venerdì 1 agosto 2014

La disfida di Rolando da Cremona


E' una fredda mattina di settembre del 1238. Cremona è ancora avvolta nella prima nebbia autunnale, quando Frate Rolando sale sul suo asino, nonostante il dolore che gli procura la gotta. Esce dal suo convento di San Guglielmo e si dirige lungo la strada per Brescia. Viaggia da solo, anche se da qualche mese la campagna è battuta in lungo e in largo dagli eserciti delle città ribelli all'imperatore. Deve raggiungere Brescia, cinta d'assedio dal 3 agosto dalle truppe di Federico II, dove il sovrano lo attende. Per Federico le cose si stanno mettendo male. I bresciani si stanno difendendo con i denti e con le macchine da guerra costruite dal loro ingegnere, Clamandrino, consapevoli delle conseguenze che una vittoria imperiale produrrebbe sulle sorti della Lega Lombarda. Ormai si sta avvicinando l'inverno e la pioggia rende difficoltosi i movimenti degli assedianti. Dopo qualche giorno Federico, bruciate le macchine e levate le tende, vista l'inutilità dei suoi sforzi, si sarebbe ritirato con tutto l'esercito nella fedele Cremona. Ad attendere il frate domenicano sotto le mura di Brescia c'è anche Teodoro di Antiochia, una delle personalità più interessanti e discusse della corte di Federico, che assolve una pluralità di compiti diversi: è filosofo, matematico, medico, traduttore. L'imperatore, questa volta, gli ha affidato un compito ingrato: sfidare in una disputa teologica il più grande cacciatore di eretici del suo tempo, il domenicano Rolando da Cremona. Appartengono entrambi a quella corte stravagante ed eterogenea formata da astrologi, alchimisti, filosofi, medici e scienziati di cui ama circondarsi Federico, destando le preoccupazioni di papa Gregorio IX, che vi vede la prefigurazione del regno dell'Anticristo. Ne fanno parte, a vario titolo, Davide di Dinant, già cappellano di Innocenzo III, condannato per il suo panteismo al concilio di Sens del 1210; Adamo da Cremona autore di un trattato di medicina militare, il De regimine et via itineris et fine peregrinancium; Gualtierio d'Ascoli maestro a Napoli e autore di uno Speculum artis grammatice; Teodoro di Antiochia traduttore dall'arabo del trattato di falconeria di Moamin; Roffredo di Benevento giudice della Curia imperiale; Riccardo di San Germano cronista formatosi a Montecassino; i poeti italo-bizantini Giorgio da Gallipoli, Giovanni da Otranto, Giovanni Grasso e Michele Scoto. Quest'ultimo conosce molto bene Rolando, che aveva incontrato anni prima a Bologna al suo ritorno in Italia dopo una parentesi a Toledo dove si era recato per tradurre, dall'arabo al latino, testi scientifici e astrologici. Era stato proprio Michele Scoto a suggerire a Federico di mettere periodicamente a confronto il parere di esperti nelle varie materie per essere in grado di possedere tutti gli strumenti necessari per ben governare. Le cronache raccontano concordemente che, durante l'assedio di Brescia, Federico II aveva organizzato dispute di ogni materia, compresa quella a cui si sta recando frate Rolanddo. Non sappiamo come si articolò nei dettagli la sfida, anche se, a giudicare da quanto racconta il maestro generale dei Domenicani Umberto da Romans, Teodoro, che solo qualche tempo prima aveva ammutolito con i suoi sofismi due confratelli, ne uscì sonoramente sconfitto. D'altronde Teodoro, approdato alla corte di Federico qualche anno prima del 1230 con il compito di filosofo di corte, come scusante poteva dire di aver avuto in sorte il destino di scontrarsi con il più temibile frate domenicano dei suoi tempi, vero spauracchio di tutti gli eretici.

