venerdì 7 marzo 2014

La vera storia della demolizione di San Domenico

Il convento di San Domenico
Padre Marcellino da Agnadello, al secolo Vincenzo Moroni, è stato il primo sacerdote cremonese ad aver esercitato, in modo pressochè esclusivo, l’attività di giornalista, in qualità di direttore del primo periodico religioso cremonese “La Buona Famiglia”, antesignano dell’attuale settimanale “La Vita Cattolica”, ed uno dei primi giornali cattolici della Lombardia. Ed è stato anche il primo giornalista ad averci rimesso il posto per aver esercitato fino in fondo il diritto di cronaca. Pubblicato tra il 1868 ed il 1880 “La Buona Famiglia”, fortemente voluto dal vescovo Antonio Novasconi, diventa con gli anni la voce dei cattolici moderati e del clero conciliatorista in una provincia, come quella di Cremona, dove particolarmente forte è la componente radicale, massonica e anticlericale ereditata dal Risorgimento.
Nel primo anno della sua direzione padre Marcellino si trova ad affrontare la spinosa questione della demolizione di San Domenico. E si accorge subito di come sia difficile passare dalle letture d’intrattenimento spirituale all’esercizio del diritto di cronaca. Nell’aprile del 1869 Il direttore si vede costretto a rinunciare a una rubrica inaugurata solo quattro numeri prima, “L’Osservatore della Provvidenza”, dove, fingendo conversazioni serali tra amici, si affrontavano temi di attualità cittadina.
E’ con ogni probabilità uno dei primi esempi di censura alla libertà d’informazione che padre Marcellino, pur obbedendo, denuncia sulle stesse pagine della rivista di cui è direttore con estrema dignità e consapevolezza del proprio ruolo di giornalista: “La Cronaca s’era mostrata, incominciava appena: né messo ancora innanzi il capo, ma appena il piè, per tentare il terreno. Veniva innanzi, un po’ seria, nella sua ingenuità, a seconda dei momenti; ma neppure ancor aveva dato la sua Prefazione per dichiararsi qual’era, una quasi fotografa d’uomini, di parlari e di avvenimenti: scritta da uno che guarda le cose persuaso assai della Provvidenza di Dio nel minuto governo e nel succedersi di tutte le cose. Ora la cronaca è condannata in parte al silenzio? Prenderemo di lei quello che ci si lascia e dove ella poteva contare come in più facili acque; e sempre devoti Osservatori della Provvidenza quali ci professiamo, siano o no i contemporanei per tollerarci, verremo innanzi nelle svariate e native e forme che mano mano daranno alle cose le circostanze”.
A un anno esatto di vita del giornale padre Marcellino rassegna le proprie dimissioni in seguito alle polemiche seguite alla decisione di demolire l’antico tempio dei Domenicani, con la denuncia del giornale e del suo direttore da parte della massoneria liberale cremonese.
Ma padre Marcellino è anche in difficoltà di fronte all’incalzare degli eventi e indeciso sulla linea editoriale che avrebbe dovuto assumere il giornale, stretto fra i propositi originari di farne un periodico di letture popolari e la necessità, probabilmente avvertita dagli stessi ambienti curiali, di una più marcata contrapposizione politica. Il suo canto del cigno è proprio la cronaca esatta della demolizione, ricostruita sulla base delle testimonianze dirette e dei verbali della commissione mista del genio civile e del genio militare. Un documento eccezionale di cronaca giornalistica.
Scriviamo in luglio questa memoria – scrive padre Marcellino nel numero del 15 agosto 1869 ‐ e già dal principio del mese, giorni di altissima e lungamente ricordabile vergogna ai Cremonesi in faccia a quanti capitarono visitatori della città, e di profondo e non sanabile cordoglio per tutti i buoni, la barbara demolizione scende sul maestoso tempio e sulla torre colossale e severa, murata sì forte a disdidare tempi e congiungere tra loro lontanissimi secoli e lontanissime generazioni. Tetro avvenimento!”
