venerdì 30 dicembre 2016

Quando si voleva il murales al Cittanova

Il bozzetto di Antonio Rizzi al museo civico Ala Ponzone
Anche per la giunta Galimberti, il palazzo Cittanova rappresenta un spina nel fianco. Il Comune resta dell'idea che l'edificio debba essere valorizzato, anche se il precedente bando per l'assegnazione in concessione ad un privato ad uso di sala polivalente, non ha avuto l'esito sperato. Corsi e ricorsi storici. Nel 1883 il consiglio comunale di Cremona aveva addirittura deciso all'unanimità di raderlo al suolo per i costi elevati che avrebbe comportato il suo restauro. Tra i più fervidi sostenitori della demolizione vi era Leonida Bissolati che però venne messo in minoranza da una successiva votazione del 20 gennaio 1886 con cui se ne decise, viceversa, il recupero. In realtà dovevano trascorrere altri 27 anni perchè iniziassero i lavori veri e propri, sulla base di un progetto dell'ingegnere milanese Emilio Gussalli sostenuto dall'assessore Alessandro Groppali, approvato dal consiglio comunale il 14 giugno 1913. Il palazzo restò chiuso per quattordici anni fino a quando nel 1927, furono conclusi gli interventi di tipo statico, come annunciava trionfalmente il “Regime Fascista” del 25 maggio: “Ora il palazzo, magnifico e suggestivo nella struttura esterna, nella scala, nello smisurato salone superiore, è nuovo invidiabile ornamento di Cremona che via via coi successivi restauri di edifici, con la messa in valore delle sue raccolte, è prossima a ridiventare centro artistico e storico impareggiabile, e attrattiva irresistibile per gli italiani e per gli stranieri”. Eppure solo dopo un anno si era già pronti a mettere nuovamente mano ad un altro corposo intervento di “modernizzazione”che avrebbe dovuto interessare la decorazione del grande salone, con il coinvolgimento del pittore Antonio Rizzi. Il progetto, che avrebbe comportato una serie di affreschi lungo le pareti del salone e sul soffitto, non fu mai realizzato. Se ne trova traccia nel corposo epistolario intercorso tra l'artista e il suo pigmalione, Illemo Camelli, maggiore sponsor del nuovo progetto che avrebbe dovuto rimarcare in modo più esplicito i legami storici intercorrenti tra il nuovo assetto politico fascista e l'autonomia comunale medievale. Scrive infatti il 7 marzo 1928 Rizzi rivolgendosi a Camelli: “Credi potranno bastare per la decisione del podestà i due schizzi prospettici della sala portati in gennaio? Io credo, invece, che sarà necessario presentare i bozzetti delle singole composizioni. Il partito delle tavole si presta a svolgere il tema in modo assai distinto ed originale ma aumenta anche le difficoltà della trattazione e della scelta dei soggetti. Vi ho pensato un poco in questi ultimi giorni: dopo lunga meditazione le mie conclusioni sono queste (e le dico perchè ti desidero complice corresponsabile per quanto, almeno, concerne la scelta dei soggetti): I. Che non si possa rinunziare all'aneddoto per quanto questo si renda più difficile nella forma decorativa della tavola. II. Che convenga scegliere gli aneddoti in quel periodo comunale che culmina colle figure del Palavicino e del Dovara e germina colla ricostruzione della città dopo la distruzione di...di...fatta da Agilulfo (?) mi pare”. Secondo il progetto presentato dal Rizzi i soggetti sarebbero stati dieci: un'allegoria della città (“a scartamento ridotto”, sottolinea Rizzi), la ricostruzione della chiesa di San Michele con la figura della regina Teodolinda, l'assalto alle rocche del vescovo Landolfo nel 1030 che segna l'inizio della vita comunale, il convegno di Cremona nel 1167 poco prima di Pontida, il Carroccio, la partenza della nave (“detta la Buza”) nel 1189 alla volta di Gerusalemme, la Consacrazione della Cattedrale nel 1190, il vescovo Sicardo in quanto pacificatore tra il popolo della città vecchia e quello della città nuova, i ritratti di Uberto Pallavicino e Buoso da Dovara a cavallo con il palazzo di Cittanova sullo sfondo e in uno scomparto inferiore “la figura di Ezzelino rabbiosamente morente in carcere, concludendo con la costruzione del Torrazzo. “A me sembra che questi dieci soggetti siano tutti artisticamente belli – concludeva Antonio Rizzi – e riassumano il periodo comunale di Cremona che è anche, credo, il periodo più saliente o almeno più interessante di tutta la sua storia. Desidero però il tuo visto e la tua approvazione od, eventualmente, qualche tuo migliore suggerimento o consiglio prima di cominciare a studiare la forma (sebbene la forma già me la veda tutta, vagamente, in testa) poiché io di storia non me ne intendo”. Due bozzetti per la riforma del salone superiore del palazzo Cittanova sono conservati nei depositi del Museo Civico, attualmente in comodato presso la Prefettura di Cremona. Nello stesso periodo l'artista cremonese si stava occupando anche della decorazione della Sala della Consulta nel palazzo comunale, deliberata alla fine del 1927, per la quale realizzò l'ovale della volta di impronta settecentesca con otto tondi in cui raffigurò l'allegoria del Buon governo sulle orme del Lorenzetti nel palazzo pubblico di Siena, e quattro grandi pannelli che celebrano le glorie cittadine e le sue risorse economiche del territorio: la tradizione pittorica e quella musicale; le personalità politiche, religiose e letterarie, e i lavoratori dell'agricoltura e dell'industria. Il ciclo figurativo di palazzo Cittanova, dunque, avrebbe potuto costituire il pendant di quello comunale, collegandosi, anche idealmente, all'idea della rinascita politica ed economica determinata dal nuovo buongoverno fascista.

Il secondo bozzetto di Rizzi per il Cittanova
In realtà Rizzi aveva già presentato a Cremona due bozzetti alla fine del 1926 o nelle prime settimane del 1927 che non avevano avuto l'accoglienza sperata, motivo che l'artista imputa alla fretta con cui sono erano stati predisposti, come scrive lui stesso in una lettera a Camelli del 21 febbraio 1927: “Ho letto sul 'Regime' di venerdì un tuo articoletto sul palazzo di Cittanova e sento con piacere che i lavori volgono al termine. Mi pare tuttavia che, per quanto riguarda gli affreschi tu cominci a parlarne alquanto freddamente. Penso che forse è male io abbia lasciati a Cremona quei due piccoli schizzi fatti in tutta furia in poche ore come per dire: vedrei, press'a a poco, una cosa così e così; schizzi che, se presi alla lettera, non possono aver dato luogo che ad una infinità di critiche. E si capisce. Quest'anno, per me, riguardo al salone, è stata una vera fatalità: mentre credevo avere un'annata libera da altri impegni, come mi avvenne negli anni scorsi (ed a quest'ora il progetto sarebbe tutto pronto al completo) non ebbi mai un momento di respiro ed al palazzo non mi fu più possibile pensare. Ora, nel marzo, spero poterci ripensare e completerò subito il progettino della parete grande, poi te lo manderò o te ne manderò fotografia e quindi proseguirò, in quel tempo che potrò disporre, allo studio delle altre pareti”. Rizzi si mostra molto interessato alla realizzazione, anche se, con estremo scrupolo, non manca di esternare la propria preoccupazione per l'assetto definitivo del salone, comprendente anche gli arredi che avrebbero dovuto armonizzarsi con il ciclo affrescato. E si dice disposto a rinunciare ad altre commesse pur di eseguire l'importante lavoro cremonese, a patto che all'ombra del Torrazzo si esca dall'incertezza. “Ma vorrei sapere anche se qualcuno ha già pensato al rivestimento in legno – scrive - al motivo delle finestre e del fregio, perchè questi ultimi due specialmente vanno armonizzati per forma e colore colle storie delle pareti ed io nel mio progettino ci ho pensato a modo mio e mi sembra anche in modo che non possa spiacere agli architetti archeologi di Milano. Ad ogni modo è bene intendersi poiché si tratta di un'opera che a volerla abbracciare riempiendo le pareti di macchie di colore come si trattasse di una festa per Carnovale, con molti aiuti, si potrebbe fare anche in un mese o due ma a volerne poi fare un'opera d'arte che possa rimanere negli anni o nei secoli, se non ci vogliono due secoli ci vogliono certo degli anni. Bisogna tu mi dica chiaro quali sono le intenzioni dei padroni di Cremona, quali le intenzioni della Sovrintendenza: In aprile od in maggio avrò una nuova visita di quei negozianti d'arte di Boston che mi diedero lavoro quest'anno scorso. Potrebbero darmi altre ordinazioni. Se io so di dover fare quest'opera grandiosa a Cremona rinuncio alle ordinazioni eventuali (sebbene si tratti di gente che non paga molto, o, ma puntualmente alle consegne) ma non mi converrebbe rinunciare se le cose di Cremona dovessero continuare a nuotare in un mare di incertezza”.

In attesa di conoscere quale siano le intenzioni della Soprintendenza, Rizzi fornisce le sue indicazioni sul rivestimento in legno che dovrebbe correre lungo le pareti: “Ti accludo già disegnato all'ingrosso il disegno dello stesso quale è nel mio progettino – scrive a Camelli il 31 marzo 1927 – Così com'è, coll'interruzione ogni cinque o sei scomparti di una targa piatta che richiama il motivo del fregio araldico ricorrente in alto e rompe la monotonia, fa bene nell'insieme e così desidererei che fosse. Quanto all'altezza esso deve terminare esattamente col margine inferiore delle finestre perchè le pareti frescate non devono essere bordure dipinte in basso (non facciamo una contraffazione dell'antico, siamo intesi, neh) e le scene figurali devono essere tagliate in basso precisamente dal rivestimento in legno. Ciò è segnato anche nel primo sommario schizzo che tieni. Il sedile io l'ho completamente abolito. Desiderei essere informato del disegno fatto dalla Sovrintendenza per un accordo”. L'attenzione dell'artista è addirittura maniacale e lo spinge ad aggiungere, in una cartolina postale scritta poche ore dopo: “Ti rammento che anche il colore delle parti in legno del Salone è indispensabile sia bene intonato a tutta la decorazione. 'Tinta di legno vecchio' – sottolinea – hai detto, e sta bene, ma le tinte di legno vecchio sono molte, dal color cioccolato al color tortora. Qui occorre il colore di un legno noce, di tono dorato, non verniciato. Parlo come se il lavoro si dovesse fare perchè, malgrado tutto, spero ancora si faccia”. Il 7 aprile Rizzi annunciava a Camelli che sarebbe stato presente all'inaugurazione del salone restaurato di palazzo Cittanova ed in tale occasione avrebbe portato due bozzetti, uno dell'allegoria e uno della finestra di uno dei due lati lunghi. “Non voglio però tu mi dia del toscano più di quanto ne merito”, aggiungeva riferendosi alla meticolosità nel descrivere i particolari che avrebbe dovuto avere la zoccolatura, della cui resa l'artista sembra molto preoccupato. “Io ero partito dall'idea di abolire completamente il sedile e per questo avevo mantenute le riquadrature chiodate molto comuni in alta Italia. Verona per es. ne è piena ed anche il motivo della targa applicata alla riquadratura (l'ho vista in alta Italia e,se non erro, a Verona o giù di lì. Ad ogni modo di queste quistioni nessuno se ne può intendere meglio della Sovrintendenza. E' certo però che se nelle pitture volessero una imitazione di stile vera e propria, rinuncerei”.

