venerdì 1 aprile 2016

La felicità è un treno verso Cremona


E' il gennaio del 1946. Una bambina scende dal treno alla stazione di Cremona, con le piccole mani nascoste dietro alla schiena. Marisa le si avvicina: «Ma perchè non le porti davanti così le tue manine?». «Ci sono comunisti?», chiede timidamente la bambina. «Perchè cara?». «Perchè tagliano le mani». E' una delle testimonianze raccolte da Fabio Abeni e Gian Carlo Storti tra le donne cremonesi che in quegli anni si prodigarono in una gara di solidarietà preziosa e silenziosa, riportata recentemente alla luce in un libro di Giovanni Rinaldi, “I treni della felicità” (Ediesse, 2009) e in un documentario “Pasta nera” di Alessandro Piva, presentato a Venezia nel 2012. Furono settantamila, in quegli anni di fame e speranze, i bambini meridionali salvati dalle donne del Nord, mogli di operai e contadini, quasi tutti ex partigiani, che per aver toccato con mano la miseria non esitarono ad ospitare, anche per anni, i figli dei braccianti del Sud rimasti incarcerati o disoccupati e costretti ad emigrare. Una gara di solidarietà combattuta spesso contro la diffidenza degli stessi uomini e dell'apparato politico. I bambini venivano da Cassino bombardata dagli anglo-americani, da Roma piena di baraccati e affamati, da Napoli semidistrutta dalle bombe., da Milano e Torino falcidiate dalla disoccupazione Viaggiavano sulle panche di legno di quei treni malandati, che per loro erano i “treni della felicità”. «L'idea è nata da un ricordo di mia nonna paterna – spiega Fabio Abeni – che da giovane madre, nel dopoguerra, trovava tempo e energie per dedicarsi non solo ai propri figli, ma anche a quei bambini che provenivano da zone ancor più disastrate dalla guerra. Lei contribuiva ad organizzare il ristoro e l'attività ricreativa di quesit bambini alla cooperativa “Carlo Marx” che si trovava di fronte a casa sua, in via Pippia, sull'angolo con via Mantova». L’iniziativa era nata a Milano dalla fantasia e dalla passione di Teresa Noce, una dirigente comunista, moglie di Luigi Longo (dirigente del CLN e del Pci di cui fu anche segretario dopo la morte di Togliatti) che dopo aver combattuto in Spagna con le Brigate internazionali ed essere stata internata dai nazisti nel campo di Ravensbrük, era riuscita, subito dopo la Liberazione, a rientrare in Italia. “I bambini affamati erano tanti. Cominciava il tempo umido e freddo e non c’era carbone. I casi pietosi erano molti, moltissimi. Bambini che dormivano in casse di segatura per avere meno freddo, senza lenzuola e senza coperte. I bambini rimasti soli o con parenti anziani che non avevano la forza e i mezzi per curarsi di loro. Bambini ammalati, che per il momento dovevamo escludere dalla lista e cercare di far ricoverare in ospedale. Bambini lerci, pieni di croste e di pidocchi”. Da Milano, per salvare dalla fame e dalle malattie i bambini più poveri, aveva chiesto aiuto alla federazione del Pci di Reggio Emilia che si offrì di ospitare, già in quel primo inverno dopo la fine della guerra, un gran numero di bambini. Nello spesso periodo a Roma c'erano bambini costretti a vivere nel dormitorio di Primavalle, in un ambiente non certo adatto alla loro giovane età, a loro vene offerta una prima forma di accoglienza attraverso le colonie organizzate, non con poca fatica, dalle donne dell’UDI che, si preoccupavano già di trovare famiglie disponibili in Emilia Romagna e Toscana durante gli inverni del ’46 e del ‘47. L’esperienza positiva indusse a creare nuove occasioni di solidarietà. Dopo Roma e Cassino toccò a Napoli e poi a San Severo di Puglia, dove il 23 marzo 1950 uno sciopero non autorizzato si trasformò in tragedia: i braccianti si ritorsero contro la polizia al grido di «Pane e lavoro!». Ne conseguì l’arresto di 180 persone ed un processo che durò due lunghissimi anni con l’assoluzione e la scarcerazione di tutti gli imputati. I loro figli furono ospitati, o meglio presi in affidamento, da famiglie di lavoratori del Centro-Nord in segno di solidarietà, fino a quando non furono assolti e scarcerati due anni dopo. Le donne trovarono medici per fare visitare e curare i bambini, donazioni di indumenti, biancheria, calze e scarpe, ambienti pubblici e privati che risposero all’iniziativa e tutto andò per il meglio sino al momento di organizzare la partenza. Si trattò di uan vera e propria rete di solidarietà sostenuta dall'Udi (unione donne italiane) e dal Partito Comunista, il Governo mise a disposizione i treni e si formarono dei comitati nei comuni più disastrati, che stilavano liste nelle quali i genitori potevano inserire i nomi dei propri figli così da pote assicurare loro un posto su quei convogli. L'Emilia Romagna, le Marche e la Toscana furono le regioni più accoglienti, anche perchè lì era più forte la presenza del Pci. Già in occasione del V Congresso la federazione modenese dichiarò la propria disponibilità ad accogliere tremila bambini, organizzando un primo scaglione di 750 che sarebbe dovuto partire il 10 gennaio 1946, ed in collaborazione con il vescovo a garantire il loro inserimento nel sistema scolastico provinciale.
Il primo gruppo di bambini, figli di partigiani, reduci e disoccupati, arrivò a Cremona da Milano il 23 dicembre 1945, preceduto da un appello sul settimanale “Lotta di Popolo” del segretario provinciale del Pci Gaeta: “Migliaia e migliaia di bambini di Torino, di Milano e Genova, di Roma sono già stati strappati al freddo e alla fame. A migliaia continuano le richieste da parte di famiglie e di lavoratori dei vari paesi”. Il 30 dicembre 18 bimbi arrivano a Soresina. “Il dott. Simeoni – scrive 'Lotta di Popolo' - vedendo due fratellini sciupati, con il visino segnato dalle sofferenze, insistette perché fossero assegnati tutti e due alla sua famiglia affinché rimanessero uniti e potessero godere di quelle cure sanitarie di cui hanno tanto bisogno”. Con gennaio e febbraio gli arrivi si intensificano, con bambini provenienti da Milano e soprattutto da Torino. Il 20 gennaio sono trecento, così distribuiti: cento a Cremona, 25 a Soresina, 24 a Pizzighettone, 20 a Vicomoscano, 15 a Crema e Casalmaggiore, 13 a Scandolara Ravara, 11 a Gadesco Pieve Delmona, 10 a Pessina, 8 a Gussola, 6 a Quattrocase, 6 a Longardore, 5 a Palvareto (S. Giovanni in Croce), 4 a Gombito e 4 a Cappella de' Picenardi.

