venerdì 19 giugno 2015

la notte che piazza Roma bruciò


Era il 21 giugno del 1875, centoquarant'anni fa, quando la giunta comunale, dopo una lunga discussione, pose le basi per la realizzazione dei giardini pubblici di piazza Roma sull'area occupata fino a pochi anni prima dalla basilica e dal convento di San Domenico. Uno dei più discussi interventi urbanistici della storia cremonese. Prova ne sia il lungo dibattito che precedette la decisione, di fronte alla vista del grande vuoto lasciato dalle macerie. Nessuno dei 62 progetti concorrenti al concorso artistico bandito dal Comune con un premio di tremila lire aveva soddisfatto i committenti: si prevedeva di riutilizzare parte dell'area nella zona adiacente le case Anselmi e Pagliari, per la costruzione di un edificio scolastico, e parte con la sistemazione di un giardino pubblico. Ma l'idea era poi caduta dopo le rimostranze di un gruppo di autorevoli cittadini, fra cui Libero Stradivari, Ettore Sacchi, Luigi Ratti, Luigi Monteverdi e Stefano Bissolati. L'impasse era stato poi superato dall'ingegnere Ruggero Manna che, supportato da numerosi amici, aveva proposto il progetto di un giardinetto provvisorio da allestire in occasione della Fiera di Settembre.
Già all'indomani della decisione fu affidato l'incarico al giardiniere Giuseppe Barozzi che vi lavorò per tutto il mese di agosto in modo che agli inizi di settembre fosse pronto il giardinetto, che occupava la prima parte di piazza Roma, dove attualmente sorge il monumento ad Amilcare Ponchielli. La realizzazione fu accettata molto bene dalla cittadinanza, tanto che l'assessore Vacchelli aveva indirizzato una lettera di ringraziamenti a Ruggero Manna: “Uno dei divertimenti più belli e simpatici che ha avuto la nostra Fiera, fu senza dubbio quello da V.S. Ideato, coll'improvvisato giardinetto in piazza Roma. Con tale opera che V.S. propugnò con quella forza di volontà che è dote degli animi eletti ed ancora pieni di giovinezza, e condusse a termine con tanto zelo, abnegazione e sapere V.S. ha sciolto un problema purtroppo da molti ancora ritenuto insolubile a Cremona, di fare cioè un giardino a simpatico ritrovo e con una spesa così mite. Di tutto questo mi è dolce il poter dire che Cremona va debitrice a V.S. Soltanto e che ne serberà la più indelebile memoria e riconoscenza, e mi tanto più caro il sapere di essere con ciò l'interprete dei sentimenti dell'intera cittadinanza. Accolga V.S. In particolare i ringraziamenti della Giunta comunale e della commissione divertimenti per la fiera 1875 e mi creda con distinta stima e considerazione”. 
Frattanto proseguiva il dibattito sul futuro dell'area man mano che proseguivano le demolizioni. Vennero rispolverati nuovamente vari progetti, fra cui quello dell'ingegnere Vincenzo Marchetti, che prevedeva portici con negozi e la risistemazione dei fabbricati già esistenti per le scuole comunali intorno al giardinetto “square”. A superare le indecisioni ci pensò l'ingegnere Signori che a nome del consiglio comunale si rivolse ai fratelli Roda, architetti specializzati nel settore che già avevano realizzato il parco del Valentino a Torino. Il nuovo progetto tecnico divideva il giardino in due parti: una, destinata in particolare per l'ascolto e la partecipazione a spettacoli musicali, con un chiosco in legno che potesse accogliere le bande ed in gruppi musicali in genere, si estendeva verso sud ed era costituita “da una larga piantata di umus montana”, disposta in filari regolari distanti l'uno dall'altro quattro metri con un viale ellittico; l'altra parte invece sarebbe stata adibita specificatamente a giardino, con un vasto tappeto verde anch'esso di forma ellittica, dolcemente ondulato, ornato con varie piante per offrire ombra, oltre che per abbellire; altri due prati erbosi e una scogliera alta un metro e mezzo nell'angolo nord est dell'area completavano il disegno del giardino che doveva poi essere tutto circondato da una siepe di viva “thja” appoggiata a fili di ferro zincato. Quest'ultima venne poi sostituita con una cancellata in ferro sostenuta da uno zoccolo in muratura. Si lasciava uno spazio libero a ridosso delle case Anselmi e Pagliari per l'eventuale costruzione di un fabbricato. Il preventivo era di 30.000 lire che poi, a consuntivo, passarono a 38.000. Sia il progetto tecnico che il preventivo delle spese furono approvati a si diede subito inizio alle pratiche per il prestito finanziario da parte della banca Popolare, che si protrassero a lungo, mentre continuavano i lavori demolizione e dispianamento. In ottobre iniziarono così i lavori per il giardino, che finalmente poteva sorgere in veste completa e definitiva come oggi lo vediamo, se si escludono alcuni particolari introdotti con il restauro di Andreas Kipar nel 2002. Ad esempio, la bellissima e gigantesca magnolia che ancora oggi possiamo ammirare nell'aiuola piccola vicino alla fontana delle Naiadi fu donata al Comune in quegli anni dal signor Augusto Pizzamiglio e come lui, tanti altri cittadini facoltosi donarono molte piante di diverse varietà per decorare il giardino. Più tardi si tentò anche di installare delle voliere che potessero accogliere volatili di varie specie, tra cui anche delle aquile, e delle gabbie che solo per poco tempo ospitarono un gruppo di mufloni. Il giardino vero e proprio fu terminato nel maggio 1879 e tutta l'area, con la cancellata e le cinque entrate con la goda per la musica fu pronta e sistemata durante l'estate,compresi i vasi ornamentali sul cui piedestallo rimase, a ricordare la presenza dell'antico complesso di San Domenico, la scarna epigrafe di Bissolati.