Sorge, però, un altro problema: la chiusura dell'apertura presente sulla sinistra della parte di fondo, dove oggi sono collocate le scale che conducono all'ascensore, che il pittore vorrebbe eliminare: “Questo sì è veramente un punto sul quale non potrei assolutamente transigere. L'otturazione di quella apertura era già stata concessa e convenuta di comune accordo coll'architetto Perrone sino al prima sopralluogo al palazzo nella primavera del '25, ricordi? Se quell'apertura non si chiudesse la parete principale coll'allegoria sarebbe fritta in padella!...E'stata chiusa? Ci scommetto che no. Ma bisognerà pensarci subito, tanto subito che anche architettonicamente par sufficiente la traccia all'esterno di quella foratura”. Ma la parete di fondo non può essere modificata con l'eliminazione dell'apertura, destinata originariamente a condurre all'arengario poi eliminato, ed allora Rizzi punta i piedi. Ha già pronti “tre disegnetti acquarellati su cartaccia qualsiasi”, sufficienti però a chiarire l'idea dell'artista in merito alla decorazione del salone, e non è disposto a rinunciare al proprio progetto. “Ciò significa in modo lampante che tutta la decorazione figurale modernista 'anche del più spinto modernismo' (così dicevi tu ultimamente) non ha più ragion d'essere. Nel 1200 non usavano tanti fronzoli, bastavano le pareti nude. Seguendo quest'ultimo criterio è ben certo che il mio progetto potrebbe anche esser giudicato, magari, un cinematografo ma io chiedo allora (silicet parva ecc.a) che cosa sia tutto Giotto se non cinematografo. Cinematografo sì, ma con tanta arte in più che il mobile spettacolo delle films non potrà mai avere; e ciò per quella completa assenza di stile che ha, in se stessa, la realtà nuda e cruda. Siamo d'accordo? Riassumendo: come posso io rinunziar alla soppressione (internamente) dell'apertura per l'arengario se questa mi rovina in pieno la composizione della grande allegoria? Più semplice rinunziare all'impresa: si gira internamente un rubinetto e...non se ne parla più”. Rizzi d'altronde si era sempre detto contrario a qualsiasi falsificazione storica dell'antico, “per quale non sprecherei un'ora sola del mio tempo esistendo per la bisogna decoratori abilissimi, specializzati, al servizio della Sovrintendenza”, sognando “di poter fare un importante lavoro di carattere popolare e narrativo come questo, parlando al pubblico semplicemente, spontaneamente come il cuore detta”. Si pensa allora di rivedere il progetto originario, riducendo il ciclo affrescato ad una serie di ”quadri figurali” per aggirare l'ostacolo. Ma Rizzi non sembra disposto a sentir ragioni. “Dici bene che la decorazione deve servire l'architettura e non viceversa - scrive a Camelli l'11 maggio 1927- ma ripeto che, per le precedenti intelligenze, ho sempre calcolato quell'apertura come soppressa. Questo il nodo della quistione che ha provocato i miei strambotti più che plausibili, del resto. Ora mi spieghi chiaramente che Sovrintendenza e pubblica opinione sono contrarie ad una decorazione di lusso ma che il Comune, ciò malgrado, vuol farmi l'onore dell'incarico di una serie di soggetti ecc.a. Ed è onore veramente troppo superiore ai miei piccoli meriti ma anche doppia responsabilità tanto più che a tirar le somme di una preventivo (coi prezzi tuttora vigenti) si monta ad una cifra non differente. Di tutto parleremo presto a Cremona. V'ha un punto della tua lettera alquanto oscuro ove dici che non debbo decorare il salone da cima a fondo come un pittore di stanze ma pensare solo ai soggetti figurali. Sarà bene per me ma, dato il carattere dell'ambiente (il qual andrà pur rispettato) non possono concepire i quadri figurali disgiunti da una ossatura (sia pur semplice) ornamentale”.


A giugno, l'ultimo colpo di scena, a cui Rizzi, però, mostra di non prestar fede, aggiungendo altre considerazioni personali sui gusti artistici della committenza di regime: la presenza di possibili problemi strutturali proprio alla vigilia dell'inaugurazione ed a restauro ultimato, con la rescissione del contratto con l'impresa esecutrice dei lavori. “La cosa mi par tanto carina, tanto geniale che il dispiacere si risolve in riso”, è il commento dell'artista. “Potrei dirti che me lo aspettavo, specialmente ora, dopo la raccomandazione del Duce ai podestà di economizzare nelle spese; ma me lo aspettavo anche perchè so come camminano le cose dell'arte in questo momento di trionfo novecentista e quali siano le direttive che vengono dall'alto... Potrei citarti altri esempi del genere, recentissimi. E' deplorevole che un'alta e quadrata mente quale è quella del nostro Duce non abbia per le cose d'arte quella matura competenza che occorrerebbe per reggere il timone di questa barca e finisca poi col trovarsi dominato da timonieri e...timoniere che non so in quali acque faranno condurre il naviglio. Io non sono un misoneista; anzi guardo tutto serenamente, senza preconcetti e (secondo la mia comprensione) ciò che mi par nuovo e bello lo ammiro con entusiasmo, quando non è degenerazione. Ma vorrei tu vedessi, ad esempio, la maggior parte delle tele esposte qui alla mostra degli avanguardisti del 'Sindacato' e della 'Casa del Selvaggio'!!...Parola d'onore che certi dipinti li può fare anche la mia servotta che non conosce altra tecnica che quella del lavandino. Eppure sono queste le esposizioni oggi portate ed incoraggiate ufficialmente dal Governo con elogi, quattrini ed acquisti. Per concludere: credo che se invece del mio umilissimo nome si fosse trattato di qualche luminare del tipo Carrà, Soffici, Rosay e quant'altri insomma che abbiano già date serie prove di negazione assoluta per mestiere del pittore, anche l'ingegnere capo del Genio civile avrebbe trovata solidissima la statica del palazzo di Cittanova. Se mi sbaglio me lo dirai”. Rizzi tuttavia spedì ugualmente quattro fotografie dei bozzetti che aveva già pronti, avvertendo che si trattava solo di schizzi di massima. La prima era un'allegoria della città con in alto “la figura simbolica della città colla impresa erculea, l'asta e l'ulivo ed il fascismo giovinetto, circondata dai santi protettori e da un nimbo di gloria. In basso l'agricoltura espressa con una scena realistica delle sfogliatrici di granturco. A sinistra il gruppo dei cremonesi celebri (in fondo, a cavallo gli antichi signori di Cremona). Presso la finestra...il Torrone e la Mostarda e, a destra, i cavalli”: La seconda raffigurava la prima finestra sul lato verso la piazza con il congresso di Cremona del 1167, la terza la seconda finestra verso la piazza con l'insurrezione contro il vescovo Landolfo e la pacificazione fra le due città e la quarta il banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Alcuni di questi soggetti vennero ripresi in una successiva proposta presentata a marzo del 1928, l'ultima prima del definitivo abbandono del progetto. La decorazione, come sappiamo, non fu mai realizzata e Rizzi in altra lettera attribuì questa decisione ad un ostracismo politico, in quanto non iscritto al sindacato corporativo fascista. I motivi, in realtà, sembrano essere di ordine economico: il 17 agosto 1927 la Sovrintendenza all'arte medievale e moderna rifiutò un ulteriore finanziamento di 20 mila lire per il palazzo Cittanova. Rizzi non si diede per vinto e, probabilmente su suggerimento di Camelli, presentò nel marzo dell'anno successivo un ulteriore progetto, che restò lettera morta. Del Cittanova non si parlò più ma l'artista ebbe l'incarico di dipingere la sala della Consulta di palazzo Comunale, dove utilizzò alcune delle idee che non era riuscito a concretizzare nel salone del Cittanova.

I soncinesi che fecero grande Trieste

La cattedrale di San Giusto a Trieste
E' un legame antico quello esistente tra Cremona e Trieste. Basti pensare che, secondo la tradizione, si fa risalire il toponimo Servola ai soncinesi chiamati dal vescovo cremonese Rodolfo Pedrazzani, originario di Robecco d'Oglio, tra il 1301 e il 1320 per attendere alla cura dei campi nella sua villa di Sylvula, come il promontorio era chiamato fin dai tempi romani. Altri vogliono invece che gli abitanti di Soncino venissero richiesti per terminare la cattedrale di San Giusto, data la loro abilità nel lavorare la pietra. Sarebbero stati proprio loro a realizzare il grande rosone, seguendo il modello rappresentato da quello del duomo di Cremona, realizzato nel 1274, negli anni in cui Pedrazzani vi era canonico. Ma vi è anche un documento del 1330 che parla di un pagamento di 24 soldi patriarcali per aver fornito quattromila pietre al comune triestino ad un certo Morandino da Robecco, evidentemente chiamato dal vescovo compaesano per sopperire alla carenza di “picapreda” necessari a portare a termine la grandiosa ricostruzione del duomo. Sia i soncinesi che i robecchesi esperti nella lavorazione di pietra e marmo provenivano probabilmente dalle zone prealpine bresciane, ricche di cave e miniere e la loro presenza doveva essere abbastanza radicata in quel di Servola, visto che i loro discendenti erano chiamati “Sancin” o “Sanzin” ancora nel 1648, anno a cui risale la prima testimonianza scritta. Di certo per oltre mezzo secolo, sul far del Trecento, i cremonesi, chiamati, ma più spesso spinti in Friuli dopo essere fuggiti dalla loro città, furono protagonisti indiscussi della vita politica, sociale e culturale della regione. Ad iniziare da Rodolfo Pedrazzani.
Rodolfo Pedrazzani, nominato vescovo di Trieste l'8 agosto 1302 da papa Bonifacio VIII su indicazione del suo amico ed estimatore, il patriarca di Aquileia Ottobono de' Rovari-Feliciani, originario di Piacenza, era nato a Robecco verso la metà del Duecento. Nel suo stemma di famiglia, dove campeggia un camoscio su un monte verde, sono ricordate le probabili origini montane, comuni a tanti scesi in pianura in quegli anni alla ricerca di lavoro. E la fortuna non dovette mancare alla famiglia Pedrazzani, che dal 1246 al 1420 conta sei decurioni nella Magnifica Comunità di Cremona, tra cui Ruggero, che nel 1264 fu eletto dai senatori tra i Comandanti del Corpo di milizia urbana e nel 1270 figura con altri sedici consiglieri nel governo del quartiere di Porta San Lorenzo. Nel 1288 il nostro Rodolfo figura Dottore dei decreti, Protonotaro apostolico e Canonico della Cattedrale, cioè, a differenza dei suoi predecessori esperti nell'uso della armi, laureato in diritto canonico, un corso che era possibile seguire solo a Bologna, Reggio Emilia o a Padova. E' probabile che la scelta fosse caduta su quest'ultima università, già frequentata in quegli anni da altri cremonesi, come Guglielmo da Enrigino, ricordato come “decretorum doctor” e poi decano di Aquileia tra il 1307 ed il 1352 e da Giambonino da Gazzo. A proposito di Guglielmo, questi era fratello di Giuseppe e di Sapere, il cui figlio, pure chiamato Guglielmo, divenne a sua volta canonico (1331) e poi decano del capitolo della cattedrale aquileiese (1360-1367). Giuseppe ebbe almeno sei figli, legittimi o naturali: Odorico (“natus”, cioè figlio naturale), Giovanni, Francesco, Nicolò, che nel 1341 risulta essere canonico di Udine, e Guglielmo (“natus”), anch’egli canonico di Udine nel 1343. La famiglia era di origine cremonese, ma probabilmente dovette lasciare la patria poiché legata ai della Torre milanesi, che furono sconfitti dai Visconti nella lotta per il controllo della metropoli lombarda. Giuseppe forse insieme con il fratello Guglielmo, entrò così a far parte della clientela di Pagano, vescovo di Padova dal 1302, e uno fra i maggiori rappresentanti dell’ampia consorteria familiare dei della Torre. Non è escluso che a Padova Giuseppe abbia frequentato scuole di grado superiore e forse anche di tipo universitario, come certamente fece il fratello Guglielmo. Di sicuro egli fu notaio e dal 1306 fu al servizio della curia del vescovo Pagano. 


