sabato 9 novembre 2013

L'Inquisitore cremonese di Galileo


C'era una mano cremonese nel 1633 a vergare la sentenza che avrebbe condannato Galileo Galilei all’abiura delle osservazioni contenute nella sua ultima opera, quei “Dialoghi” destinati ad aprire poi le porte alla ricerca moderna. Ci sono voluti poi quasi quattrocento anni perchè il Vaticano nel 1992 con papa Giovanni Paolo II ammettesse l’errore con un tardivo e postumo mea culpa. Non ebbe però alcun dubbio quel 22 giugno 1633 il cardinale cremonese Desiderio Scaglia nel pronunciare le parole di condanna e, secondo alcuni storici, a scrivere materialmente la sentenza contro lo scienziato pisano. L’alto prelato era stato chiamato con altri nove giudici a confutare le tesi sostenute da Galileo un anno prima nei “Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano” pubblicato coi tipi del Landini.
Allora lo scienziato, ormai vecchio e malato, aveva raggiunto con le sue tesi, che condensavano una vita intera spesa negli studi, una fama indiscussa nel Vecchio Continente. Il processo aperto contro di lui nelle grigie stanze del convento romano di Santa Maria sopra Minerva, era destinato dunque ad avere una vasta eco in tutto il mondo allora conosciuto ed a segnare profondamente quello che si stava delineando come il primo, vero conflitto tra le concezioni egocentriche dell’Universo ereditate dall’adesione acritica alle Sacre Scritture, e le recenti scoperte scientifiche che ribaltavano quella visione.
Desiderio Scaglia, domenicano dell’ordine di San Carlo, era sicuramente la personalità di maggiore esperienza all’interno del collegio giudicante del Sant’Uffizio, in grado di confutare le argomentazioni dello scienziato pisano.
Nato a Cremona nel 1567 e morto a Roma il 21 agosto 1639, il cardinale aveva già avuto modo di incontrare Galileo partecipando al precedente processo celebrato nel 1616. Alla fase istruttoria aveva partecipato anche un altro inquisitore cremonese, Michelangelo Seghizzi, originario di Lodi e poi all’opera anche a Milano. Nel 1614 lo Scaglia era stato già nominato commissario generale presso il Sant’Uffizio e nel 1616 vescovo della sua città natale. In una lettera inviata da Milano nel 1615 al cardinale Mellino, Desiderio Scaglia mostra di avere dimestichezza con gli interrogatori praticati con l’utilizzo della tortura, difendendo l’operato mantenuto in quelle occasioni. Non a caso gli è stato attribuito uno dei pochissimi manuali inquisitoriali messi in circolazione della Suprema Congregazione romana in lingua volgare: si tratta della “Prattica per procedere nelle cause del S. Offizio e Relatione copiosa di tutte le materie spettanti al tribunale del S. Officio”.
Sempre nell’ottobre di quell’anno, su indicazione del cardinale Mellino, lo stesso si impegnava nell’istruttoria a carico di Galileo interrogando, possiamo immaginare con quali metodi, padre Ferdinando Ximenes dell’ordine dei Predicatori. Per l’indefessa attività al servizio dell’Inquisizione, Desiderio Scaglia era stato premiato da papa Paolo V con la promozione a vescovo di Molfetta nel 1621 e poi a cardinale.
In occasione del secondo processo a Galileo gli venne assegnato il compito di esaminare, con Benedetto Castelli, il contenuto dei “Dialoghi” per determinare i capi d’accusa. Ma, anzichè confutare le asserzioni tecniche, l’accusa fondava i propri capi di imputazione sulle presunte difformità con le verità contenute nelle Sacre Scritture, con un’impostazione più di tipo politico che scientifico, voluta dal papa Urbano VIII per debellare quella dottrina che, se tollerata, avrebbe potuto costituire un pericoloso precedente. Prevalse dunque la linea dura per sradicare un’idea che la Chiesa non riusciva a contrastare con la forza della ragione. Umiliando Galileo, costretto a negare la validità della sua teoria, i giudici dell’Inquisizione cercavano di umiliare anche la scienza, tentando di arrestarne lo sviluppo e l’evoluzione. L’immagine del grande uomo di scienza costretto a prostrarsi in ginocchio al cospetto del Tribunale, pur costituendo una vittoria indiscutibile per la Chiesa segnava nel contempo la sconfitta della civiltà occidentale.