Tra le varie proposte per la sistemazione di piazza Roma era emersa l'esigenza di realizzare la costruzione di un edificio che potesse ospitare il mercato generale o quello dei bozzoli, oppure che potesse accogliere la fiera annuale settembrina e in ogni caso che fosse dotato di un vasto porticato che potesse essere adibito ad esposizione, costituendo un importante centro di informazione commerciale e artigianale per la città. All'interno di questo fervore di attività e di ricerca di novità, nel corso del 1879 era nata l'idea di organizzare una “Esposizione industriale-artistica” per l'anno successivo, in contemporanea con il Concorso Agrario regionale del 1880. L'apposito comitato si mise alla ricerca di una sede idonea, visitando i palazzi Dati di via Palestro, l'Ala Ponzone, il palazzo vescovile, il Seminario in via Villa Glori, il palazzo Trecchi ed i locali del Ginnasio, Liceo ed Istituto Tecnico, trovandoli tuttavia inadatti allo scopo. Fino a quando da Ferdinando Podestà venne presentata una soluzione alternativa per la realizzazione di un edificio in legno da edificarsi sul lato nord del giardino di Piazza Roma che, pur eccedendo i limiti di spesa previsti, venne accettata con riserva e dopo una crisi all'interno dello stesso comitato organizzatore. Si pensò di occupare l'area rimasta libera in piazza Roma dopo l'allestimento dei giardini pubblici che, del tutto inutilizzata, stava andando in rovina. Il progetto prevedeva che l'armatura e le decorazioni dell'edificio fossero in legno e ferro, l'ossatura in legno, le fondamenta e i dadi di sostegno in muratura, utilizzando eventualmente anche il materiale della cinta a secco che copriva l'area rimasta libera dei giardini. Il palazzo avrebbe occupato una superficie di circa tremila metri quadrati dei 5000 ancora disponibili, con cortili, giardini e una cancellata di protezione, che dividesse i tre corpi frontali sporgenti dell'edificio dai giardini pubblici. Così il giornale “Interessi Cremonesi” del 22 agosto 1880 lo descriveva: “I visitatori troveranno un disposizione logica-semplice dei locali, senza troppi giri e rigiri: tre ampi saloni al pian terreno e tre al piano superiore, collegati da un terzo salone, due tettoie eleganti, quattro cortiletti a giardino. L'intero edificio è in legno: i dadi di sostegno in muratura. Al piano terreno le tre sale sono divise da una fila di eleganti colonnette di sostegno: quelle della sala di mezzo (la più vasta) sono in ghisa, di un disegno svelto e grazioso, e fuse nella fonderia Tesini-Podestà. Al piano superiore invece l'armatura sostiene il soffitto. Le tappezzerie sono dei più svariati e graziosi colori. Alle finestre in alto si ammirano tendine sciolte di paglia, al basso tende di tela. Lo scalone è comodo, largo e in adatta posizione nella galleria centrale, in cui vi sarà pure il servizio di caffè. Una elegantissima scala a chiocciola in ghisa servirà a rendere più comoda la circolazione. A mezzo dello scalone un amplissimo specchio rifletterà la folla che salirà al piano superiore. I tre corpi di fabbricato che, come appare nella prospettiva qui unita, si avanzano verso il giardino, verranno poi riuniti da una tettoia che si sta costruendo, e che non appare quindi nel disegno, e che attraversa i due cortili laterali e i due giardinetti. L'entrata al palazzo è alla destra (guardando il disegno) l'uscita alla sinistra (c.s.). L'apertura che appare segnata nel corpo principale servirà per l'ingresso di S.M. Il Re, se verrà a visitare la mostra. Gli oggetti di decorazione sono in zinco, le colonnette e l'elegante ringhiera e balaustra dello scalone in ghisa, il tutto venne fuso espressamene nella fonderia Podestà.