Dunque tra Aquileia, Udine, Trieste e Padova la presenza cremonese era richiesta, fortemente radicata e strettamente partecipe delle vicende politiche di quella regione.
Lo stesso Rodolfo, d'altronde, quando giunse a Trieste nel 1302, venne accompagnato da un nutrito gruppo di “familiari” che non necessariamente erano persone legate al vescovo da stretti vincoli di parentela, ma tutti quelli che componevano il suo seguito, dipendenti o familiari che fossero, tutti ovviamente robecchesi. Non c'è da stupirsi per la presenza di tanti lombardi tra Aquileia, dove aveva sede il patriarcato, e Trieste che vi era soggetta. Già da molti anni la Santa Sede, riservandosi il diritto di nominare il patriarca, aveva cercato di rafforzare il fronte anti-imperiale e guelfo in una regione periferica strategica per gli equilibri politici italiani. La scelta dei pontefici, ultimo tra questi Bonifacio VIII, era dunque caduta su elementi fidati, di formazione curiale romana e del tutto estranei al contesto feudale friulano, legato all'imperatore e ai suoi fedelissimi, i conti di Gorizia. Ottobono, patriarca di Aquileia, e Rodolfo, fanno parte di questa folta schiera di presuli convinti sostenitori della dottrina teocratica e della linea politica di papa Caetani. Una delle prime azioni intraprese da Rodolfo è la ripresa dei lavori per integrare e unificare tra di loro le due chiese gemelle di Santa Maria Assunta e San Giusto in un'unica cattedrale, già iniziata dai suoi predecessori, ma che ora ragioni di fede, di immagine e prestigio spingono ad ultimare. Rodolfo con il suo impegno ed il suo zelo si conquista l'apprezzamento del metropolita Ottobono, che lo aveva “raccomandato” a Bonifacio VIII, e ora lo gratifica rendendolo partecipe di importanti momenti pastorali e politici, inasprendo, però, il risentimento che già covava nei suoi confronti il vescovo di Padova Pagano della Torre, per essergli stato preferito dal pontefice alla sede di Aquileia.
E qui il cammino del vescovo Rodolfo Pedrazzani, poi morto il 7 marzo 1320, si incrocia inevitabilmente con quello dell'altro grande cremonese destinato, qualche anno dopo, a diventare decano aquileiano.
Il rosone di San Giusto

Guglielmo da Enrigino nacque probabilmente negli anni Ottanta del Duecento, da famiglia cremonese. La data può essere ipotizzata osservando il suo curriculum universitario, dove infatti è qualificato come “doctor decretorum”, titolo senza dubbio conseguito nello “Studium” di Padova, città nella quale compare in diverse riprese anche dopo essere approdato in Friuli, fra il 1308 e il 1309 e poi fra il 1311 e il 1312, e dove verosimilmente si trovava per studiare diritto canonico. Il suo arrivo in Friuli avvenne durante gli anni di governo del patriarca Ottobono (1302-1315), che era stato prima vescovo di Padova, ma Guglielmo era legato soprattutto a Pagano della Torre che subentrò a Ottobono quale vescovo della città euganea e divenne a sua volta, nel 1319, patriarca. Del resto Pagano aveva mantenuto saldi rapporti con il Friuli e, tramite i suoi parenti, interferiva costantemente nelle questioni della Chiesa aquileiese. Che la famiglia di Guglielmo fosse vicina alla consorteria dei Torriani è confermato dal fatto che il fratello Gabriele fu, come abbiamo visto, notaio e scriba di Pagano durante l’episcopato padovano, per poi accompagnarlo ad Aquileia insieme con una numerosa “familia” costituita per lo più da lombardi, soprattutto cremonesi. Ed è appunto in armonia alle fortune di questo nutrito gruppo di persone provenienti dalle città lombarde, affluito in Friuli fin dai tempi di Raimondo della Torre (1274-1299) e forse anche di Gregorio di Montelongo (1252-1269) e ingrossatosi nel primo Trecento, che si colloca anche la vicenda di Guglielmo.
Egli, si può dire, rappresenta più di ogni altro il profilo dell’élite dirigente forestiera che si impiantò in Friuli, spesso, come è stato per gli operai di Soncino, per radicarvisi definitivamente. Non si trattava solo di parenti e di “fideles” dei patriarchi, ma anche di un personale preparato su un piano culturale e giuridico e pronto a soddisfare le esigenze e le pratiche di governo e amministrative della chiesa aquileiese: un personale non facilmente reperibile in Friuli. La conseguenza fu la progressiva estromissione del gruppo dirigente friulano dai posti di comando e dai benefici più redditizi del patriarcato. Esso fu appunto sostituito da questi personaggi, che venivano compensati per i loro servigi con un plebato, un seggio o una dignità capitolare, una prelatura o, se laici, con beni di natura beneficiale-feudale. In tale contesto la carriera di Guglielmo ad Aquileia fu particolarmente brillante e raggiunse presto il suo apice, mai poi superato. Il 21 maggio 1307 il vescovo Pagano della Torre comunicò al patriarca Ottobono e al capitolo della cattedrale che il decanato di Aquileia, vacante, era stato riservato dal legato papale Napoleone Orsini a Guglielmo, figlio naturale (“natus”) di Enrigino da Cremona, allora arciprete della chiesa di S. Maria di Sarmazza di Padova, e intimò loro di accoglierlo entro sei giorni e a conferirgli il possesso della prebenda. Da quel momento Guglielmo resse il decanato per più di quarant’anni, cumulando anche un canonicato a Cividale. Una responsabilità non da poco, perchè egli ricopriva la seconda dignità ecclesiastica della diocesi, dopo quella dell’ordinario, e, vista la particolare sovrapposizione di poteri spirituali e temporali dei patriarchi, spesso si trovò costretto ad agire su più fronti. La sua azione è testimoniata da numerosi documenti, per lo più inediti, compresi nei protocolli dei notai di curia, ma è sinteticamente resa in una breve nota biografica vergata sul necrologio della cattedrale di Aquileia, che ne attesta la stima e l’onore con cui era considerato dai suoi confratelli.


A partire da tale ricordo, si può riassumere la pluridecennale permanenza friulana di Guglielmo secondo tre filoni: uno politico-istituzionale, uno ecclesiastico-religioso, uno culturale. I primi due sono sicuramente meglio documentati, ma il terzo è forse quello che potrebbe riservare maggiori sorprese. Per gli obblighi della sua dignità, Guglielmo era tenuto ad assistere con assiduità il patriarca e gli episodi di collaborazione non mancano e testimoniano una fedeltà che rimase salda sotto i patriarcati di Ottobono, Gastone e Pagano della Torre, Bertrando di Saint-Geniès, Nicolo di Lussemburgo, anche se mostrò la migliore intesa specialmente con Pagano e con Bertrando. Pagano impiegò più volte il decano come ambasciatore o nunzio nelle continue guerre e trattative che lo opponevano ai conti di Gorizia o a Venezia, soprattutto per le questioni istriane, fra il 1330 e il 1331, nelle quali egli diede prova di capacità diplomatiche, sebbene condizionate dalla endemica fragilità degli accordi e dei compromessi che venivano continuamente raggiunti e infranti. Bertrando, quasi alla fine del suo patriarcato, si rivolse a Guglielmo in una celebre lettera nella quale ricapitolava la sua azione di governo. Il documento a suo modo dichiara il grado di partecipazione che a quell’opera aveva prestato pure il decano, lodato dalla nota obituaria per aver difeso «viriliter e tamquam verus pugil eiusdem ecclesie» i diritti minacciati dai nemici esterni, Veneziani e Trevigiani avanti gli altri. Tuttavia i momenti di maggiore impegno sul piano politico toccarono a Guglielmo durante le vacanze della sede patriarcale succedute alla morte di Ottobono, nel gennaio del 1315, e di Pagano nel dicembre del 1332. Nella prima circostanza egli fu affiancato dal conte Enrico di Gorizia, che fungeva da capitano generale per il Friuli, nella seconda, sia pure solo per pochi mesi, dal nunzio papale Pietro “de Talliata”. In entrambe le evenienze, che si protrassero per molti mesi, benché fra mille difficoltà, seppe traghettare le sorti del patriarcato nelle mani del nuovo ordinario («rexit et gubernavit laudabiliter et potenter», scrive l’anonimo autore del suo elogio), allacciando subito con lui rapporti di fiducia. Sotto il profilo più propriamente ecclesiastico-religioso ,Guglielmo seppe innanzi tutto tutelare e aumentare i redditi del proprio capitolo, acquisendo per la prebenda decanale la pieve di Trivignano e lasciando una notevole quantità di legati pii ad utilità dei suoi confratelli. Fra il 1330 e il 1339 Guglielmo promosse una delibera capitolare che razionalizzava la complessa macchina della celebrazione degli anniversari del capitolo e dava regole precise per la suddivisione degli introiti, materia che suscitava continue liti. Sono inoltre ricorrenti suoi interventi per mantenere la disciplina capitolare. Egli partecipò ai sinodi diocesani e ai concili provinciali convocati dai patriarchi, fra i quali spiccano quelli del 1335 e del 1339 ove con una larga adesione dei vescovi suffraganei fu redatta una legislazione provinciale, che rimase sostanzialmente immutata fin dopo il concilio di Trento. Nel 1325 Guglielmo donò “pro anima” al capitolo una mezza marca aquileiese, da pagarsi annualmente in perpetuo, in occasione della festa delle quattro vergini aquileiesi Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma, per retribuire i partecipanti all’officio divino che si stabiliva di celebrare. A prima vista si tratta di un normale lascito devoto, tuttavia esso forse non era estraneo a un orizzonte diverso, nel quale si contemperavano religione e cultura, intesa nella sua ricaduta artistica. A questo periodo, infatti, viene normalmente datata la realizzazione dell’arca delle Vergini aquileiesi, ascritta a un ampio programma di committenza monumentale pensato da Pagano della Torre, che sarebbe stato ben consapevole pure delle sue valenze ideologiche e propagandistiche. Guglielmo viene descritto come «elegancia moribus et scientia inter alios excellens et conspicuus»: al di là delle lodi di maniera per un defunto, forse in lui si può riconoscere uno degli ispiratori o dei compartecipi della “politica” artistica di Pagano e una sensibilità culturale che, sia pure ipotizzabile per il suo cursus di studi, era rimasta sinora in ombra. Guglielmo morì ad Aquileia l’8 febbraio 1352, non prima di aver favorito la carriera di un omonimo nipote, figlio di ser Sapere, canonico aquileiese dal 1331 e anch’egli decano fra il 1360 e il 1367. E, come lui, di origine cremonese

