a muoversi indicando le baracche che si trovavano sulla sinistra del piazzale e ripeteva «Schnell, schnell». Il polacco lo fulminò con lo sguardo e con rabbia, in tedesco, lo invitò ad andarsene, la visita la guidava lui, ne aveva i titoli. Al custode nn restò che tacere e accendersi il toscano.
Arrivammo alle baracche. Sulla porta di ognuna un cartoncino descriveva in quattro lingue, inglese, francese, russo e tedesco, a che cosa era servita e quante persone aveva ospitato. La prima che visitammo era stata utilizzata come bordello, le latre, secondo il cartello e la testimonianza del polacco, avevano ospitato migliaia e migliaia di deportati in un sovraffollamento inumano e in condizioni igieniche paurose. Sui muri delle baracche, sui letti a castello si potevano leggere scritte in ogni lingua. I parenti dei prigionieri, in visita, avevano appeso le fotografie dei loro cari. Quando il polacco entrò nella baracca che l'aveva ospitato restò in silenzio per alcuni minuti poi all'amico raccontò quello che aveva passato lui e gli altri suoi compagni. Dagli sguardi, dai gesti, dal tono della voce traspariva la sua angoscia. Avrò avuto quarant0'anni, vestito senza cura, con la barba di qualche giorno, ma pulito e dignitoso, tratteneva le lacrime. Era certamente un anticomunista, non tornò in patria, forse non poteva e non voleva, la sua posizione non era da invidiare, ma andava rispettata, aveva sofferto e combattuto il nazismo. Ripassammo per il piazzale dell'appello per raggiungere gli edifici in muratura del comando dove i deportati venivano eliminati. Nelle cantine, attraversammo lo spogliatoio che in pratica era l'anticamera della camera a gas, sulla cui porta di accesso un cartello la indicava con la scritta 'Desinfektions-raum', camera di disinfezione; varcammo quella porta e ci trovammo nella camera a gas. Sembrava una doccia collettiva, dal soffitto pendevano ben allineati i bulbi bucherellati. Da recluta avevo visto qualcosa del genere nella caserma di Savigliano.
Il polacco ci indicò dove le SS avevano sistemato le condutture che immettevano il gas ziklon b nel camerone. Condutture che le SS prima di fuggire dal lager avevano fatte togliere da alcuni deportati che, sopravvissuti, testimoniarono ai processi contro quei criminali di guerra. I cadaveri gasati venivano trasportati nel vicino crematorium, un grosso stanzone che sembrava una stalla, e ammucchiati negli stalli laterali. La corsia centrale veniva lasciata libera per il consentire il transito agli incaricati alal cremazione di poter operare agevolmente. Il polacco ci fece notare che l'ultimo forno costruito aveva la bocca della fornace sul retro per dare modo al fochista di mantenere viva la fiamma senza infastidire altri. L'efficienza tedesca si manifestava anche lì e a Berlino arrivavano telegrammi che i camini fumavano ininterrottamente giorno e notte.
Ci mostrarono celle di punizione, di un metro per due, senza finestre, con un pertugio da dove passavano al malcapitato la ciotola con la brodaglia, altre non avevano aperture e il cibo arrivava da un canaletto e finiva in una specie di trogolo. Risalimmo al piano terra, in un locale riservato al culto: lo utilizzavano le SS di fede cattolica o protestante; lo stavano trasformando. I governi o le associazioni di ex deportati vi avevano collocato lapidi o cipi lungo le pareti. Gli italiani erano presenti, i polacchi no. La nostra guida andò su tutte le furie, lanciava improperi nella sua lingua, l'amico che aveva sempre taciuto lo aiutò. La visita stava terminando, il custode e il polacco avevano fatto pace scambiandosi un toscanello. Il custode, dopo averci fatto uscire dal Konzentrationslager, richiuse il portone e ci guidò in un fabbricato dietro la portineria. Entrammo in un grande salone dove sopra letti a castello di tre piani c'erano numerose bare, sul tipo di quelle che vengono usate per le salme dei bambini. Ne scoperchiò una. Conteneva uno scheletro umano, diviso in tre tronconi. Le casse venivano offerte a parenti che avevano avuto un congiunto morto nel lager e che piuttosto di niente si accontentavano di portarsi a casa i resti di un deportato ignoto. Senza formalità veniva inchiodata sulla cassa una targhetta con le generalità dettate dai parenti.