Si era giunti alla vigilia dell'apertura della Mostra Industriale-artistica quando, la notte tra il 29 e il 30 agosgo 1880, la città fu colpita da un violento uragano: un vento impetuoso soffiava incessantemente, portando sferzanti scrosci di pioggia che si riversavano nelle strade della città tra lampi e tuoni. Improvvisamente il buio della notte fu rischiarato da un immenso incendio che, tra fiamme altissime e vapori biancastri, in poco più di un'ora distrusse completamente il palazzo dell'Esposizione. Le faville furono disperse dal vento a grande distanza e il fuoco si propagò rapidamente alle case vicine, minacciando le proprietà Anselmi, Pagliari e Bellini, e il teatro Ricci poco distante. I volontari e le forze dell'ordine accorsi sul posto, non poterono fare altro che costatare la distruzione del palazzo e di adoperarono quindi per circoscrive l'incendio cercando di proteggere le abitazioni. “La notte dal 29 al 30 agosto del 1880 – scriveva il “Corriere Cremonese” - rimarrà memorabile negli annali della storia di Cremona. In quella notte orribile, temporalesca. Uno spaventevole incendio incendio distrusse uno degli edifici più simpatici, più eleganti che fossero stati costruiti nella nostra città: l'edificio destinato all'Esposizione industriale-artistica, fabbricato appositamente con tanti dispendio nella Piazza Roma. Alle 4 ¼ del mattino si svilupparono le prime fiamme e alle 5 ½ il fabbricato era completamente distrutto. Ma tutto non finì lì. Le fiamme aiutate da un vento impetuosissimo innalzandosi ad un'altezza prodigiosa si gettarono contro le vicine case Anselmi, Pagliari e Bellini e vi appiccarono fuoco producendo guasti rilevanti. Era uno spettacolo orrendo. Una colonna di fuoco della larghezza di circa cento metri si stendeva sopra il gruppo di case che circondano il teatro Ricci e che corre da piazza Roma alla chiesa di S. Agostino, suscitando negli abitanti di queste una panico indescrivibile. Tizzoni ardenti, pezzi grossissimi di cartone incatramato accesi volavano al di sopra delle dette case trasportati dalla furia del vento, ad una distanza enorme, cadendo poi sui tetti con grave pericolo di incendio. E' così che al tetto del teatro Ricci si apprese pure il fuoco che però venne subito spento mercè il pronto soccorso dei cittadini edella truppa: e che anche al vicino albergo d'Italia si fosse pure in pensiero per un lieve principio d'incendio. Intanto in poco più di mezz'ora distrutto il grandioso palazzo, cui riuscì inutile ogni tentativo per salvarlo almeno in qualche parte, l'opera dell'autorità e dei cittadini si rivolese tutta sulle tre vicine case in preda alle fiamme; e dopo due ore di lavoro e di sforzi inauditi il fuoco in queste veniva completamente spento. Il veto e la pioggia non cessarono un solo istante durante il disastro che distruggeva un fabbricato che formava l'orgoglio della nostra città. L'intero comitato ordinatore della mostra e le autorità municipali e governative erano sul luogo al primo annunzio dell'incendio: la truppa, i carabinieri accorsero pure a prestare opera volonterosa, ma era inutile. L'ampio fabbricato tutto avvolto nelle fiamme non permetteva di accedere interamente, sicchè si dovette assistere col cuore straziato allo sfasciarsi di un fabbricato che ogni cittadino cremonese guardava con una certa compiacenza“.

Sulle cause dell'incendio fiorirono le ipotesi. Secondo gli uomini a guardia del palazzo, alloggiati al piano superiore, le fiamme si sarebbero sviluppate da una delle tende del piano inferiore che, sbattuta dal forte vento, si sarebbe infiammata venendo a contatto con una lampada a gas, propagando il fuoco al soffitto del piano inferiore. Più inquietante un'altra ipotesi, formulata in forma anonima da un giornalista del “Corriere di Cremona”: il pavimento del piano terreno era formato da assi bucate per permette una migliore ventilazione dell'ambiente, sotto le quali erano stati ammassati in quantità enorme i trucioli prodotti dalla lavorazione del legno durante i lavori per la costruzione del palazzo. Se qualcuno degli uomini di guardia avesse trasgredito al divieto di fumare, avrebbe potuto facilmente causare quella scintilla che avrebbe scatenato l'incendio. Più maliziosamente vi era chi osservava che il palazzo sarebbe stato assicurato per 75.000 lire presso l'Assicurazione Generale di Venezia e che 55.000 lire fossero state liquidate al Podestà, che aveva rinunciato a sua volta al compenso di 15.000 lire dovuto dal Comitato che gli erano state versate in precedenza. Lo spegnimento dell'incendio richiese una grande dispendio di uomini e di risorse: 119 volontari, tra brentadori e cittadini, e 217 uomini delle forze militari, più altri della Vigilanza urbana e della Polizia lavorarono incessantemente per molte ore, con l'aiuto di alcune macchine fornite dal Comune e da alcune ditte, utilizzando tredici botti grandi e 19 piccole per il trasporto dell'acqua.

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