giovedì 29 dicembre 2016

Ho visto l'orrore, dieci anni dopo

Nel 1956 Adriano Andrini, ex partigiano con il nome di battaglia “Primo” e poi “Rino”, dal 1957 al 1961 assessore alle finanze nella giunta comunale del sindaco Arnaldo Feraboli, fu uno dei primi italiani a mettere piede nel campo di sterminio di Mauthausen a pochi anni dalla sua chiusura. Ne ricevette un'impressione fortissima e decise di scrivere alcune note per lasciare traccia della sua personale esperienza, che poi replicò un paio d'anni dopo visitando il lager di Auschwitz, ed ancora nel 1961 inviato dal sindaco Vincenzo Vernaschi con il vicesindaco Mario Coppetti ed il consigliere comunale Marchesini in occasione di un pellegrinaggio internazionale a Dachau. Di quel viaggio venne pubblicato nel 1995 un resoconto in un libretto intitolato “Pellegrini a Dachau”, pubblicato nel 1995. In occasione dei venticinque anni dalla scomparsa di Andrini, avvenuta il 21 settembre 1991, e dei 60 anni da quel primo viaggio, Mario Coppetti, con l'aiuto di Giuseppe Azzoni e dei due figli di Andrini, Maurizio e Gabriele, è riuscito a recuperare anche il dattiloscritto con gli appunti dei primi due viaggi che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire un'unica narrazione intitolata “Tre viaggi nel passato” che Andrini aveva pronto per dare alle stampe, curandone la pubblicazione. I tre racconti costituiscono una testimonianza eccezionale e drammatica perchè a guidare i cremonesi nella visita erano le stesse persone che in quei campi avevano vissuto l'inferno dello sterminio nazista, accompagnati spesso dall'imbarazzo e dalla reticenza di chi invece, fino all'ultimo, aveva taciuto. La descrizione dei campi costituisce il fulcro dei tre racconti, dove in realtà di è anche molto altro riguardante il contesto storico e sociale, i compagni di viaggio, le discussioni politiche, la difficile situazione della Germania e dell'Est europeo postnazista.

Mauthausen
 MAUTHAUSEN.
Apparve il custode, armato di una grossa chiave con la quale ci aperse il portone, Entrati, ci guardammo intorno. Il polacco, che era rimasto zitto per alcuni minuti, ci indicò il punto della muraglia, dove i tedeschi, all'arrivo, l'avevano obbligato, con gli altri, a denudarsi – era il febbraio del '45- e, con getti d'acqua gelida, 'disinfestarono i nuovi arrivari, Alcuni non si rialzarono più. Iniziava lo sterminio. Vicino al fabbricato del comando spuntavano ancora le bocche di presa degli idranti, ormai arruginite. Il custode taceva, ma dalle sue espressioni si capiva che i particolari raccontari dal polacco non gli andavano a genio, per cui ci stimolava a muoversi indicando le baracche che si trovavano sulla sinistra del piazzale e ripeteva «Schnell, schnell». Il polacco lo fulminò con lo sguardo e con rabbia, in tedesco, lo invitò ad andarsene, la visita la guidava lui, ne aveva i titoli. Al custode nn restò che tacere e accendersi il toscano.
Arrivammo alle baracche. Sulla porta di ognuna un cartoncino descriveva in quattro lingue, inglese, francese, russo e tedesco, a che cosa era servita e quante persone aveva ospitato. La prima che visitammo era stata utilizzata come bordello, le latre, secondo il cartello e la testimonianza del polacco, avevano ospitato migliaia e migliaia di deportati in un sovraffollamento inumano e in condizioni igieniche paurose. Sui muri delle baracche, sui letti a castello si potevano leggere scritte in ogni lingua. I parenti dei prigionieri, in visita, avevano appeso le fotografie dei loro cari. Quando il polacco entrò nella baracca che l'aveva ospitato restò in silenzio per alcuni minuti poi all'amico raccontò quello che aveva passato lui e gli altri suoi compagni. Dagli sguardi, dai gesti, dal tono della voce traspariva la sua angoscia. Avrò avuto quarant0'anni, vestito senza cura, con la barba di qualche giorno, ma pulito e dignitoso, tratteneva le lacrime. Era certamente un anticomunista, non tornò in patria, forse non poteva e non voleva, la sua posizione non era da invidiare, ma andava rispettata, aveva sofferto e combattuto il nazismo. Ripassammo per il piazzale dell'appello per raggiungere gli edifici in muratura del comando dove i deportati venivano eliminati. Nelle cantine, attraversammo lo spogliatoio che in pratica era l'anticamera della camera a gas, sulla cui porta di accesso un cartello la indicava con la scritta 'Desinfektions-raum', camera di disinfezione; varcammo quella porta e ci trovammo nella camera a gas. Sembrava una doccia collettiva, dal soffitto pendevano ben allineati i bulbi bucherellati. Da recluta avevo visto qualcosa del genere nella caserma di Savigliano.
Il polacco ci indicò dove le SS avevano sistemato le condutture che immettevano il gas ziklon b nel camerone. Condutture che le SS prima di fuggire dal lager avevano fatte togliere da alcuni deportati che, sopravvissuti, testimoniarono ai processi contro quei criminali di guerra. I cadaveri gasati venivano trasportati nel vicino crematorium, un grosso stanzone che sembrava una stalla, e ammucchiati negli stalli laterali. La corsia centrale veniva lasciata libera per il consentire il transito agli incaricati alal cremazione di poter operare agevolmente. Il polacco ci fece notare che l'ultimo forno costruito aveva la bocca della fornace sul retro per dare modo al fochista di mantenere viva la fiamma senza infastidire altri. L'efficienza tedesca si manifestava anche lì e a Berlino arrivavano telegrammi che i camini fumavano ininterrottamente giorno e notte.
Ci mostrarono celle di punizione, di un metro per due, senza finestre, con un pertugio da dove passavano al malcapitato la ciotola con la brodaglia, altre non avevano aperture e il cibo arrivava da un canaletto e finiva in una specie di trogolo. Risalimmo al piano terra, in un locale riservato al culto: lo utilizzavano le SS di fede cattolica o protestante; lo stavano trasformando. I governi o le associazioni di ex deportati vi avevano collocato lapidi o cipi lungo le pareti. Gli italiani erano presenti, i polacchi no. La nostra guida andò su tutte le furie, lanciava improperi nella sua lingua, l'amico che aveva sempre taciuto lo aiutò. La visita stava terminando, il custode e il polacco avevano fatto pace scambiandosi un toscanello. Il custode, dopo averci fatto uscire dal Konzentrationslager, richiuse il portone e ci guidò in un fabbricato dietro la portineria. Entrammo in un grande salone dove sopra letti a castello di tre piani c'erano numerose bare, sul tipo di quelle che vengono usate per le salme dei bambini. Ne scoperchiò una. Conteneva uno scheletro umano, diviso in tre tronconi. Le casse venivano offerte a parenti che avevano avuto un congiunto morto nel lager e che piuttosto di niente si accontentavano di portarsi a casa i resti di un deportato ignoto. Senza formalità veniva inchiodata sulla cassa una targhetta con le generalità dettate dai parenti.
Un incaricato del Municipio comprovava che si trattavadelle ossa di un deportaro deceduto a Mauthausen. Ai passaggi di frontiera nessuno sollevava obiezioni. Il luogo di provenienza inteneriva il cuore del più duro dei doganieri. Se le richieste di resti di deportati venivano fatte da Enti e Associazioni legalmente riconosciuti, dal lager effettuavano spedizioni a domicilio. Mentre gli altri chiacchieravano, io curiosavo. Mi trovai di fronte a una porta con i vetri smerigliati, era chiusa, ma la chiave era nella toppa. Aprii e rimasi sbalordito. Nel salone avevano accatastato scheletri umani, in alcuni punti il mucchio toccava il soffitto. Chiamai gli altri. Il custode intuì quell che avevo visto e mi lanciò una imprecazione gridando «Nein, nein», precipitandosi alla porta che avevo lasciata aperta, la chiuse e ripetè più volte «verboten».
Il polacco parlottò con il custode e alla fine ci fece entrare. Anche loro restarono senza fiato. Secondo il custode le ossa erano di internati seppelliti nelle fose comuni dalle ss e di latri non cremati. Al loro arrivo gli americani ordinarono la chiusura dei forni e i cadaveri vennero sepolti in fosse comuni, Anche i giorni della Liberazione, secondo il polacco, si trasformarono in tragedia. I liberatori, vista tutta quella gente macilenta e denutrita, distribuirono cibo in abbondanza, pochi si controllarono, la maggior parte mangiò troppo e morì di dissenteria e d'altro. Nella strada che scendeva e nelle vie del paese i cadaveri degli internati si contavano a centinaia. Il comandante americano mobilitò tutta la popolazione abile per il ricupero delle salme: temeva un'epidemia e voleva anche che gli abitanti vedessero quello che era accaduto sulle loro teste. Fra questi scheletri vi erano anche quelli deceduti nei primi giorni di libertà. Vicino alla porta, appoggiati alla parete, vi erano dei tavoloni sgombri, chiesi la custode a che servivano. «Ad un gruppo di medici che cercano di ricomporre gli scheletri in base alla statura e al sesso», rispose il custode. In quei giorni i medici nin lavoravano per la mancanza di casse”.

Auschwitz
AUSCHWITZ
“Entrammo in una grande sala, le pareti erano coperte da liste di nominativi delle vittime delle quali era stato possibile accertare l'identità, compito che non fu facile, in quanto, secondo il fondatore del campo, Haupsturmfüher delle SS, Rudolf Franz Ferdinand Hoss, in quel lager vi trovarono la morte 3.000.000 (tre milioni) di persone delle quali 2.500.000 (due milioni e cinquecentomila) passati per le camere a gas. Fu lo stesso Hoss a dichiarare che dal 1943 ad Auschwitz fu possibile gassare giornalmente 10.000 (diecimila) internati. Anche 70.000 prigionieri russi vennero eliminati nello stesso modo...Il custode ci fece entrare in capannoni dove si vedevano ammucchiati abiti da uomo e da donna, scarpe, pennelli da barba, occhiali, spazzolini da denti, utensili da cucina di ogni specie e persino arti artificiali. I tedeschi avevano costruito appositi edifici per custodire tutti gli effetti personali che confiscavano agli internati. I prigionieri all'arrivo venivano dotati di una divisa e classificati con un numero cucito sulla casacca, ma dal 1942 glielo tatuavano sull'avambraccio. Anche lì come negli altri lager venivano usati distintivi speciali. Un triangolo rosso per i politici, verde per i delinquenti comuni, rosa per gli omosessuali, nero per le prostitute e le pervertite, e violetto per i preti. Gli ebrei portavano la stella di David e dopo il 1943 una striscia gialla sopra il triangolo. Compresi dai gesti e dalle parole in francese e tedesco del custode e del tassistache gl'internati non venivano sterminati soltanto con il gas. Li fucilavano e li uccidevano con il colpo alle nuca (Genickhuss). Il medico Endredd, Obersturmführer delle ss, uccise 25.000 prigionieri praticando iniezioni di fenolo. Avevo letto da qualche parte che un certo Fritsch, assistente del campo, diceva ad ogni gruppo in arrivo al lagerla seguente frase: «Vi avverto che non siete venuti in ospedale, ma in un campo di concentramento tedesco, dal quale non si esce se non per il camino». Purtroppo era proprio così”.

