giovedì 13 giugno 2013

Il terribile Tarantasio


Benché al giorno d’oggi non ne esista più alcuna traccia, se non nella storia dei sedimenti geologici e nei toponimi antichi, il territorio compreso tra la parte meridionale di Bergamo e il nord di Cremona era in passato il bacino di una vastissima area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei fiumi Adda, Oglio, Serio, Lambro e Silero, conosciuta con il nome di lago, o mare, Gerundo. I primi accenni risalgono all’epoca romana (se ne fa riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio) ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico del VII secolo Paolo Diacono e di altri cronisti dell’epoca. Originatosi con tutta probabilità in seguito al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il lago, che già a partire dal XI secolo andò riducendosi di estensione, si prosciugò definitivamente nel corso del XII secolo. Tra le cause più accreditate di questa “misteriosa” scomparsa, vi sono le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi. Pur essendo difficile tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza il Gerundo si estendeva da Brembate (BG) a nord fino a Pizzighettone a sud, lambendo con le sue acque la città di Lodi a ovest e Grumello Cremonese a est. Al suo interno, il lago conteneva una lunga striscia di terreno, detta isola della Mosa prima e Fulcheria poi, sulla quale in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata Crema.
Ma più che il lago, nell’immaginario e nei luoghi della pianura padana, sono rimaste vive le tracce del suo antico abitante, Tarànto, Tarantasio o Tarando, il leggendario drago acquatico che ne avrebbe infestato le acque sino al suo prosciugamento. Proprio da questa mitologica creatura prenderebbero il nome Taranta, frazione di Cassano d’Adda, così come le numerose vie della Biscia site nei paesi che all’epoca si ritrovavano lungo le coste del lago. Ma una testimonianza ancor più tangibile la si aveva a Calvenzano (BG), dove gli abitanti del luogo avevano eretto un muro alto tre metri e lungo 15 chilometri per difendersi dagli attacchi del mostro. E nel 1110 il monaco Sabbio parla di torri dotate di anelli per l’ormeggio delle barche, le cui rovine sono sopravvissute sino ai nostri giorni. Alla base della leggenda del Tarantasio è probabile che ci siano i numerosi reperti conservati tuttora o in passato nelle chiese del Bergamasco, del Cremonese e del Lodigiano. Si tratta di ossa di eccezionali dimensioni custodite come reliquie e attribuite proprio al temibile abitante del lago Gerundo. Dal soffitto dell’abside della chiesa di Almenno S. Salvatore pende una gigantesca costola animale della lunghezza di 260 cm, che secondo la tradizione sarebbe appartenuta ad una creatura catturata nei pressi del fiume Brembo. A soli 3 km di distanza, un altro reperto simile, della lunghezza di 180 cm é conservato all’interno del Santuario della Natività della Beata Vergine di Sombreno. Si narra che provenisse da un drago del Gerundo, ucciso da un giovane eroe. La costola attirò l’attenzione del naturalista Enrico Caffi, al quale è dedicato il Museo di Storia naturale di Bergamo, che la identificò come appartenente ad un mammuth. Infine nella parrocchia di Pizzighettone, presso la sacrestia della chiesa di S. Bassiano, è custodita una costola lunga 170 cm. La presenza di questi curiosi oggetti non deve però stupire, dato che spesso ossa di animali esotici, come ad esempio capodogli o elefanti, erano portate in dono da pellegrini giunti da terre lontane. Inoltre, non dobbiamo rimanere perplessi nemmeno di fronte alle cronache dell’epoca, secondo cui le ossa sarebbero state rinvenute in loco, dato che nell’area del Gerundo non sono infrequenti i ritrovamenti di ossa fossili appartenute a mammuth o altri animali preistorici. Dietro la nascita di molte leggende sui draghi ci sarebbero i resti di dinosauri o di altri giganteschi esseri del passato.
Nel 1995, ad esempio, il Corriere della Sera ha riportato la notizia di un’enorme vertebra di un animale preistorico ritrovata nei fondali del fiume Adda nei pressi di Pizzighettone, alta 75 centimetri, con una base di 39 e la sede circolare di un diametro di 16 cm.
Per quanto ne sappiamo però, tutte le costole che rientrano all’interno di una documentazione storica più o meno attendibile, sono posteriori alla bonifica delle zone ed al prosciugamento del Gerundo: questi reperti avrebbero così contribuito ad alimentare la leggenda di Tarantasio e dei suoi simili, ma non è altrettanto certo che siano anche state la causa della loro origine, per risalire alla quale si rende forse necessario affrontare una particolare caratteristica dei draghi: il loro alito pestilenziale.
Nel Medioevo non era infrequente attribuire morti improvvise od inspiegabili alla minacciosa presenza di misteriosi rettili ed il caso del basilisco è un esempio lampante di questo.