Tutto ha inizio la notte del 13 febbraio 1862 quando i soldati ospiti della caserma sentono scricchiolare i muri della chiesa. Il 24 la chiesa viene chiusa ed il 26 avviene il sopralluogo della commissione mista che rileva i segni di una rovina imminente, al punto da chiudere parte della caserma facendo ritirare i soldati nel chiostro più interno con uscita sul vicolo Cantoncino. Aggiunge malignamente padre Marcellino: “Il Bortolo Soresini, già custode della chiesa, mi raccontò più volte la cosa. Egli mi disse che la chiesa dopo aver servito di magazzino ai Francesi nel ’59, veniva riufficiata dopo la loro partenza, e vi era stata la Visita Pastorale nel Marzo 59, né alcuno segnò mai che la Chiesa fosse in pericolo. Incominciò il Capomastro Conti, a far qualche romore, in occasione che gli venivano affidate le riparazioni al tetto della crocera e del coro. Se da lui sia saltata al Corriere la cosa, o se vi si tramezzi il gran dimenarsi che fe’ l’ingegnere del Genio Civile, Carlo Porro, passato presto di vita, e molto immaturamente, e l’inconsideratezza d’uno altro che s’era messo ad odiare la maestosa casa di Dio, perché gli stringeva la strada ed egli vagheggiava il guadagno alle finestre di casa sua della vista d’una piazza, è problema da sciogliere”.
Un gruppo di operai 
Prosegue padre Marcellino: “Al 12 gennajo 1863 una controvisita della Commissione composta d’un Architetto e due Ingegneri, mandata dalla Fabbriceria della Cattedrale, constatava invece, con suo Rapporto 5 Febbrajo, i limiti ai quali estendevasi il vero bisogno di riparazioni, e chiariva le menzogne dell’altra. Perciò, e con lentezza da meravigliare in chi non sia nemico delle divine cose, si incominciava a consultare dei mezzi: ai 15 novembre Monsignor Vescovo domandava al Ministero delle Finanze un lasso di sei mesi per raccogliere”.
In Aprile 1864 il Ministero interrogò il Vescovo che esponesse oramai i mezzi disponibili per la riparazione: il Prelato rispose che dava quindicimila lire del proprio. Quasi contemporaneamente la Fabbriceria insinuata da Chi non sappiamo, scriveva al Ministero d’essere pronta ad assumere i restauri, purchè il Ministero volesse dichiarare emancipata per l’avvenire la chiesa di S. Domenico da servitù in caso di guerra. Ai 12 Maggio venne la risposta, e cioè un’altra Commissione mista di civile e militare, ad una nuova visita, per riconfermare le asserzioni della prima, esagerare l’imminenza del pericolo sino a far credere che la facciata del tempio stava per cadere sulla piazza; e addì 5 giugno 1864 un Decreto della Direzione Generale del Demanio ordina la demolizione, incaricando l’ufficio del Genio Civile di Cremona per la Perizia e suo capitolato, e dà facoltà al R. Prefetto di far eseguire la demolizione anche subito, in caso di vero imminente pericolo. In 20 giorni l’ingegnere del Genio Civile signor Carlo Porro, che poi morì, eseguì la perizia. Allora si vide nei buoni un po’ di fremito. Ma chi s’è mosso davvero? Spontaneo un uomo fuori di carica, un illustre Ecclesiastico; e andava a Torino per isventare il Decreto. Fece parlare la verità agli orecchi del Direttore Generale del Demanio, Commendatore Sacchi, poi gliela parlava egli stesso. Il Direttore Generale promise ritirare il Decreto, sopra voto autorevole che gli venisse presentato di non esistente pericolo. L’Ecclesiastico propose il voto della Consulta Archeologica di Milano, e piacque”.
La cronaca di Padre Marcellino prosegue con il racconto del sopralluogo effettuato dalla Commissione archeologica, contraria all’abbattimento dell’edificio sacro: “Quindi ai 20 di giugno, l’Ecclesiastico portò a Milano alla Presidenza della Consulta Archeologica la necessaria istanza, firmata da ragguardevoli persone, perché la Presidenza ottenesse dal Mini‐stero autorizzazione alla visita; quattro giorni dopo, colla domanda della Consulta, rivedeva Torino; il 28 e 29 Giugno, la Commissione della Consulta, composta da due architetti e due archeologi, eseguiva in S. Domenico la visita. Il suo rapporto presentato al Ministero con data 5 luglio 1864, lodava la maestà e la bellezza dell’edificio, ne raccomandava la conservazione, smentiva il vociferato pericolo di rovina, dichiarava la riparazione, quand’anche si fosse verificata opportuna la normale, limitarsi ad un pilone della crocera, e non difficile da eseguire. Del resto, mentre non taceva le sopraggiunte del tempo e i veri bisogni, francamente asseriva destituito di ragione, anzi contrario al decoro nazionale, alla civiltà crescente ed alla savia economia il proposito dell’atterramento”.