La firma di Galileo Galilei

Le parole che Galileo deve pronunciare dinanzi ai membri togati dell’Inquisizione sono di fatto una resa incondizionata al potente giudice esaminatore. Oltre all’umiliazione dell’abiura sembra che a Galileo non sia stata risparmiata neppure la tortura: un espediente a cui si ricorreva quando sembrava che l’imputato non fosse del tutto convinto e sincero nelle sue parole. Il dubbio viene in seguito all’interpretazione da dare al termine “esame rigoroso” che spesso corrisponde all’uso della pratica. Nella sentenza contro Galileo compare spesso questa dizione ed è rimarcata anche dagli autori di pubblicazioni coeve al processo. Fra queste anche un manoscritto redatto dal nipote del grande inquisitore cremonese, Deodato Scaglia, vescovo di Melfi. Avendo assistito lo zio alle prese con il processo, Deodato annota: “se fu decretato di dar la corda repetita al reo, non è necessario farne menzione, ma basta dire, fu risoluto procedersi contro di te all’esame rigoroso”. Il ricorso alla corda sembra sia stato necessario in quanto la confessione di Galileo non aveva convinto del tutto i giurati. Sta di fatto che il ruolo avuto dal vescovo cremonese Desiderio Scaglia non fu dimenticato dai suoi conterranei.
Nel corso della sua lunga carriera di inquisitore Desiderio Scaglia fu al centro delle principali controversie del tempo, compreso il processo di Tommaso Campanella, figurò tra i firmatari delle sentenze riguardanti il vescovo di Spalato Marc’Antonio De Dominis, che aveva giudicato personalmente, e con ogni probabilità stilò di sua mano la condanna di Galileo Galilei.
Sono queste le pietre di una brillante carriera che portò Scaglia, prima della morte avvenuta nel luglio o nell’agosto del 1639, ad un passo dal soglio pontificio. Eppure anche lui non era esente da colpe, tant’è che tra le lettere inviate dalla Sacra Congregazione del Sant’Uffizio agli inquisitori di Bologna ve n’è una inviata dal cardinale Pompeo Arrigoni il primo settembre 1607, che sollecita un funzionario locale a cercare nell’archivio di San Domenico gli atti di un processo intentato proprio contro di lui, che in quel momento era inquisitore a Pavia, e la relativa condanna.