Molto spesso questa mitologica creatura, che secondo la tradizione nasce da un uovo di gallo covato da un rospo, prendeva dimora di pozzi le cui acque avvelenavano tutti coloro i quali ne attingessero.
Secondo una leggenda nel IV secolo San Siro liberò la città di Genova da un basilisco che si era insidiato in un pozzo, mentre a Vienna sarebbe esistita una lapide che recava iscrizioni secondo le quali nell’anno 1202 un pozzo infestato da un basilisco fu sotterrato dopo che numerose persone erano morte per essersi ivi abbeverate.
Secondo il criptozoologo Maurizio Mosca (autore, tra gli altri, del volume “Mostri dei laghi”, edito da Mursia) inoltre, le leggende sul drago potrebbe essere state suscitate dalla presenza nel Gerundo di storioni di eccezionali dimensioni, in grado per la loro conformazione anatomica di essere scambiati per grossi biscioni, o di coccodrilli importati da terre esotiche.
A tale proposito esiste l’affascinante reperto custodito nella chiesa di Ponte Nossa in provincia di Bergamo: un coccodrillo impagliato lungo tre metri, di cui parla un documento conservato presso la Curia di Bergamo, risalente al 1594. La tradizione orale narrava che un nossese, invocando la Vergine di Campolungo, avesse ucciso il coccodrillo, partito dal Nilo, a Rimini. Tuttavia altre versioni narrano di un grosso rettile che infestava le acque del fiume Serio catturato da alcuni abitanti e portato nella chiesa come ringraziamento alla Madonna. Ma mentre sappiamo che questi rettili vivevano in alcuni fiumi della Sicilia sino al 1600 dopo che furono importati dagli arabi, individui di una popolazione presumibilmente esigua difficilmente avrebbero potuto sopravvivere a lungo nel Nord Italia. Tuttavia un analogo esemplare è conservato presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie di Mantova, catturato, secondo la tradizione, nelle acque del Mincio, altri sono conservati nella chiesa di Santa Marta a Como e presso il Sacro Monte di Varese. Altri santuari ‘conservano’ analoghi rettili, appesi al soffitto, come quello di Curtatone (MN), Montallegro (Rapallo, GE), San Michele Extra a Verona (dove venne tolto per ‘restauro’ e poi collocato in diversa sede), nella Farmacia del Monastero di Camaldoli a Poppi (AR), nel santuario di Nostra Signora delle Vergini a Macerata, o nella chiesa di San Giorgio a Ragusa Ibla, in Sicilia.
In ogni caso la leggenda del Tarantasio, ben lungi dal finire archiviata assieme ai documenti d’epoca, dopo aver acceso l’immaginazione dei nostri antenati ha continuato ad affascinare anche i contemporanei. Cosa hanno infatti in comune le grandi ossa conservate in alcune chiese cremonesi e bergamasche con il cane a sei zampe, simbolo dell’Eni? Semplice: il mitico Lago Gerundo e il suo misterioso abitante, il mostro Tarantasio. Il Tarantasio, nelle leggende popolari, era rappresentato come un’enorme biscia oppure come un drago acquatico, da cui avrebbe preso spunto il simbolo del cane dell’Eni, che proprio nell’area occupata dal Gerundo scoprì vasti giacimenti di gas metano.
La leggenda del drago del Lago Gerundio fu infatti fonte di ispirazione per lo scultore Luigi Broggini che prese a modello Tarantasio per ideare l’immagine del cane a sei zampe, marchio simbolo dell’Eni. Nelle “bassure” della Lodi Nuova le esalazioni erano mefitiche, oltre che spesso mortali: probabilmente provocavano la malaria. Si era così diffusa la voce che nella melma vivesse il drago Tarantasio, che oltre a emanare tremendi odori ogni tanto emergeva, sbuffando una lingua di fuoco. Gran sollievo provarono i lodigiani, quando una piena portò nella “bassura” un osso gigantesco, probabilmente un resto di dinosauro, che loro presero per un osso di Tarantasio, finalmente morto. Racconta Ferruccio Pallavera: “Quando, nel 1945, Enrico Mattei prese in mano l’Agip, fu subito informato che in zona era stato individuato un giacimento di gas naturale. Mattei fece scavare altri pozzi e trovarono il metano. E il cane a sei zampe con la lingua di fuoco dell’Agip altro non sarebbe che Tarantasio, il drago che tanto aveva impressionato la fantasia degli antichi lodigiani”.