Accanto alla perizia della Consulta Archeologica viene presentata una controperizia da parte della commissione composta da due Ispettori del Genio addetti al Ministero, l’Ingegnere signor Oberti e un certo Falconieri che accerti le prove dell’incombente rovina. Il giornale “la Buona Famiglia” riporta integralmente il rapporto della Commissione della Consulta archeologica, che conclude: “Da più parti occorrono certamente sollecite riparazioni, come ai tetti delle navate del piè di croce ed al pilone in angolo della crociera della navata maggiore, le fenditure del quale non potrebbesi provare essere effetto di un recente squilibrio del soprapposto peso, stantechè gli archi di corrispondenza non manifestano correlative lacerazioni, siccome lo attesta l’intonaco non screpolato negli intradossi dei due archi succennati. Inoltre dallo stato di fatto del pilone e delle screpolature in esso esistenti non si può dedurre con certezza che la fenditura penetri nel nucleo della costruzione, e qualora la rottura fosse limitata al rivestimento, la riparazione sarebbe di lieve momento. “Ma dato pure che questo fonda‐ mentale sostegno della crociera richiedesse una riparazione normale, cionullameno presenterebbe pur sempre una difficoltà costruttiva di comune contingenza, e quindi non potrebbe a buon senso essere bastante ragione per atterrare un monumento grandioso, un vasto locale, del quale ben presto si rimpiangerebbe la demolizione”.
La controperizia presentata dalla commissione del Genio arriva invece a conclusione opposte, anche se sulla base di elementi abbastanza discutibili. Le prove erano 17 ostie di 32 che s’erano applicate sulle screpolature del pilone, le quali essiccando nel corso di otto giorni si divisero sulla screpolatura: le altre 15 tenevano fermo ancora e bastavano contro l’imminente rovina”.
Padre Marcellino continua così il suo racconto: “Contro la impudenza dello ingegnere così e corbellarsi de’ proprii cittadini fu pubblicato il 15 luglio uno scritto intitolato: ‘La chiesa di San Domenico e il Corriere Cremonese’, dove si rimproverava urbanamente al Giornalista l’abuso della stampa, e si faceva conoscere ai cittadini lo stato vero delle cose secondo il giudizio spassionato della Commissione Milanese. Erano parole gittate su un foglio di carta. I buoni Cremonesi lessero, sorrisero, lasciarono fare, confidenti, al loro solito, che basti a sé stessa la verità nelle condizioni impersonali contro ogni insolenza. Ond’è che apparve una volta di più nella città nostra potersi le gaglioffaggini; né mentire il vecchio proverbio che invita a Cremona chi vuol misfare a talento. “Dopo la data 5 luglio della Relazione al Ministero incominciò una commedia di sedute alla Direzione Generale del Demanio in confronto del sullodato Ecclesiastico per concertare i modi della ammessa riparazione della chiesa senza l’intervento del Genio Civile di Cremona apertamente avverso del conservare. Credè l’Ecclesiastico più ad altrui che a se stesso quando, per chiusa delle sedute, gli dissero colà: essersi deciso di affidare alla Consulta Milanese la direzione dei lavori ed il collaudo, e che l’indomani partivano le lettere ai tre Uffici, la Consulta, la R. Prefettura e il Genio Civile. E l’indomani Egli, tornato, s’affrettava di prevenire annunziando quelle lettere a Cremona. Ma indarno aspettatele, rivolò a Torino e là si agitò ancora dal 17 al 30, nulla risparmiando né d’opere né di lamenti. Anche il Vescovo in quel tempo si agitava per Torino, itovi a celebrare la santa Messa l’anniversario della morte di Re Carlo Alberto: fece presentare dal proprio Segretario una lettera al Ministro delle Finanze, domandando di poter eseguire a proprie spese le riparazioni. Ebbe dal Ministro un reciso No; del qual no i motivi indegni conosce e narrerà forse un Cavaliere pensionato nostro. Il Conte Guido Borromeo Segretario generale del Ministero potrà confutarli esposti che siano. Così dunque restava condannato ad essere raso da terra il maestoso tempio, e d’allora nessuno più s’arrischiò moversi d’un dito, sì svilita al bene è tutta quanta la generazione e disformi dalle venerate immagini de’ maggiori sì enormemente apparvero i reggenti succeduti”. 

1 commento:

  1. Il destino del povero San Dominico fu evidentemente deciso "in alto loco" senza che reali motivazioni tecniche lo consigliassero ma per evidente pregiudizio ideologico. probabilmente rafforzato da chi, proprietario di case sul contorno della basilica, contava di vedere valorizzato il pregio delle stesse. Per certi aspetti, la "manfrina" delle perizie contrapposte e la conseguente decisione finale, ricorda la vicenda, avvenuta più di un secolo dopo, della ordinanza di far smontare la copertura in piombo del pregevole teatro Politeama Verdi, vicenda che pareva indirizzata a tutelare l'interesse pubblico, ma in realtà preordinata anch'essa, sulla base di un odio viscerale per le antiche preesistenze, ad agevolare soprattutto concreti interessi privati.

    RispondiElimina