sabato 9 marzo 2013

L'hombre de palo


A Toledo c'è una via, la "Calle de hombre de palo", cioè dell'uomo di legno. Secondo la leggenda, si trattava di un automa che si recava a fare la spesa quando il suo padrone, tormentato dai reumatismi aveva ormai perso l'uso delle gambe. Un uomo di legno, appunto, anche se, con ogni probabilità di trattava di una sorta di imbragatura lignea, governata da leve azionate dalle mani, che consentiva di camminare con arti artificiali. L’hombre de palo è probabilmente l’ultima e più spettacolare creazione del leonardo cremonese. In Spagna Janello Torriani è venerato come tale, a Cremona, se si eccettua la via a lui dedicatae  la sede dell’Istituto Tecnico Industrali che ne ha preso il nome del 1981, è pressochè sconosciuto. Eppure Torriani è una delle personalità più originali ed estrose del Rinascimento che meriterebbe, soprattutto dalla sua città, maggior considerazione.  A Cremona era nato in un giorno imprecisato dei primi anni del sedicesimo secolo. Assurda, forse, la confidenza e la fiducia che il re di Spagna riponeva in quel suo suddito geniale che vantava d'esser nato a Cremona, era solo un orologiaio ma  doveva essere anche un vero e proprio genio matematico oltre che un realizzatore capace di mettere in pratica, e in tempi necessariamente brevi, tecnologie nuove e rivoluzionarie utilizzabili non solo per scopi militari, ma pure nelle grandi opere civili. Iannello (perché questo fu il suo vero nome italiano) Torriani era nato a Cremona, in piena dominazione spagnola, tra il 1500 ed il 1515: con ogni probabilità, secondo lo storico spagnolo Garcia Diego, nel 1511: certamente da umili origini, forse contadina, esponente povero di quella grande famiglia dei Torriani, o Torrigiani che era calata in massa dalla Valsassina, secoli prima, migrando verso Milano, Crema e quìndi su Cremona. Una leggenda ancora, priva comunque di qualsiasi fondamento storico, vorrebbe il più famoso orologiaio di ogni tempo, quel genio celebrato dell'ingegneria idraulica e meccanica, vedere la luce in una notte di tempesta proprio nel momento in cui uno dei tanti fulmini che si abbatterono nei suoi tanti secoli di storia sul Torrazzo, ne distruggeva il famoso orologio.
"Novello Archimede, principe degli artifici, brutto come bue in forma umana, ma acutissimo di cervello". Ecco come Garcia Diego descrive il più famoso tra i “fabbricieri di artifici" al servizio della cattolicissima corona di Spagna. "Fabbricieri" erano, allora, quei maestri di agricoltura che, immessi nel sistema della "encomienda" che era poi la terra assegnata ai Commendatori della Corona di Spagna, avrebbero dovuto divulgare nel mondo, nelle intenzioni della Corona di Spagna, le tecniche agrarie maturate in Lombardia, terra solcata dai fiumi e considerata la più fertile di quell'Impero su cui mai tramontava il sole. Studiando e diffondendo elementi di ingegneria idraulica e molitoria giunsero al punto alla fine del XVI secolo di fondare la specifica cattedra "cremonese" di Coimbra grazie al lavoro del benedettino Don Joao Torriani a sua volta, con ogni probabilità, nipote di Jannello che, proprio per appartenere all'ordine dei benedettini, doveva essere espertissimo di coltivazioni e bonifiche. Jannello Torriani, a Cremona, già negli anni della sua prima adolescenza, era stato individuato come un precocissimo talento dal medico, filosofo e matematico Giorgio Fondulo, un cattedratico dell'Ateneo di Padova che lo aveva guidato nelle prime ricerche e indirizzato negli studi di meccanica ed astronomia. L'allievo di Fondulo prometteva un grande avvenire: sarebbe stato un eccellente meccanico delle sfere celesti, un maestro nella difficile arte dell'aequatorium, un principe degli orologiai degno, un giorno, di stare, come "Principe degli artifici" al fianco del grande imperatore. Sì, perché quando gli eventi, grazie a Carlo V cambiarono, allora fu anche il tempo di aggiustare gli orologi astronomici delle grandi torri: per segnare il tempo nuovo di un nuovo regno. L'orologio della Torre Viscontea di Pavia era guasto da tempo, ma era opera di un genio, il Dondi, capolavoro assoluto di ogni età (tuttora lo si conserva presso lo Smithsonian Museum di Washington): a nessuno era riuscito di rimetterlo in sesto neppure in occasione della incoronazione di Carlo V che era avvenuta in Bologna nel 1530. Il solo Jannello vi riuscì, ma per rifarlo, e più complicato di prima, impiegò quasi vent'anni. Però, una volta veduta l'opera, re Carlo che per gli orologi aveva una vera e propria mania, volle con se l'orologiaio di Cremona che l'aveva compiuta. Così cavalcarono insieme per anni nelle guerre di Sassonia e poi in Fiandra ove Iannello inventò macchine da guerra e giochi per divertire, secondo i racconti dell'abate Strada: "un mulino era così piccolo da stare nella manica d'un monaco e pure macinava grano per otto persone al giorno: uccelletti di legno volavano via per al finestra e poi rientravano dalla stessa; marionette facevano battaglie tra fulmini, tuoni e piogge". Ormai si era affermata la fama della maestria di Jannello nell'aequatorium ossia l'arte di costruire orologi planetari e negli "automata" pupazzi e bambole danzanti ora sparsi nei musei di mezza Europa, ma soprattutto nelle sfere armillari: quelle da lui costruite in giovane età già contenevano i presupposti della riforma gregoriana del calendario che si sarebbe concretata