Un incaricato del Municipio comprovava che si trattavadelle ossa di un deportaro deceduto a Mauthausen. Ai passaggi di frontiera nessuno sollevava obiezioni. Il luogo di provenienza inteneriva il cuore del più duro dei doganieri. Se le richieste di resti di deportati venivano fatte da Enti e Associazioni legalmente riconosciuti, dal lager effettuavano spedizioni a domicilio. Mentre gli altri chiacchieravano, io curiosavo. Mi trovai di fronte a una porta con i vetri smerigliati, era chiusa, ma la chiave era nella toppa. Aprii e rimasi sbalordito. Nel salone avevano accatastato scheletri umani, in alcuni punti il mucchio toccava il soffitto. Chiamai gli altri. Il custode intuì quell che avevo visto e mi lanciò una imprecazione gridando «Nein, nein», precipitandosi alla porta che avevo lasciata aperta, la chiuse e ripetè più volte «verboten».
Il polacco parlottò con il custode e alla fine ci fece entrare. Anche loro restarono senza fiato. Secondo il custode le ossa erano di internati seppelliti nelle fose comuni dalle ss e di latri non cremati. Al loro arrivo gli americani ordinarono la chiusura dei forni e i cadaveri vennero sepolti in fosse comuni, Anche i giorni della Liberazione, secondo il polacco, si trasformarono in tragedia. I liberatori, vista tutta quella gente macilenta e denutrita, distribuirono cibo in abbondanza, pochi si controllarono, la maggior parte mangiò troppo e morì di dissenteria e d'altro. Nella strada che scendeva e nelle vie del paese i cadaveri degli internati si contavano a centinaia. Il comandante americano mobilitò tutta la popolazione abile per il ricupero delle salme: temeva un'epidemia e voleva anche che gli abitanti vedessero quello che era accaduto sulle loro teste. Fra questi scheletri vi erano anche quelli deceduti nei primi giorni di libertà. Vicino alla porta, appoggiati alla parete, vi erano dei tavoloni sgombri, chiesi la custode a che servivano. «Ad un gruppo di medici che cercano di ricomporre gli scheletri in base alla statura e al sesso», rispose il custode. In quei giorni i medici nin lavoravano per la mancanza di casse”.

Auschwitz
AUSCHWITZ
“Entrammo in una grande sala, le pareti erano coperte da liste di nominativi delle vittime delle quali era stato possibile accertare l'identità, compito che non fu facile, in quanto, secondo il fondatore del campo, Haupsturmfüher delle SS, Rudolf Franz Ferdinand Hoss, in quel lager vi trovarono la morte 3.000.000 (tre milioni) di persone delle quali 2.500.000 (due milioni e cinquecentomila) passati per le camere a gas. Fu lo stesso Hoss a dichiarare che dal 1943 ad Auschwitz fu possibile gassare giornalmente 10.000 (diecimila) internati. Anche 70.000 prigionieri russi vennero eliminati nello stesso modo...Il custode ci fece entrare in capannoni dove si vedevano ammucchiati abiti da uomo e da donna, scarpe, pennelli da barba, occhiali, spazzolini da denti, utensili da cucina di ogni specie e persino arti artificiali. I tedeschi avevano costruito appositi edifici per custodire tutti gli effetti personali che confiscavano agli internati. I prigionieri all'arrivo venivano dotati di una divisa e classificati con un numero cucito sulla casacca, ma dal 1942 glielo tatuavano sull'avambraccio. Anche lì come negli altri lager venivano usati distintivi speciali. Un triangolo rosso per i politici, verde per i delinquenti comuni, rosa per gli omosessuali, nero per le prostitute e le pervertite, e violetto per i preti. Gli ebrei portavano la stella di David e dopo il 1943 una striscia gialla sopra il triangolo. Compresi dai gesti e dalle parole in francese e tedesco del custode e del tassistache gl'internati non venivano sterminati soltanto con il gas. Li fucilavano e li uccidevano con il colpo alle nuca (Genickhuss). Il medico Endredd, Obersturmführer delle ss, uccise 25.000 prigionieri praticando iniezioni di fenolo. Avevo letto da qualche parte che un certo Fritsch, assistente del campo, diceva ad ogni gruppo in arrivo al lagerla seguente frase: «Vi avverto che non siete venuti in ospedale, ma in un campo di concentramento tedesco, dal quale non si esce se non per il camino». Purtroppo era proprio così”.