Domenica 27 gennaio 1946 c'è attesa in stazione: “ll treno ritarda. La folla si agita impaziente. Arrivano le autorità: il Sindaco di Cremona, il Maggiore dei Carabinieri, il Capo di Gabinetto del Questore, ed altre personalità invitate dal Comitato per l’Infanzia. Numerose ragazze potanti al braccio la fascia del Comitato per l’Infanzia vanno frettolose avanti ed indietro, dalla Stazione al Centro Scolastico di via Trento e Trieste adoperandosi affinché tutto sia fatto nel migliore dei modi. … Il treno si arresta. ... Sono tanti; oltre cinquecento che verranno divisi tra Cremona e Mantova. Dall’ultimo vagone scendono quelli che rimarranno nella nostra città. Sono solo cento. È caduta improvvisamente molta neve che ha impedito ai bimbi della provincia di giungere nella città di Torino da dove avrebbero dovuto partire”. Il 3 febbraio arrivano altri 400 bambini, concentrati presso la scuola di viale Trento e Triste e poi smistati presso le famiglie, che provvedono agli accertamenti sanitari presso il dispensario provinciale. Cominciano però anche i primi screzi, dovuti all'intemperanza di qualche prelato troppo sensibile all'iniziativa di solidarietà, targata inevitabilmente Pci. “Il parroco di Izano, Don Vailati – informa “Lotta di Popolo” - leggendo sull’Unità del 5 febbraio 1946 le espressioni del Vescovo di Crema sull’iniziativa di ospitare i bimbi bisognosi ha riprovato pubblicamente l’operato di Mons. Francesco Maria Franco dicendo che «Il Clero non si deve per nessun motivo associare a delle iniziative di carattere assistenziale proposte dal Partito Comunista Italiano, in quanto ciò è contrario alle disposizioni papali circa il pericolo dell’ideologia marxista e la lotta che la chiesa deve condurre contro il Partito stesso e che pertanto i preti hanno il dovere morale e professionale di avversare il comunismo dal pulpito»”. Alla fine di febbraio arrivano altri duecento bambini da Milano e “Lotta di Popolo”, a titolo di esempio, cita quanto sta avvenendo nella vicina Parma: “E' giunto alcuni giorni fa a Parma il primo scaglione dei bimbi di Cassino che numerose famiglie della città si sono offerte di ospitare, in seguito alla campagna condotta dai comunisti in quella città come in tutta l'Italia. Ad accoglierei 302 piccoli ospiti c'era alla stazione, oltre ai membri del Comitato d'onore, una numerosa folla. I bimbi erano accompagnati da alcune crocerossine e da venti mamme, che hanno così potuto sincerarsi di persona sulla falsità della propaganda di una parte del clero di Cassino il quale aveva asserito che i bambini sarebbero addirittura stari trasportati...in Russia. Da notare che nella città di Parma il clero ha invece aderito alla nobile iniziativa dei comunisti e che il Vescovo della città, monsignor Evasio Colli, fa parte del Comitato d'onore”.