Avviso di pericolo ad Auchwitz
DACHAU
“Le strutture interne per gli ex deportati erano irriconoscibili. Alla fine del conflitto avevano subito modifiche. Prima i locali vennero trasformati dagli alleati in prigioni per i criminali, in attesa di processo, e naturalmente essi vollero dare una lezione di civiltà ai tedeschi, ospitandoli in ambienti civili: celle pulite, spaziose, ben areate, luce, riscaldamento, acqua calda e fredda, un letto, un tavolo, una sedia, libri, vitto caldo e abbondante. Non tutti gli ex deportati apprezzarono la lezione degli alleati. Non avevano ancora dimenticato il trattamento avuto dai nazisti. Poi, ultimati i processi, i locali vennero utilizzati come uffici dal personale che smistava i profughi della Germania orientale. Quanto prima – ci dissero – questi ambienti saranno adibiti a museo del lager, ilcui allestimento è già in corso. La guida ci spiegava quali erano le costruzioni iniziate nel 1933, immediatamente dopo la presa del potere da parte di Hitler e i successivi ampliamenti. I nemici del nazismo erano in costante aumento e quindi occorrevano 'Konzentrationslager' sempre più vasti e numerosi. E così, in Germania e nel resto d'Europa, la loro rete si estese paurosamente. Arrivammo nella parte del lager dove gli internati venivano eliminati. Ci mostrarono celle per la tortura e la punizione, po un grande salone, apparentemente uno spogliatoio, confinante con un aòtro salone: una doccia collettiva che, come ormai sappiamo, non era altro che la camera a gas, in un locale attiguo molto vasto il solito deposito per i cadaveri e sul fondo i forni crematori. Nel nostro gruppo un ex deportato, in casacca sulla quale spiccava il triangolo nero degli asociali, ci fece da guida.
Durante gli ultimi mesi della detenzione l'avevano destinato a trasportare i 'gassati' dalle docce* all'adiacente crematorio, e lui ci descrisse nei particolari il suo lavoro. Per essere il più preciso utilizzò una barella di ferro con le rotelle che si trovava presso i forni. Nel muro divisorio tra lo spogliatoio e il crematorio esisteva un pertugio dal quale un 'kapò' appositamente incaricato spiava che nelle docce avvenisse tutto regolarmente. Ad ogni turno il numero delle vittime del gas si aggirava sulle centocinquanta persone. Una volta accertato che il gas venefico aveva fatto effetto, metteva in funzione un aspiratore e quando l'aria si era purificata impartiva l'ordine di trasportare i morti negli stalli laterali del crematorio.
L'”asociale” andò avanti e indietro un paio di volte tra le docce e il crematorio, per dimostrarci come venivano accatastai i cadaveri. Tutto d'una tratto proruppe in singhiozzi, si rimproverava di esseri salvato maneggiando i cadaveri dei suoi compagni di sventura. Anche lì come a Mauthausen l'ultimo forno aveva la fornace sul retro. Passammo in un latro locale nel quale c'era una macinatrice che triturava ossa, e il cui macinato, mescolato con la cenere dei corpi cremati, diventava un fertilizzante che i contadini spargevano nei terreni delle fattorie adiacenti al lager. Finalmente risalimmo alla luce del sole, proprio nei pressi del doppio recinto, quello che allora proteggeva il cuore del campo e nei cui reticolati immettevano l'alta tensione. I racconti tragici non erano ancora terminati. Alcuni presenti ricordavano di aver visto compagni ormai senza alcuna speranza gettarsi contro la rete del recinto e restare fulminati

La visita stava finendo, a gruppi ci si dirigeva verso l'uscita, noi tre, assieme ad uno che parlava tedesco, andammo alle baracche, volevamo sapere da chi erano occupate. Si trattava i profughi dell'est in attesa di una sistemazione con casa e lavoro, sistemazione che era stata loro promessa. Non eran entusiasti di vivere lì, in un affollamento eccessivo, si lamentavano anche del clima, o troppo caldo o troppo freddo, sembravano pentiti di avere scelto la libertà”

mercoledì 28 dicembre 2016

Quelli della galleria Botti

Una mostra sulla “Galleria d'arte Renzo Botti” che per oltre un decennio, dal 1965 al 1976 ha rappresentato un punto di incontro fra le più importanti proposte artistiche del tempo con apporti di artisti stranieri e mostre che spesso hanno costituito un'anteprima rispetto ai circuiti ufficiali. In occasione dei cinquantanni dalla nascita di quell'esperienza l'Archivio di Stato offre da oggi all'attenzione del pubblico un'esposizione con il materiale donato da Gabriella Montaldi Seelhorst, curata da Donatella Migliore. Cataloghi, riproduzioni delle opere, fotografie, anche se sarebbe fuorviante vedere nell’apertura della “Galleria d’arte Renzo Botti” in corso Campi 30 a Cremona, un vezzo o un progetto slegato dall'attività politiche, in quanto il gruppo che si era costituito nel 1965 era legato e connesso a esperienze e discussioni che vedevano Danilo Montaldi da un lato già impegnato sui quei temi politici e ideologici che avevano portato alla pubblicazione di “Milano-Corea”, dall'altro in contatto con il gruppo di “Nuova Figurazione” di Brera e interessato al tema dell'arte considerata come una delle “forme di coscienza” della realtà storica e sociale.
Il rapporto di Danilo Montaldi con l’arte si articola attraverso incontri e amicizie con artisti molto diversi tra di loro: il pittore cremonese Renzo Botti, personaggio pressoché sconosciuto al di fuori di Cremona, o un artista più noto, come Giuseppe Guerreschi, pittore milanese con il quale Montaldi ha avuto uno scambio epistolare molto intenso tra il 1963 e il 1975, anno della morte di Montaldi. È nel 1965 che Danilo Montaldi, insieme ad Ambrogio Barili, fonda il Gruppo d’Arte Renzo Botti e apre una galleria nel centro di Cremona, in corso Campi, la galleria Renzo Botti. “Quello che vogliono fare certi miei amici (tra i quali l'Ambrogio che conosci) – scrive Montaldi in una lettera del 20 febbraio 1965 all'amico Mino Ceretti – sono delle mostre d'arte contemporanea per il momento impostate sulla grafica (disegni, incisioni, ecc.), tenendo conto, cioè, della risposta che può dare il mercato, e per poter stare entro certe spese che assicurino una continuità all'iniziativa. Iniziativa, alla quale aderisco, che tende a riformare un gusto dopo i disastri provocati dal dilettantismo di questi anni e dal falso antiquariato. C'è da rimetterci quattrini, tempo e fegato, ma vale la pena di farlo. Che cosa ne pensi? Il locale è al centro della città, un interno. Può ospitare una ventina di pezzi. Abbiamo pensato di cominciare con Ceretti, Vaglieri, Guerreschi, e vorrei quindi palartene presto per poter mettere in movimento la cosa entro un mese massimo, se possibile. Scrivimi che cosa ne pensi, oppure ne parliamo ai primi di marzo, quando vieni. Non ci facciamo molte illusioni sulle vendite, anzi nessuna, ma darà quello che darà. Soldi qui ne sono stati spesi molti, in porcherie. Perchè non con del materiale di qualità?”.
Furono i disegni di Botti, raccolti scrupolosamente da Montaldi a suggerirgli, come ricorda Fabrizio Merisi, “ad aprire, più che una galleria, una piccola finestra sul mondo, per ricollegarli con la 'Città' (me ne ha dato anche recentemente conferma Ambrogio Barili, a cui Montaldì indirizzò la proposta iniziale di aprire la 'galleria Botti' e che poi di fatto ne fu il conduttore per più d'un decennio)”. L’esperienza della galleria continua fino all’improvvisa morte di Montaldi. La galleria da subito vuole essere un luogo di incontro e discussione. La sua programmazione in origine doveva essere principalmente dedicata alle mostre di opere grafiche. Ma gli interessi e le attività di Montaldi nell’ambito dell’arte sono estremamente variegati e questo si traduce in un programma espositivo molto interessante e originale.
Si comincia col battezzare la galleria con il nome di un artista anarchico e in conflitto con la città stessa – per un periodo Botti si era auto-esiliato in una baracca sul Po, perché non voleva più vivere a Cremona. Si continua, poi, con l’esporre le opere di un gruppo di giovani artisti milanesi, appartenenti alla corrente del realismo esistenziale, tra i quali, appunto, Giuseppe Guerreschi. Ma la galleria ha ospitato anche artisti internazionali, ad esempio un’esposizione di giovani artisti di Mosca nel 1967. Tra questi figura Ilja Kabakov, il quale, proprio in quell’anno, prende in affitto una mansarda nel centro di Mosca, che diventa il centro della scena artistica dissidente. Nel ’68 viene allestita una mostra con una serie di manifesti prodotti all’interno dei movimenti studenteschi parigini, italiani e tedeschi. E nel ’70 si organizza l’esposizione della collezione personale di Danilo Montaldi, delle stampe popolari francesi ottocentesche di Épinal. Ricorda ancora Fabrizio Merisi: “Naturalmente, la decisione di rivelare Botti al mondo conteneva in sé il progetto di cercare, trovare, promuovere i possibili intrecci con i pittori che in quegli anni portavano avanti ideali analoghi, e operavano per renderli vitali attraverso un linguaggio nuovo ed autonomo. I frutti, indubbiamente, ci sono stati. Basta scorrere il calendario delle mostre che si sono susseguite negli anni Sessanta e Settanta alla 'Botti'. Salta agli occhi immediatamente un panorama di estrema compattezza, una sensazione di necessità: vista a posteriori l'attività svolta sembrerebbe obbedire a una programmazione rigorosa. In verità nulla alla 'Botti' è nato come preordinato, per lo meno secondo i canoni cultural-burocratici (è ancora Ambrogio Barili a darcene indubitabile testimonianza). Ogni mostra nasceva come una sorta di concrezione organica; si sviluppava, diversificandosi, da quella precedente, frutto di rapporti determinati dalla naturale forza d'attrazione d'un ben avvertibile, anche se non dichiarato, orientamento, d'una tensione ideale condivisa d'istinto da tutti i componenti del gruppo”.

L'inaugurazione della galleria, nel giugno 1965, fu affidata ad una mostra Mino Ceretti, cui seguirono Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Gianfranco Pardi, Tino Vaglieri, Gianfranco Ferroni. Nel 1967, tra gli altri, è la volta dello scultore Luigi Grosso, del pittore e incisore berlinese Peter Ackermann, Attilio Steffanoni e Attilio Forgioli, poi nel 1969 dello scultore tedesco Joachim Schmettau Tra il giugno '65 ed il novembre '75 la galleria allestì ben nove mostre di Renzo Botti, l'ultima “Ritratti” dopo la scomparsa di Montaldi, avvenuta il 27 aprile nelle acque del fiume Roia presso il confine italo-francese. Ma a proposito della prima mostra, che inaugura una serie di esposizioni a tesi per illustrare il difficile rapporto tra l'artista e la città, lo stesso Montaldi scrive il 30 gennaio 1967: “Qui ha dato fastidio perchè stiamo – noi – prendendo Botti sul serio mentre loro, «loro», magari hanno in casa un quadretto con due vacche e un asino, e lo tengono come un cimelio, e si vantano d'averlo pagato, allora, come due lire e mezza. Mentre per noi Botti, è un pittore, un uomo che pensa e vede. Neanche sul giornale hanno fatto una recensione. Ma lo sapevamo che sarebbe stato così, lo immaginavamo”. Ed è ancora Fabrizio Merisi che ricorda le fasi concitate dell'allestimento: “Facevamo dei veri e propri piani strategici sia per individuare, attraverso i mille rivoli amicali, i proprietari spesso assai misteriosi, sia per selezionare chi doveva essere invitato a chiedere le opere in prestito. Nonostante l'estremo tatto e le finite cautele spesso ricevevamo secchi rifiuti e bisognava tornare alla carica con altri ambasciatori. Bisogna sapere infatti che quasi sempre i possessori dei 'Botti', pur avendo acquistato le opere per poco o nulla, hanno avuto per esse un attaccamento addirittura spropositato”.