Una pagina della sentenza

E’ possibile che questa esperienza sfortunata servisse in futuro ad ispirare un criterio di moderazione al giovane inquisitore, a cui è stata attribuita la stesura di un diffusissimo manuale di inquisizione, la “Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum” in cui si danno suggerimenti sul corretto procedimento da tenere nei casi di stregoneria per contrastare la tendenza degli inquisitori a forzare le testimonianze in modo che si adattassero a schemi precostituiti. Il manuale circolò ampiamente nei tribunali periferici sottoforma di copie manoscritte. Scaglia criticava in particolare quei giudici che, solo per aver letto qualche libro di magia, erano convinti che le donne dedite alla stregoneria avessero compiuto una formale apostasia a Satana, arrivando a farle confessare cose mai pronunciate. Anzi, il Cardinale, nell’eventualità che iniziasse una confessione di apostasia, invitava gli inquisitori a dimenticare tutto quanto era stato detto e scritto sull’argomento, in quanto causa prima di gravi ingiustizie commesse nei confronti di imputate semplici e prive di cultura-
La stessa Instructio ci informa anche che i carcerieri, spesso appartenenti alle classi più incolte, spesso davano consigli illeciti su quali colpe confessare durante gli interrogatori. Condanne e abiure erano le forme più gravi di pubblica umiliazione, ed erano lette sulle gradinate delle chiese o durante le funzioni religiose, davanti ai fedeli nel principale centro abitato dell’area in cui era stato commesso il crimine. Ma spesso, in casi ritenuti imbarazzanti per la stessa Chiesa, in un luogo privato. Nel caso di reati connessi con le pratiche occulte, tuttavia, la Congregazione romana, ad esempio, diede ordine ai funzionari provinciali di non descrivere nella sentenza i riti magici compiuti, per non invitare all’emulazione. Sempre ai sortilegi è dedicato l’ottavo capitolo di un’altra opera di Desiderio Scaglia, rimasta manoscritta, la “Prattica” di cui abbiamo già parlato, curiosamente ripresa qualche anno più tardi in un secondo manuale, “La Prattica di procedere con forma giudiciale nelle cause appartenenti alla Santa Fede” del nipote Deodato Scaglia, vescovo di Melfi, anch’egli domenicano come lo zio. Una famiglia di inquisitori, dunque. Desiderio elenca una serie di atti da cui poteva derivare il sospetto di eresia, come l’abuso dei sacramenti o degli oggetti di culto, oppure i patti con il diavolo, o semplici pratiche superstiziose: dall’uso di pregare San Daniele o Sant’Elena, a quello rituale di fare scrutare giovani, ragazze e donne incinte in un’ampolla a lume di candela.
Il Sant’Uffizio in questi casi ammoniva a procedere con cautela, affidandosi a medici esperti. Desiderio Scaglia descrive anche gli inconvenienti che si verificano nei conventi femminili dove, a causa dei maltrattamenti subiti dalle semplici suore ad opera delle superiori, spesso le donne, prese dalla disperazione, accusavano le consorelle di averle stregate.
Ma ecco con quali accuse la commissione del Sant’Uffizio ha condannato all’abiura Galileo Galilei; la sentenza è stata probabilmente stilata da fra Desiderio Scaglia
“Diciamo, pronunciamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, nominato Galileo, per le ragioni emerse nel processo e da te come sopra confessate, ti sei attirato il sospetto da parte di questo Santo Uffizio di essere veramente eretico, cioè di avere mantenuta e creduta vera una dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, vale a dire che il Sole è centro per la Terra e non si muove da oriente a occidente, mentre al contrario la Terra si muove e non è centro del mondo, e di aver ritenuto possibile mantenere e difendere come probabile una teoria dopo che questa è stata dichiarata e definita contraria alla Sacra Scrittura; e che di conseguenza sei incorso in tutti i provvedimenti e nelle pene previste dalla legge sacra e dalle altre disposizioni generali e particolari assunte e promulgate contro simili colpevoli. Da esse ricaviamo che tu possa essere assolto purché prima, con cuore sincero e autentica fede, in nostra presenza tu abiuri, maledica e respinga i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore o eresia contraria alla Chiesa Cattolica e Apostolica, nel modo e nella forma che ti saranno da noi prescritti.
“E affinché questo tuo grave e dannoso errore e la trasgressione di cui ti sei reso colpevole non restino del tutto impuniti, e tu possa essere più cauto per l’avvenire e di esempio agli altri, onde si astengano da simili colpe, ordiniamo che con pubblico editto sia proibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei.
“Ti condanniamo al carcere formale in questo Sant’Uffizio a nostro arbitrio; e come penitenza per la salute della tua anima ti imponiamo di recitare per i prossimi tre anni una volta la settimana i sette Salmi penitenziali, riservandoci la facoltà di moderare, cambiare, togliere del tutto o in parte le pene e penitenze suddette”.
Questo, invece, il testo dell’abiura di Galileo.
Galileo davanti al Sant'Uffizio
“Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa.
“Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova.
“Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate”.