Nel 1229 Rolando da Cremona, nato nel 1178, aveva ricevuto la prima cattedra universitaria di teologia assegnata a un frate domenicano dal vescovo di Parigi, Gugliemo di Auvergne, in occasione di uno sciopero dei maestri secolari. Uno dei tratti salienti della sua biografia, secondo le testimonianze dei confratelli, fu senza dubbio l’impegno antiereticale. Alla lotta contro l’eresia si dedicò con irruenza e impegno instancabile. Rolando ha un’idea chiara della missione dell’ordine: i frati sono nati per combattere gli albigesi (ordo fratrum predicatorum contra albiensum locustas est statutus). La notte debbono pregare e contemplare, ma giunto il giorno il loro compito è pugnare contra ephesi bestias.
A Tolosa, dove giunge nel 1230 per insegnare alla locale università, appena istituita, diventa suo malgrado immediatamente protagonista. Il legato del papa, Romano di Sant’Angelo, aveva fatto inserire la fondazione dell’università tra le clausole che il trattato di Meaux impose al conte di Tolosa nel 1229. Si trattava d’installare, sotto l’egida della Santa Sede, un centro di studi che funzionasse da focolaio della riconquista cattolica nel regno dell’eresia catara. Ma Rolando in questo ruolo ebbe presto modo di distinguersi, e non per prudenza e moderazione. Quando dal convento venne denunciata pubblicamente la presenza di eretici in città vi furono aspre reazioni da parte dei tolosani, i quali negarono fermamente le accuse, ben consapevoli delle pericolose conseguenze che ne potevano scaturire. Invece di farsi intimorire dalle proteste Rolando spinse i confratelli a proseguire la battaglia con vigore. Lui per primo la portò avanti viriliter et potenter. L’occasione si presentò pochi giorni dopo le proteste. Avendo saputo che due uomini, da poco sepolti, erano stati in realtà eretici, guidò intrepidamente i frati, il clero e «alcuni del popolo»: in un’atmosfera di estrema tensione disseppellirono e bruciarono, dopo una solenne processione per le vie della città, i resti dei due defunti.
Tornato in Italia, dal 1233, ricoprì incarichi inquisitoriali e non cessò di lottare contro gli avversari della fede. Portava con sé l’esperienza guadagnata sul campo e una forte consapevolezza di ciò che era il suo dovere: opus Dei est impugnare hereticos et infideles. Ma il suo eccessivo rigore gli costò un aggressione con sassi e armi mentre predicava in piazza a Piacenza e nel tumulto rimase ucciso un monaco. Nel 1244 ricevette l’incarico di istituire il processo per eresia contro il temibile Ezzelino da Romano. Si dedicò comunque ancora all’insegnamento, sicuramente presso lo Studium domenicano di Bologna, dove è ricordato quale lettore l’anno prima della morte, che lo colse nel 1259.
Non stupisce dunque che il temperamento battagliero di Rolando si rifletta nell’opera principale. La Summa a lui ascrivibile contiene una breve questione de zizania, che bene sintetizza il suo pensiero. Seguendo una tradizione esegetica già consolidata nei padri la zizzania della parabola neo-testamentaria allude agli eretici: zizania sunt specialiter heretici. Ora, alcuni, che non posseggono una retta fede (quidam qui non sunt recte fidei), sono soliti affermare che gli eretici non debbono essere uccisi. Bisogna lasciar crescere la zizzania fino alla mietitura (che avverrà con il giudizio finale). Quindi Dio, secondo costoro, non vuole che gli eretici siano bruciati (Dominus non vult ut heretici comburantur). Se fossero uccisi non avrebbero la possibilità di pentirsi, suggerisce inoltre una glossa di Agostino.
Non sono pure speculazioni astratte. È qui registrato un orientamento che merita di essere discusso e confutato. A sostenerlo sono individui concreti (quidam qui non sunt recte fidei) e le obiezioni di costoro paiono di una certa serietà e non occasionali, lasciano pensare a tesi usuali e ripetute nel tempo (solent dicere, “sono soliti dire”). Ma è anche chiaro che a sostenerle si è ormai fuori dal solco della Chiesa (non sunt recte fidei). Il Concilio Laterano IV ha scavato un fossato non più colmabile. Con argomenti simili a quelli qui menzionati un’esegesi “tollerante” della parabola evangelica era rimasta viva fino al declinare del XII secolo. Rolando risponde con durezza ai suoi oppositori. La glossa, ci dice, va interpretata e Agostino, oltretutto, ha in seguito cambiato opinione. Se anche non l’avesse fatto bisogna credere alle scritture e alla chiesa più che ad Agostino (magis credo novo et veteri Testamento et toti ecclesie quam Augustino). L’importante è capire bene, senza precipitazione, cosa sia zizzania e cosa frumento. Quando ciò sia manifesto nulla impedisce che gli eretici siano tolti dal mondo “con la falce della sentenza giudiziaria”. La possibilità di pentirsi va data a chi è ancora nel dubbio, ma l’eretico ostinato deve essere ucciso. Può solo essere causa di corruzione: il frumento muta in zizzania, ma non accade il contrario. E nemmeno si deve aspettare la fine dei tempi: i mietitori della parabola sono gli angeli, è vero, però anche i vescovi e i poteri secolari sono “angeli di Dio”, in quanto suoi nunzii e ministri. L’angelo vescovo deve tagliare la zizzania con la falce della sua sentenza di scomunica, mentre l’angelo potere secolare fornisce l’appoggio del gladio materiale. Certo, bisogna procedere con cautela, evitando forme dannose di eradicazione. Ad esempio, la scomunica dei prìncipi, i quali potrebbero trarre con sé molti seguaci, e in genere delle moltitudini, rischia di risolversi in un danno per la chiesa. Richiede dunque una speciale licenza papale. Ma un consiglio cittadino può bene essere scomunicato. Ancora una volta siamo proiettati sul terreno dei concretissimi conflitti italiani. L’insegnamento del maestro, lungi dall’isolarsi nell’empireo della teoresi, offre indicazioni pratiche e operative su come affrontare i casi quotidiani del tempo: le lotte dei partiti e le resistenze delle autorità civili.