Renzo Botti è stato uno degli amici della generazione precedente che sono stati determinanti per la formazione politica e umana di Danilo Montaldi, di alcuni di questi ritroviamo le storie di vita nei suoi libri, Autobiografie della leggera e Militanti politici di base. Botti era nato a Cremona nel 1885, personaggio considerato eccentrico e «marginale» che aveva fatto un breve passaggio all’accademia di Brera. Si definiva anarchico pacifista, ma era finito in guerra in Libia. Intorno al 1942 era stato attivo in un gruppo di antifascisti a Cremona. Viveva poveramente e piuttosto isolato, avendo un rapporto complicato con la sua città, ma esponeva abbastanza regolarmente insieme ad altri artisti locali. Montaldi era molto affezionato a questa figura, che rifiutava di adattarsi all’ambiente piccolo borghese cremonese, ma che possedeva una grande integrità umana e artistica.
Botti muore nel ’53, nel ’54 si allestisce una mostra delle sue opere in città, accompagnata da un catalogo in cui sono pubblicati testi che cercano di dipingerlo come una specie di simpatica curiosità locale, come «l’ultimo dei bohémien». In forte dissenso con questa mostra e con il catalogo esce un testo ciclostilato di Montaldi che cerca di riabilitare la memoria dell’artista in una luce diversa: Conoscere Renzo Botti. Un ciclostilato, come quelli che avrebbe utilizzato il gruppo Unità Proletaria (fondato nel ’57) per i comunicati politici, sul quale compaiono testi di Montaldi, Renato Rozzi, Mario Balestrieri e Luigi Pasotelli. Il contenuto del ciclostilato è stato interamente riprodotto sul catalogo di un’esposizione tenutasi a Cremona nel 1989, che mostrava 100 disegni raccolti e custoditi dallo stesso Danilo Montaldi e donati da Gabriele Montaldi-Seelhorst per l’occasione.
Ma perché Botti è importante per Montaldi? È Mario Balestrieri nell’introduzione al catalogo a spiegarlo: attraverso un parallelo tra la pubblicazione della prima autobiografia, Vita di Orlando P., sulla rivista «Nuovi Argomenti» nel 1955, che sarà poi integrata nelleAutobiografie della leggera, e il testo Il valore di Botti contenuto nel ciclostilato della primavera del ’56. Qui, tra i quattro testi critici, sono intercalati scritti e citazioni dello stesso Botti, elemento che segnerà fortemente lo stile e la metodologia di Montaldi. Montaldi ha infatti la grande capacità di restituire il «tono» della voce di persone che sono protagoniste autocoscienti della loro stessa storia.
I testi critici scaturiti dalla mano di Montaldi accompagnano queste voci e le collocano dentro un contesto storico e collettivo senza annullare una prospettiva soggettiva, dalla quale spesso emerge il lato ribelle di questi personaggi forti, che nella lettrice e nel lettore suscitano un immediato rispetto. Montaldi scrive: «Se il mondo dialettale, nel quale si fonda l’opera vera di Botti, esprime generalmente, come è stato detto, una concezione pessimista in quanto tradizionale, chi come Renzo Botti ne sviluppa fino in fondo le risorse può riuscire a capovolgere i termini creando con ciò stesso un valore, poiché le “tradizioni” sulle quali si fonda l’opera ad esempio di Botti non sono conservatrici, ma segrete e sotterranee in rapporto alla cultura dell’attuale società, da ricercare di conseguenza nell’anima popolare. Lo studio delle sue strutture, riferite all’ambiente e tenendo presenti le nostre ineguaglianze di sviluppo, può avere un esito rivoluzionario».
Il lavoro di Danilo Montaldi su Botti comincia con uno degli scritti dedicati all’artista. Solo più avanti, in occasione dell’apertura della Galleria Renzo Botti, saranno esposte le sue opere. Nello stesso periodo, Montaldi continuerà a lavorare sulla trascrizione degli appunti sparsi di Botti e nel 1975 uscirà un libretto dal titolo Manoscritto. In questo modo di dialogare con gli artisti, con le loro opere e i loro scritti, potremmo vedere una forma di conricerca. È ciò che sostiene Jacopo Galimberti, quando vede in Montaldi, che non si considerava affatto un critico d’arte nonostante abbia scritto molti testi sull’arte, una figura che ha avuto un influsso anche sul lavoro di critica di Carla Lonzi, contribuendo così a quella trasformazione avvenuta negli anni Sessanta nel rapporto tra critica o critico d’arte e artista. Il lavoro fatto alla galleria Renzo Botti va quindi inserito nella prospettiva della riconquista e dell’elaborazione critica di una cultura di classe, e si tratta di un lavoro complementare rispetto a quello delle inchieste. Ancora una volta, nella sua avventura di gallerista, Montaldi ha dimostrato una grande capacità di sviluppare un progetto che è riuscito a mettere insieme esperienze tanto diverse tra loro, come il pittore locale e i giovani artisti nazionali e internazionali, seguendo una linea politico-culturale e costruendo un discorso coerente che, anche in una prospettiva attuale, può continuare a servire da esempio. “Credo che l’attività legata all’arte e alla cultura della libertà avviata sul finire degli anni ‘60 da Danilo Montaldi e Ambrogio Barili assieme a un gruppo di intellettuali cremonesi – sottolinea ancora Merisi nel catalogo della mostra dedicata nel 2014 ad Alfredo Signori- abbia rappresentato una preziosa boccata d’ossigeno nel pesante clima cremonese, facendo emergere dall’isolamento energie sommerse, creando legami esistenziali e scambi culturali con artisti di punta italiani e tedeschi, da Guerreschi a Vaglieri, da Ceretti a Forgioli, da Ackermann a Schmettau”.


Le due case cremonesi del Divin Claudio

Il prossimo anno Cremona celebrerà il 450esimo anniversario della nascita di Claudio Monteverdi. Potrebbe essere questa l'occasione per ricordare, come è stato fatto nel caso della dimora nuziale di Antonio Stradivari in corso Garibaldi, la casa in cui nacque e quella in cui abitò con una lapide commemorativa. Della prima non è rimasta traccia, anche se è stata identificata, non senza polemiche, con l'edificio di via Pallavicino n. 2, posto all'angolo con corso Matteotti. La seconda è posta al numero 25 di via Robolotti, ed è oggi sede di un B&B non a caso dedicato a Monteverdi ed è quella dove morì il vecchio padre Baldassarre. Ormai quasi mezzo secolo fa, quando si celebrò il quarto centenario, nell'identificare la casa natale del Divin Claudio si cimentarono due dei più noti ricercatori cremonesi, il giornalista Elia Santoro con la sua vis polemica, ed il professor Giuseppe Pontiroli, dando luogo ad una battaglia “archivistica” senza esclusione di colpi. Alla fine l'ebbe vinta Pontiroli che riuscì a dimostrare la propria tesi con un ultimo documento, che ben difficilmente avrebbe ammesso repliche. Era la supplica del padre di Claudio, Baldassarre Monteverdi, per realizzare una cantina di poco più di quattro metri di lunghezza verso il palazzo dei nobili Zaccaria, oggi Cavalcabò. Era la prova provata per smentire quanto aveva scritto Santoro qualche settimana prima, identificando la zona della casa natale con l'isolato compreso tra via Cavitelli e via Voghera, qualche decina di metri più avanti. Oggi possiamo ritenere, con una certa sicurezza, che sia proprio questa la casa natale di Monteverdi anche se l'unica traccia rimasta di quella originale è proprio nell'antica cantina. Per capire come si sia arrivati all'identificazione è però necessario fare un passo indietro.
Il busto di Monteverdi dello scultore Mario Coppetti
nei giardini di piazza Roma
Fino al 1967 si sapeva genericamente che Claudio Monteverdi era nato il 15 maggio 1567 nella giurisdizione della parrocchia di San Nazzaro e Celso, come risulta dall'atto di battesimo conservato nell'archivio della parrocchia di S. Abbondio. Lo avevano portato al fonte battesimale i padrini Giovanni Battista Zaccaria e Laura Fina, abitanti nella stessa parrocchia dove il padre Baldassarre si era trasferito dopo il matrimonio avvenuto con Maddalena Zignani nel febbraio 1566. Fino a quella data Baldassarre aveva tenuto in affitto una piccola bottega di cerusico in piazza del Duomo, ereditata probabilmente dal padre Luca, ed una spezieria con due occhi di bottega aprì anche nella nuova casa nel quartiere “Piazano” dove si era trasferito con la moglie. E' proprio sull'identificazione esatta del quartiere “Piazano”, e di conseguenza sulla posizione di questa casa in cui è nato il primogenito Claudio che si è scatenata la bagarre tra Santoro e Pontiroli, combattuta a suon di piante topografiche e di documenti d'archivio che ha avuto il pregio sia di stabilire con una certa esattezza quale fosse la dimora che di arricchire e definire la genealogia dei Monteverdi. Tutto ha origine da un atto di locazione rogato dal notaio Martino de Fino il 15 marzo 1576 da cui risulta che la casa di proprietà di Baldassarre Monteverdi confinava con un'altra che divenne pure di sua proprietà situata “sul cantone de bellefiori della vicinanza de s.to nazaro quarterio piazano”. La locazione riguardava “domum seu petiam terre casatam iacentem in vicinia Sancti nazarii (il particolare è che Sancti Nazarii è stato soprascritto ad omnium sanctorum, dopo averlo cancellato), ac cum occulo appothece curia canepa subterranea ed canepelo putheo ed aliis hedeficiis in ea cui coheret a duabus partibus strata ad alia et ab aliis duabus partibus predictus dominus baldesar”. L'identificazione si è giocata tutta sul significato da dare al termine “cantone”: Santoro riteneva che significasse lo spigolo sporgente rispetto all'altro collocato sull'altro lato della stessa via che si immette in una trasversale, mentre Pontiroli pensava che avesse il semplice significato di angolo di casa posto all'incrocio tra due vie. Sulla scorta del Bordigallo, Pontiroli limitava il quartiere di S, Nazaro a quattro zone: il quartiere Strate recte, il quartiere ecclesie, il plazonorum e il quartiere Poffe Canum. A questa parrocchia seguiva quella di Ogni Santi dove aveva sede la “via noncupata pigolia”, oggi via Luigi Voghera, ma Claudio Monteverdi era stato battezzato nella prima: il confine tra le due doveva essere o nelle contrada Pegolia (via Voghera), oppure in quella Bellefiori, cioè via Cavitelli. La correzione posta dal notaio, sostituendo vicinia omnium sanctorum con Sacti Nazarii, derivava con ogni probabilità dalla facile confusione per la diversa appartenenza parrocchiale dei due cantoni all'inizio della stessa via. Sicuramente, secondo le conclusioni del Pontiroli, al quartiere Piazano apparteneva una parte dell'isolato di case compreso tra le attuali via Girolamo da Cremona, via Pallavicino, corso Matteotti e via Cavitelli. La parte restante apparteneva alla parrocchia di S. Michele Vecchio, in quanto uno stesso isolato poteva appartenere a due parrocchie diverse. Nel censimento del 1576 nel “Quarterio Piazano” si trova residente “ms. Baldesar de monte verdj speciijaro”, nella casa che Pontiroli identificava con il numero 2 di via Pallavicino all'angolo con via Matteotti.
Il B&B Monteverdi in via Robolotti
E' lui che lo spiega: “La casa Monteverdi infatti era confinante con altra, che divenne pure di loro proprietà,sul cantone di Belli Fiori nel quartiere piazano, dopo intricatissime vicende. Trattandosi, per quest'ultima, di casa sul cantone, all'imbocco della strada di Belli Fiori o Pulchri fiori, come è detto altrove, oggi via L. Cavitelli, ho dimostrato trattarsi di quello appartenente al quadrilatero tra il corso Matteotti, via U. Pallavicino, via Gerolamo da Cremona e via L, Cavitelli. Quindi, a mio giudizio, le case, una di cui di abitazione di Baldassarre Monteverdi, a cui s'aggiunge l'altra sul Cantone di Belli fiori, occupavano, di questo quadrilatero, nella parte della parrocchia di S. Nazaro, nel quartiere Piazzano, tutto il lato dell'odierno corso Matteotti e non il lato, di altro quadrilatero, tra via L. Cavitelli e via L. Voghera, un tempo Pegolia, in quanto quest'ultimo tratto era sotto altra parrocchia nel 1576. Questo secondo le informazioni del censimento spagnolo, e così, nel 1515, secondo il Designum Urbis del Bordigallo. Ma la prova migliore che la casa di abitazione, almeno dall'anno del matrimonio e per un decennio, quindi dove nacque Claudio Monteverdi, mi è data da un documento, scelto tra quelli segnalati, ma non intesi, dal Santoro. Il documento, senza data, è nella filza dei Fragmentorum del 1576. Ed ora, valendoci della sola pianta di Cremona di Antonio Campi,del 1583, quindi redatta appena sei danno dopo la Supplica, possiamo fare le seguenti osservazioni: dove oggi v'è palazzo Cavalcabò di corso Matteotti, numero civico 31, vi era la casa di Alfonzus Zacaria, dietro alla quale stava l'abitazione di Iulius Fabagrossa cap (itaneus). Orbene lo speciaro Baldassarre Monteverdi chiede di poter fare verso il palazzo dei signori Zaccaria, cioè odierno Cavalcabò, dove è assai spazio, come oggi, una cantina sotto la sede stradale per una lunghezza di otto braccia. Se la casa fosse stata in via L. Cavitelli, non avrebbe potuto il Monteverdi spingere tale scavo sotto la sede stradale troppo angusta e non avrebbe avuto davanti assai spatio e non sarebbe stato appresso allo mg.ci sig.ri di Zacaria ed esattamente diverso [sic] detti sig.ri di zacharia! Ma ancora! Ho fatto un sopraluogo ed ho constatato che la caneva esiste ancora, proprio com'è descritto nel documento, sotto la sede stradale, dove c'è lo spazio libero, difronte a palazzo Cavalcabò, quindi sull'altro cantone”. Dunque al n. 2 di via Pallavicino.