A marzo i bambini arrivati nel cremonese erano già ottocento. A Pizzighettone si mobilitò anche il personale del Genio militare: il colonnello Concarò e il tenente colonnello Rossi organizzarono una veglia danzante il cui ricavato fu versato al Comitato d'Infanzia, ma soprattutto si occuparono di confezionare calzature di cuoio per i piccoli ospiti oltre a cento paia destinate ai bambini poveri del paese e il direttore dello stabilimento Pirelli Luigi Burzi consegnò 50 metri di seta bianca e 50 di tela grigia per confezionare vestiti.
Richieste di aiuto arrivavano anche da Massa Carrara: Cari compagni – scrivevano dalla federazione del Pci – ci rivolgiamo a voi per chiedere anche quest'anno il vostro aiuto. Tanti per darvi qualche cifra pensate che su 30.000 unità lavorative circa 22.000 sono disoccupate e che la nostra provincia non ha nessuna risposta locale né agricola, né industriale, per la sua conformazione geografica e per le distruzioni della guerra. Pensate poi che presso i nostri dispensari antitubercolari, si riscontra come minimo un nuovo caso giornaliero di tbc nei bimbi al di sotto dei 14 anni. Vi chiediamo perciò anche quest'anni di venirci in aiuto, di fare qualche cosa per noi edi special modo per i nostri bambini; vi chiediamo ossia se non avete la possibilità di ospitarcene qualcuno presso le famiglie della vostra provincia. Noi sappiamo che vi chiediamo molto, e vi confessiamo che abbiamo riflettuto a lungo prima di farvi una simile richiesta. Ma siamo in inverno e qui la gente muore di fame”. La risposta non si fece attendere: “Anche noi cremonesi- scriveva Stella Vecchio – come i compagni emiliani vogliamo strappare dalle case fangose dei più poveri quartierid i Napoli e Carrara, al freddo, alla fame, alle malattie e alla corruzione migliaia di bambini, e ci riusciremo, ne siamo certi”. I primi 50 bambini arrivarono a marzo del 1947. Un mese dopo fu la volta dei piccoli napoletani: ne arrivarono un centinaio, ma non tutti riuscirono a trovare subito una casa e le femmine vennero ospitate presso la Casa di Nostra Signora ed i maschi al Collegio vescovile Sfondrati. Il Comitato Cremonese rivolse un nuovo appello alla città: “Chi può, aiuti!”. Gli stessi operai napoletani avevano regalato 3 o 5 ore del proprio raccogliendo 300 mila lire per fornire il vestiario ai bimbi destinati al Nord. Nei primi mesi del 1948 altri 130 bimbi furono accolti in città per iniziativa dell'Alleanza Femminile del Fronte Democratico Popolare, altri arrivarono l'anno successivo da Avellino, altri dal delta padano nel gennaio 1950 e 1951. «Francamente non è facile capire fino a quando vi fu un'attività significativa – spiega Fabio Abeni – L'iniziativa ebbe una evoluzione che consentì, fino ai primi anni Cinquanta di fare fronte ad alcune importanti emergenza nazionali che richiedevano questo tipo di solidarietà, incluse azioni a supporto dei figli delle mondine e alle grandi agitazioni sindacali del Sud Italia. Non mi ha stupito la solidarietà dimostrata da persone che credevano in un ideale importante e nemmeno la capacità organizzativa di quelle persone, molte delle quali avevano affrontato situazioni decisamente più difficili negli anni di guerra appena trascorsi. Ha colpito me e tante gente il fatto che le stesse persone che sono state protagoniste di questa impresa spesso non avevano loro stesse compreso la grandezza dell'iniziativa su tutto il territorio nazionale».

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