A partire dai primi ritrovamenti di Caviaga nel 1946 e fino al 1952, Enrico Mattei aveva puntato dritto al petrolio, per scoprire molto presto che il tesoro più abbondante della “cassaforte a cielo aperto”, la pianura Padana, era in realtà quel gas metano che in pochissimi anni avrebbe dato energia alla grande industria del nord Italia. Mattei aveva però bisogno di far credere, all’opinione pubblica e alla classe politica, che il petrolio c’era e in abbondanza e che il paese poteva contare su una propria benzina, finalmente prodotta e raffinata “in casa”. Inizia allora a imprimere una forte accelerazione alla modernizzazione del ramo commerciale di Eni attraverso un’immagine pubblicitaria al passo dei tempi, in grado di coniugare ottimismo, velocità e progresso. La creazione del marchio del cane a sei zampe, legata alla promozione delle benzine prodotte nell’impianto di Cortemaggiore, doveva essere l’esempio di quella realtà italiana “che ce l’aveva fatta”.
Tutto comincia nel 1952, quando il cane a sei zampe opera dell’artista Luigi Broggini viene premiato ad un concorso pubblicitario indetto da Eni. Il nuovo simbolo desta da subito curiosità, che si alimenta nel corso degli anni per la ritrosia dell’autore a riconoscerne la paternità. Broggini è un intellettuale e la pubblicità non è considerata espressione artistica. Al cane a sei zampe, di fatto, manca un padrone che ne indichi l’indole e le caratteristiche.
L’assenza di una spiegazione sull’origine di quella strana creatura - un po’ cane un po’ drago - dà vita a numerose interpretazioni che finiscono per alimentarne il mito. Il drago-cane di Broggini-Guzzi era rivolto in avanti, ed emetteva la fiamma in avanti. Poteva sembrare che avesse l’intenzione di bruciare qualcuno.
Lo stesso Mattei lo considerò “aggressivo”, per cui la posizione della testa, e di conseguenza la fiammata, furono corrette all’indietro, anche se così la postura del cane non apparve del tutto naturale.
Il marchio con il cane a sei zampe venne presentato per la prima volta nel 1954 e subito divenne il marchio dell’Eni, nata l’anno precedente. Come autore del bozzetto figurò il designer Giuseppe Guzzi. Broggini non ammise mai la paternità dell’opera, che gli fu attribuita dopo la sua morte (avvenuta nel 1983) in base alle testimonianze del figlio.
Anche l’elemento più caratteristico dell’iconografia araldica dei Visconti, antichi signori di Milano, é senza dubbio il sinuoso “serpentone” ritratto nell’atto di ingoiare uno sventurato essere umano, ma le leggende circa la sua reale origine sono talmente diversificate e numerose che risalire ad una sicura genesi storica é impresa praticamente impossibile. Tra le varie storie riguardanti la morte del Tarantasio, una accredita infatti l’uccisione del biscione a Uberto Visconti, giunto in soccorso di un fanciullo. Tuttavia tale ipotesi riguardo la leggendaria origine del simbolo di Milano sarebbe poco plausibile, dato che l’adozione dello stemma del drago da parte del capoluogo lombardo sarebbe antecedente la nascita di Uberto.
A contendersi il merito dell’uccisione del Tarantasio con il Visconti è nientemeno che San Cristoforo in persona, che secondo una leggenda locale sarebbe stato invocato dal vescovo di Lodi Bernardo Tolentino e avrebbe fatto prosciugare il lago Gerundo provocando così la morte del suo “fastidioso inquilino”. Di qui il voto di far restaurare la chiesa di San Cristoforo a Lodi, effettivamente ristrutturata nel 1300.
Nel suo “De Magnalibus Mediolani” Bonvesin de la Riva riporta: “Viene offerto dal comune di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso: e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro: e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede sventolare da un’antenna l’insegna della biscia. Questo privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i saracini da un Ottone visconti valorosissimo uomo”.
Il cronista Galvano Fiamma, riferendosi sempre allo stesso episodio, lo ha tramandato ai posteri con maggiore dovizia di particolari, spiegando che durante l’assedio di Gerusalemme Ottone sconfisse in un duello il terribile nobile saraceno Voluce, che per sottolineare la sua presunta invincibilità, era solito combattere sotto il simbolo di un serpente che ingoiava un uomo.
Un’altra versione vuole invece che dopo la morte di San Dionigi un drago giunse nei dintorni di Milano trovando dimora in una grotta situata oltre le mura della città. Dopo diversi infruttuosi tentativi di uccisione da parte di disparati cavalieri, giunse a Milano Uberto Visconti che affrontò e sconfisse il mostro prima che quest’ultimo potesse ingoiare del tutto un fanciullo che aveva già cominciato a ghermire tra le sue fauci.
I più romantici saranno di certo disposti a collegare tra loro la leggenda di Uberto e quella dei draghi dell’antico Gerundo.

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