Avviso di pericolo ad Auchwitz
DACHAU
“Le strutture interne per gli ex deportati erano irriconoscibili. Alla fine del conflitto avevano subito modifiche. Prima i locali vennero trasformati dagli alleati in prigioni per i criminali, in attesa di processo, e naturalmente essi vollero dare una lezione di civiltà ai tedeschi, ospitandoli in ambienti civili: celle pulite, spaziose, ben areate, luce, riscaldamento, acqua calda e fredda, un letto, un tavolo, una sedia, libri, vitto caldo e abbondante. Non tutti gli ex deportati apprezzarono la lezione degli alleati. Non avevano ancora dimenticato il trattamento avuto dai nazisti. Poi, ultimati i processi, i locali vennero utilizzati come uffici dal personale che smistava i profughi della Germania orientale. Quanto prima – ci dissero – questi ambienti saranno adibiti a museo del lager, ilcui allestimento è già in corso. La guida ci spiegava quali erano le costruzioni iniziate nel 1933, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler e i successivi ampliamenti. I nemici del nazismo erano in costante aumento e quindi occorrevano 'Konzentrationslager' sempre più vasti e numerosi. E così, in Germania e nel resto d'Europa, la loro rete si estese paurosamente. Arrivammo nella parte del lager dove gli internati venivano eliminati. Ci mostrarono celle per la tortura e la punizione, po un grande salone, apparentemente uno spogliatoio, confinante con un aòtro salone: una doccia collettiva che, come ormai sappiamo, non era altro che la camera a gas, in un locale attiguo molto vasto il solito deposito per i cadaveri e sul fondo i forni crematori. Nel nostro gruppo un ex deportato, in casacca sulla quale spiccava il triangolo nero degli asociali, ci fece da guida.
Durante gli ultimi mesi della detenzione l'avevano destinato a trasportare i 'gassati' dalle docce* all'adiacente crematorio, e lui ci descrisse nei particolari il suo lavoro. Per essere il più preciso utilizzò una barella di ferro con le rotelle che si trovava presso i forni. Nel muro divisorio tra lo spogliatoio e il crematorio esisteva un pertugio dal quale un 'kapò' appositamente incaricato spiava che nelle docce avvenisse tutto regolarmente. Ad ogni turno il numero delle vittime del gas si aggirava sulle centocinquanta persone. Una volta accertato che il gas venefico aveva fatto effetto, metteva in funzione un aspiratore e quando l'aria si era purificata impartiva l'ordine di trasportare i morti negli stalli laterali del crematorio.
L'”asociale” andò avanti e indietro un paio di volte tra le docce e il crematorio, per dimostrarci come venivano accatastai i cadaveri. Tutto d'una tratto proruppe in singhiozzi, si rimproverava di esseri salvato maneggiando i cadaveri dei suoi compagni di sventura. Anche lì come a Mauthausen l'ultimo forno aveva la fornace sul retro. Passammo in un latro locale nel quale c'era una macinatrice che triturava ossa, e il cui macinato, mescolato con la cenere dei corpi cremati, diventava un fertilizzante che i contadini spargevano nei terreni delle fattorie adiacenti al lager. Finalmente risalimmo alla luce del sole, proprio nei pressi del doppio recinto, quello che allora proteggeva il cuore del campo e nei cui reticolati immettevano l'alta tensione. I racconti tragici non erano ancora terminati. Alcuni presenti ricordavano di aver visto compagni ormai senza alcuna speranza gettarsi contro la rete del recinto e restare fulminati

La visita stava finendo, a gruppi ci si dirigeva verso l'uscita, noi tre, assieme ad uno che parlava tedesco, andammo alle baracche, volevamo sapere da chi erano occupate. Si trattava i profughi dell'est in attesa di una sistemazione con casa e lavoro, sistemazione che era stata loro promessa. Non eran entusiasti di vivere lì, in un affollamento eccessivo, si lamentavano anche del clima, o troppo caldo o troppo freddo, sembravano pentiti di avere scelto la libertà”

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