Più semplice è stata l'identificazione dell'altra casa dei Monteverdi, quella in cui abitò sicuramente il padre Baldassarre con i fratelli di Claudio, Giulio Cesare e Filippo, almeno sino alla data della morte avvenuta il 10 novembre 1617. E' possibile che vi abbia soggiornato anche Claudio nei suoi ritorni a Cremona, da cui se ne era già andato verso i 24 anni di età., quando nel 1591 riuscì a farsi assumere tra i musicisti al servizio della corte dei Gonzaga a Mantova, di cui era allora duca Vincenzo I. Di sicuro tornò a Cremona nel 1607, quando il 10 agosto fu ammesso all'Accademia degli Animosi, prima di recarsi alla volta di Milano. Fu di nuovo nella casa paterna a trascorrere le ferie estive del 1608, per un periodo di riposo dopo la stesura dell'Arianna e de “Il ballo delle ingrate”. Il lavoro intensissimo, unito certo al lutto per la perdita della moglie Claudia Cattaneo, alle scarse soddisfazioni economiche e all’irregolarità dei pagamenti delle sue spettanze, spinsero il compositore a far scrivere al padre suppliche ai duchi (9 e 27 novembre 1608) per chiedere il permesso di licenziarsi, o quanto meno una riduzione dei suoi impegni. Non ottenne né l’uno né l’altra: richiamato a Mantova, ebbe solo la soddisfazione di vedersi riconosciuto dal duca un vitalizio (19 gennaio 1609), che però avrà costantemente difficoltà a farsi liquidare.  Claudio tornò nuovamente a Cremona nell'estate del 1612, dopo essere stato licenziato insieme al fratello Giulio Cesare dal nuovo duca duca di Mantova Francesco. Ai primi di ottobre 1613 Monteverdi si trasferì definitivamente a Venezia col figlio Francesco e la serva, per ricoprire il ruolo di maestro di cappella della basilica di San Marco.

Dallo Stato d'anime del 1634 della soppressa parrocchia di San Siro e Sepolcro, si apprende che la casa, che forse figurava già vuota, era la penultima di contrada Confettaria, poiché la successiva era la Casa santo Francesco sul Cantone di Confettaria verso santa Maria Elisabetta. Si trattava di una cappella situata all'incirca dove oggi sono i numeri 15 e 17 di via Aselli, non presente nella mappa di Antonio Campi in quanto, come ci informa il Bresciani, fondata nel 1598. in cui nel 1620 venne sepolta una Monteverdi non meglio specificata. Nelle vicinanze di S. Elisabetta era anche la casa del liutaio Cironi, morto il 18 agosto 1649: La casa dei Monteverdi è dunque quella oggi al numero 25 di via Robolotti, già di proprietà del cavalier Spartaco Stringhini. Per questa casa Filippo era tenuto a pagare ogni anno 10 lire imperiali ai frati di San Francesco “per un livello da loro istituito sulla sua casa d'abitazione sotto la parrocchia di S. Sepolcro, di cui è cenno anche nello Stato d'anime. Confinante con questa vi era la casa di Cesare Bissolotti che aveva fatto un prestito ai figli Filippo e Giulio Cesare per pagare in funerali del padre quando Claudio era gà a Venezia. Gran parte di queste case figurano vuote nello Stato d'anime del 1634 perchè probabilmente colpite dalla peste del 1630, come è il caso dell'abitazione di Pellegrino Merula, parente del musicista Tarquinio, posta all'inizio di via Borghetto. Nonostante le migliorìe edilizie apportate a questa zona negli stati d'anime della parrocchia di San Sepolcro compaiono sempre di seguito la casa Bissolotta, la casa Monteverda e la Casa sancto Francesco sul Cantone di Confettaria. L'estensore dello Stato d'anime ci informa che, voltato l'angolo, lungo quello verso Santa Elisabetta si incontra la Casa del Spaderino, quindi la Casa alla stalla s.ri Hasti, segnata nella mappa del Campi come proprietà di Gerardus Astius, posta proprio sull'angolo della contrada Bissone, oggi via Pecorari, dove è la Casa di Cura delle Ancelle della Carità. Passando oltre si trova la Casa Alias Fusaro in Bissone, oltre la quale vi è il retro di casa Bissolotti la cui fronte, come visto, è in via Confettaria. La casa di Sancto Francesco sul Cantone di Confettaria dove avere allora, come oggi, l'ingresso su via Aselli, come è possibile riscontrare nella pianta della Regia Città di Cremona del 1852.

Il cacciatore di Valdesi

Eretici valdesi
Ci fu un arcidiacono della Cattedrale di Cremona a capo della persecuzione contro i Valdesi nel corso di quella che è stata definita l'ultima crociata medievale, combattuta nelle valli piemontesi tra il 1487 ed il 1488. Il suo nome era Alberto Cattaneo ed apparteneva alla grande scuola dell'Inquisizione cremonese che, due secoli prima, aveva avuto nel frate domenicano Moneta, o Simoneta, il suo massimo rappresentante con un manuale destinato a fare a suo modo storia: il famoso trattato “Summa contra catharos et valdenses” del 1244. Forse proprio per questo motivo, quando l'arcivescovo d'Embrun Jean Baile si rivolse direttamente al papa Innocenzo VIII perché gli fosse inviato un commissario efficiente nella lotta contro gli eretici del Delfinato, la scelta cadde su di lui, già abituato ad aver a che fare con gli ultimi “Poveri lombardi”. In poco più di un anno, tra l'aprile del 1487 ed il luglio del 1488, Cattaneo ridusse gli eretici alla resa, e non certo con la forza della persuasione. Papa Innocenzo VIII, d'altronde, era un cultore del tradizionalismo religioso e pochi anni prima aveva visto fallire il suo tentativo di convocare nell'inverno 1484-1485, una Dieta a Roma per organizzare la crociata contro il sultano turco Bajazet, che aveva invaso la Moldavia. Nella primavera del 1487 Innocenzo VIII aveva condannato per eresia Pico della Mirandola, impedendo lo svolgimento della disputa universale che il principe filosofo aveva indetto a Roma. E qualche anno prima, nel dicembre 1484, con la bolla “Summa desiderantes” aveva di fatto inaugurato la caccia alle streghe in Germania, dando piena facoltà di intervenire per reprimere la stregoneria ai due celebri inquisitori Heinrich Institor e Jacob Sprenger, gli autori del “Malleus maleficarum”. Dunque, nominato il nuovo nunzio e commissario apostolico in Savoia e nel Delfinato con una bolla datata 27 apr. 1487 , il papa interviene presso Carlo VIII re di Francia ed il ventenne Carlo II duca di Savoia perchè approntino una spedizione armata in aiuto al nuovo inquisitore. La bolla concede a chi partecipa alla crociata di impossessarsi dei beni degli eretici e la remissione dei peccati, rende nulli i contratti con i valdesi e vieta a chiunque di aiutarli. Sul piano locale Cattaneo doveva agire contro i valdesi residenti nella giurisdizione del Parlamento di Grenoble i quali, per quanto riguardava la sfera spirituale, dipendevano dall'arcivescovo di Embrun, se abitavano le vallate occidentali delle Alpi, e da quello di Torino o dal prevosto di Oulx, se vivevano nelle vallate del versante orientale. L'arcidiacono cremonese cominciò dunque la sua missione chiedendo la collaborazione del suo collega Biagio da Berra, inquisitore del Piemonte residente a Pinerolo, che però il 18 luglio rispose che non poteva abbandonare la sua sede. In realtà, come poi vedremo, i motivi erano ben altri e Berra non si limitò a declinare l'offerta, ma si oppose fermamente all'attività de nuovo commissario papale. Risposte analoghe, tuttavia, giunsero in agosto da parte dei vicari del prevosto di Oulx e dell'arcivescovo di Torino. Una strada, dunque, tutta in salita per l'inquisitore, che però riuscì a far riconoscere i suoi poteri dal Parlamento di Grenoble, che il 7 agosto emanò un'ordinanza con la quale si ingiungeva alle giurisdizioni di Briançon e di Embrun di riconoscere l'inviato pontificio.
Il 24 agosto Cattaneo, che si trovava a Oulx, inviò a tutti i curati che dipendevano da quella prepositura una lettera circolare per informarli della sua missione e per annunciare loro che stava per iniziare una inchiesta nelle parrocchie della Val Cluson, Mentoulles, Usseaux, Fenestrelles e Pragelas. Da quel momento si stabilì a Briançon, dove rimase prudentemente per tutta la durata del suo incarico. L'11 settembre convocò davanti a sé undici abitanti della Val Cluson, ritenuti capi dei valdesi; due soltanto si presentarono e vennero assolti. Il 18 erano ventisette i valdesi che furono citati a comparire; e il 24 centotrenta di Pragelas, settantadue di Mentoulles. Non essendosi presentato nessuno, duecentodiciassette valdesi vennero scomunicati e minacciati di essere dichiarati eretici se non si fossero presentati dinnanzi al nunzio apostolico entro venticinque giorni a partire dal 9 ottobre. Contemporaneamente l'inquisitore pontificio si era preoccupato di affermare la sua autorità presso i poteri civili ed ecclesiastici: il 15 settembre il Parlamento di Grenoble lo autorizzò a ricorrere al braccio secolare per operare gli arresti e il 23 ottobre il papa gli fece sapere di aver sospeso i poteri e il titolo di inquisitore a Biagio da Berra. Il 30, Innocenzo VIII firmò un altro breve con cui ingiungeva a Cattaneo di non lasciare il paese prima di averlo purgato dalla eresia. Tuttavia, malgrado le minacce, nessuno si presentò davanti all'inquisitore; che di conseguenza invocò l'intervento della forza armata. Dopo il fallimento di un tentativo di mediazione compiuto dai cattolici della Val Cluson, con la massima solennità l'inquisitore dichiarò eretici e recidivi i valdesi della vallata e li consegnò al braccio secolare. Coloro che credevano di poter ottenere aiuto dal re di Francia furono delusi: Carlo VIII scrisse al governatore del Delfinato Filippo di Savoia, il futuro duca Filippo II, di appoggiare la repressione con tutti i mezzi a sua disposizione.
Mentre si preparava la spedizione militare, alla vigilia di Natale Cattaneo rivolse le sue attenzioni ai valdesi della diocesi di Embrun procedendo all'interrogatorio di alcuni indiziati all'Argentière. L'inquisitore cremonese dubitò della sincerità delle conversioni in massa a cui assistette in quella circostanza, e avrebbe voluto infierire se il papa, cui si era rivolto per avere disposizioni, non gli avesse consigliato con un breve del 3 gennaio 1488 di agire con la maggiore prudenza possibile e di esaminare ogni caso in particolare: soltanto gli eretici dichiarati potevano essere consegnati al braccio secolare. Tuttavia non si arrese e l'8 marzo dichiarò eretici e recidivi i valdesi della diocesi di Embrun.