Rolando, il domenicano inquisitore, frequenta la stessa corte di Federico animata da altri personaggi decisamente fuori dal comune. Tra questi un ruolo da protagonista ebbe certamente Michele Scoto. Lo stesso Dante lo definisce “mago”, anche se probabilmente le arti magiche erano utilizzate da Michele per allietare la vita del re di Sicilia. Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, riporta che Michele Scoto era in grado con una bacchetta magica di far suonare le campane di Notre-Dame dalle grotte di Salamanca e le sue abilità di mago sono ricordate anche nella letteratura italiana da Boccaccio, Fazio degli Uberti e Teofilo Folengo. L'immagine di un Federico che, servendosi di maghi e astrologi, controlla gli eventi della storia fu utilizzata per sottolineare il carattere diabolico della sua corte anche se poi i suoi collaboratori, nonostante le loro arti divinatorie, non riuscirono ad impedire la sconfitta di Parma del 1247. Allo stesso Michele si attribuisce quella profezia secondo cui Federico II sarebbe morto sub flore, per cui l'imperatore non entrò mai a Firenze; tuttavia il sovrano svevo morì effettivamente sub flore, ma a Castelfiorentino in Puglia il 13 dicembre 1250.
A Michele Scoto succedette nel 1238 nel ruolo di astrologo di corte Teodoro di Antiochia, approdato presso Federico un decennio prima forse durante un’ambasciata in Armenia, forse per i legami con il sultano d'Egitto. Ottenne dall'imperatore favori e benefici, fra cui un feudo in Sicilia, ma desiderava disperatamente di tornare a casa e morì suicida dopo aver tentato di fuggire oltremare, disobbedendo ai voleri del suo signore. Teodoro è designato, nei documenti imperiali, oltre che con il titolo generico di magister, con quello di philosophus: il suo ruolo era quello di filosofo dell'imperatore (imperialis philosophus), che non aveva precedenti nelle corti occidentali ma trovava paralleli nella società islamica. A corte si faceva uso, innanzi tutto, della sua conoscenza dell'arabo: nel 1240 egli scrisse per conto dell'imperatore una lettera in arabo all'emiro di Tunisi; nello stesso anno o poco prima tradusse dall'arabo in latino un trattato di falconeria, o meglio di medicina dei rapaci, conosciuto con il nome di Moamin e destinato a un largo successo in Europa. A Teodoro, in quanto medico, si richiese di preparare uno sciroppo per l'imperatore e il suo entourage (1240); egli mandò una scatola di zucchero di viola a Pier della Vigna, insieme a una lettera con cui ne raccomandava l'uso; redasse per l'imperatore un Regimen sanitatis in forma epistolare, che si aggiungeva a quelli indirizzatigli da Adamo da Cremona e da Pietro Ispano. Sono noti inoltre i suoi scambi di problemi matematici con Leonardo Fibonacci da Pisa e di problemi geometrici con Judah ben Salomon ha-Cohen : con il primo la corrispondenza avvenne in latino, con il secondo in arabo.

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