Pietro Valdo
Frattanto era trascorso l'inverno ed era stata raccolta una piccola armata di 18.000 uomini radunati sui due versanti alpini . Un ultimo tentativo di riconciliazione tra i valdesi e l'inquisitore, organizzato da un consigliere del Parlamento di Grenoble, Jean Rabot, fallì. Gli appelli rivolti dagli eretici e dalle popolazioni di quelle valli al re e al papa non sortirono altro effetto che la conferma dell'operato del Cattaneo. Da ultimo, alcuni deputati valdesi della Val Cluson minacciarono all'inquisitore le punizioni celesti se egli avesse persistito nella sua azione. Le operazioni militari iniziarono durante il mese di marzo, sotto il comando di Hugues de la Palud, luogotenente del governatore del Delfinato. I francesi entrano nella valle di Loyse e mettendola al sacco. I valdesi con le loro famiglie salgono sul monte Pelvoux e si barricano nella grande caverna chiamata Aigue-Froid (oppure Balme-Chapelue). La Palud sale il monte Pelvoux per l’altro versante, raggiunge la grotta e vi immette del fumo. I valdesi che escono sono massacrati, altri 3.000, compresi 400 bambini, muoiono nella grotta. Gli abitanti delle valli Argentiere e Fraissiniere barricano i passi d’accesso. I crociati evitano queste fortificazioni e saccheggiano piuttosto le valli indifese. Un gruppo di crociati francesi raggiunge la spedizione piemontese nella valle di Pragelas.

 I valdesi della Val Cluson, vinti con le armi, accettano di presenziare a una solenne cerimonia di riconciliazione che ebbe luogo a Mentoulles il 31 marzo.
Il legato pontificio Alberto Cattaneo parte da Pinerolo verso Bricherasio e La Torre, capitale delle vallate valdesi. I valdesi inviano inutilmente a trattare Giovanni Campo e Giovanni Besiderio. Alberto Cattaneo pone il campo all’entrata della val Lucerna, divide le sue truppe in tante piccole bande e le disperde per le vallate valdesi. La Torre, all’incrocio tra val Lucerna e val d’Argogna, è occupata, seguita da Villaro e Bobbio, abbandonate dai valdesi. I crociati sono così in possesso dell’intera val Lucerna. Cataneo sposta il campo presso La Torre, avanza con il grosso verso la val d’Angrogna ed invia 700 uomini oltre il colle Julten per devastare le valli di Prali e San Martino.
I sabaudi trovano i valdesi barricati presso Roccomaneot, iniziano a lanciare frecce senza effetti. Al grido dei valdesi “Dio dei Nostri Padri, Aiutaci! O Dio, Liberaci!”, il capitano Le Noir di Mondovì risponde con bestemmie ma una freccia di Pierre Revel d’Angrogna lo uccide, causando la fuga dei crociati. I valdesi li inseguono abbattendo i ritardatari.
Cattaneo raduna le truppe e riprende l’avanzata, supera indisturbato l’altura di Roccomaneot e penetra nella strettoia presso la ripida montagna detta “Barricade” ma è accolto dalle frane causate dai valdesi, che poi attaccano i crociati, li mettono in fuga e ne fanno strage. Il corpo del gigantesco capitano Saquet, di Polonghera, cade nel torrente ed è ritrovato a valle, nel luogo tuttora chiamato Tompie di Saquet (Golfo di Saquet).
Durante il mese di aprile Cattaneo aveva convocato davanti al suo tribunale o a quello dei suoi delegati duecentotrenta persone. L'inquisitore è citato per l'ultima volta nel Delfinato il 4 luglio 1488.


Partendo da una libera interpretazione del Vangelo, il valdesismo diffonde nel popolo precetti di morale pratica, positiva, prospetta come esempio da seguire la vita degli apostoli. Proclamando l'uguaglianza di tutti i fedeli nell'ambito della Chiesa e il sacerdozio universale fondato unicamente sul merito individuale, retaggio di tutti uomini e donne, e non sopra una consacrazione esteriore (retaggio di una classe privilegiata), spezza alle basi la ragion d'essere della gerarchia ecclesiastica e della Chiesa stessa. Movimento laico e popolare, costituito pressochè totalmente da contadini e artigiani, dava con ciò un colpo potente alla stessa organizzazione feudale, strettamente legata alla Chiesa, e rivelava tutto il suo carattere rivoluzionario. I Valdesi conoscevano a perfezione la Bibbia; predicavano la povertà e l'astensione dal lavoro; vivevano d'elemosina; rifiutavano i sacramenti impartiti dagli ecclesiastici; praticavano la confessione l'un con l'altro, negavano la transustanziazione e la validità della Messa; rifiutavano il culto dei santi e dei morti; non ammettevano la comunione dei santi, né il Purgatorio. Condannavano come illecita la menzogna, il giuramento e ogni forma di giudizio. Praticavano la continenza, non in odio alla materia creata, ma per desiderio di perfezione. Uniti in comunità a carattere fraterno, non sembra abbiano conosciuto (almeno fino a tutto il sec. XIV) una forma precisa e definita di vera e propria organizzazione ecclesiastica. La condanna ecclesiastica determinò il rapido diffondersi del movimento. Già propagatisi in Lombardia, probabilmente fin dall'epoca del concilio Laterano, i Valdesi, allontanati da Lione, si diffondono nel Delfinato e nella Provenza, in Alsazia, in Lorena, in Svizzera, in Germania e persino in Spagna. In Italia un forte gruppo valdese (i cosiddetti "Poveri Lombardi") si costituisce a Milano, a fianco e d'intesa con gli Umiliati. Nel sec. XIII la propaganda valdese si estende fin nell'Ungheria, in Polonia, in Boemia, dove anzi, secondo la leggenda, si sarebbe recato e sarebbe morto (1217) lo stesso Valdo. Perseguitati accanitamente, specialmente durante la famosa crociata bandita da Innocenzo III, essi, dopo due secoli e mezzo, erano praticamente scomparsi dall'Austria, Germania, Francia, Spagna. Più a lungo resistettero in Boemia, dove verso la metà del sec. XV si fusero con gli Ussiti per opera specialmente di Federico Reiser. Dei gruppi italiani, oltre quelli piemontesi e lombardi, va ricordato quello che si stabilì (primi del sec. XIV) in Calabria. Ma il gruppo valdese destinato a sussistere e a mantenersi intatto attraverso i secoli fu quello che si venne raccogliendo, fin dal sec. XIII, in alcune valli delle Alpi Cozie (Val Queiras, Valluisa, Valle Argentiera, Val Freissinière, dalla parte della Francia; Val Pragelato, Val Perosa, Val S. Martino, Valle Pellice o di Luserna, con la valle laterale di Angrogna, dalla parte del Piemonte). Questi nuclei valdesi furono da principio ben accolti dai signori locali, specialmente dai conti di Luserna, ma già nel 1220 gli Statuti di Pinerolo condannavano a un banno di dieci soldi l'ospite del Valdese. Questa situazione di ostilità andò aggravandosi nel corso del sec. XIII con il costituirsi , con centro a Pinerolo, del principato d'Acaia, che favorì l'opera dell'Inquisizione in Val Perosa. Anche nelle valli occidentali, gravitanti verso Embrun e Briançon, i Valdesi furono perseguitati nel 1289 e quindi nel 1332. Una persecuzione generale fu organizzata da papa Gregorio XI (1370-1378) che si valse dell'opera del francescano Francesco Borelli tristemente famoso per la repressione da lui condotta nelle valli francesi (169 persone salirono il rogo), mentre nelle valli orientali i domenicani si mostrarono meno severi. Ma nel 1476 un editto della duchessa Violante di Savoia ordinava di eseguire i comandi dell'Inquisizione e gli stessi signori di Luserna, fino allora restii a dar mano libera all'Inquisizione, finirono per piegarsi. Nel 1484 il duca di Savoia Carlo I tentò di sradicare i Valdesi con le armi, ma la campagna finì male per il duca, tanto che, scatenatasi, nel 1487, la crociata antivaldese bandita da Innocenzo VIII e guidata dall'arcidiacono Alberto Cattaneo, essa rimase limitata alle valli del Delfinato che furono presto e pressoché definitivamente purgate. Nelle valli piemontesi, favoriti dalle precarie condizioni dello stato sabaudo, i Valdesi godettero invece, fin verso la metà del sec. XVI, un periodo di relativa tranquillità.