mezzo secolo più tardi, nel 1582. Jannello ebbe pure una squisita sensibilità musicale, se è vero che, interpellato circa l'intonazione delle campane del monastero dell'Escurial, ordinò a mente i pesi esatti e le forme delle campane soprano, contralto, tenore e contrabbasso senza l'uso di scrittura o comunque di verifiche sperimentali. Le realizzazioni per cui Jannello andava famoso furono comunque gli “automata", quelle specie di robot, capaci di fare determinate cose che, fin dal tempo degli egizi l'uomo si era appassionato a costruire e proprio Jannello, vista la familiarità di questi meccanismi con quelli degli orologi, ne divenne il costruttore più abile a fantasioso. E' curioso, tra l'altro, come molti testi parlino dell'arte del Torriani nel costruire orologi, ma nessuno lo menzioni direttamente come ideatore di "automata" lasciando alla leggenda questa prerogativa, ma proprio la leggenda gli attribuisce la costruzione di quegli "androidi" che sono senz'altro i più difficili da realizzare tra gli automi. Al Kunsthistorisches museum di Vienna è conservata la "danzatrice" il primo "automata" attribuito a Jannello Torriani, capace naturalmente di danzare. Anche esteriormente la realizzazione appare stupenda; la capigliatura fulva, i particolari curatissimi nonostante le piccole dimensioni, il portamento maestoso, splendido il vestito, e il meccanismo le consente movimenti straordinari. Il "frate" è invece conservato al Museo di Washington. E' alto solo 39 cm. ed è programmato per percorrere un quadrato di circa 60 m. di lato. I piedi sono visibili, si muovono spuntando sotto l'abito, però corre su piccole ruote e compie piccoli movimenti con le braccia come a dare la benedizione e muove costantemente la testa assentendo, aprendo e muovendo la bocca e gli occhi. In pratica, con il rifacimento dell’orologio di Pavia e in venti e più anni di studi profondi e di geniali intuizioni sempre realizzate nella pratica, Jannello aveva ormai completamente trasformato la concezione dell'orologio astronomico e anche probabilmente aperto studio a Milano, a Porta Nuova quando, intorno alla metà del secolo, gli giunse la nomina da parte di Carlo V a "Principe degli orologiai" naturalmente con adeguato, lauto appannaggio: cadeva esattamente l'anno 1552: dopo il rientro dalla guerra di Fiandra tornò a Toledo ove continuò a stupire, "novello Archimede" secondo lo Strada, "creando giochi di fontane di acqua e di luoco, piogge dirottissime e tuoni strepitosi e titeres" (soldatini di piombo a piedi e a cavallo che combattevano e suonavano il tamburo o la tromba) e ancora "passeri di legno in grado di volare, ed un orologio incastonato nell'anello dell'Imperatore." E' probabile dunque che dalla sua scuola siano nate le idee che hanno portato a costruire impianti di sollevamento delle acque sia alla Melotta, sia in altre località vicine, piccoli se si vuole, rispetto alla maestosa grandiosità del "Molino di Toledo", ma basati sugli stessi principi, gli stessi meccanismi, tanto da esser definiti da qualche tecnico "l'ottava meraviglia" del territorio cremonese. Le prove effettuate dal Torriani aprirono senza dubbio la strada ad una nuova interpretazione delle leggi idrauliche anche sulla scorta delle innovazioni che già aveva portato da Leonardo da Vinci e che si evincono nel Codice Atlantico. Si aprì la strada a nuove realizzazioni soprattutto in Olanda e in Inghilterra e certamente in Lombardia se è vero che proprio nel cremonese apparve, ancor prima, un'altra probabile creazione di Jannello, il mulino a tre ruote che proprio l'Imperatore Filippo Il regalò alla famiglia Schizzi perché venisse utilizzato nel fondo che la stessa possedeva a Fiesco  già nel 1555 e di cui sembra purtroppo scomparsa ogni traccia. Filippo Il stava con le sue truppe nel bosco di Segovia (correva l'anno del Signore 1563) quando si vide costretto a prendere una decisione che avrebbe lasciato un segno nella storia, quella di concedere licenza a "Juanelo" Torriani, di sottrarsi alla sua presenza. La motivazione era quella di poter costruire "otros artificios": si pensa alludesse all'acquedotto, anzi al Mulino di Toledo. Il problema da risolvere era quello di sollevare l'acqua del Tago di un'ottantina di metri attraverso una gittata idrica lunga almeno mezzo chilometro: la distanza corrente tra il fiume e il celebre Alcazar. L’Architetto Massimo dell'Impero già aveva incaricato e fatto far prove a fiamminghi e tedeschi, ma il problema del mulino del Tago che avrebbe dovuto sollevare le abbondanti acque del fiume pareva di sempre più impossibile risoluzione quando il re, constatando, davanti ai suoi dignitari, il fallimento di tutti i tentativi pronunciò la frase che avrebbe reso famoso l'orologiaio cremonese: "Un hombre solo tiene poder: mi orolojero!". Juanelo raggiunse Toledo pensando probabilmente di poter applicare quella pompa premente aspirante di cui gli si attribuisce l'invenzione, ma dovette ben presto accorgersi che non esisteva materiale capace di resistere alle pur poche atmosfere di pressione necessarie per far funzionare l'impianto. Costruì allora un elevatore, cioè una robusta corda di canapa cui stavano attaccati dei vasi di coccio che prelevavano l'acqua dal fiume, poi applicò la "forbice di Norimberga" costituita da canali oscillanti e vasche autosvuotanti in serie progressiva mossi da parallelogrammi articolati e disposti in salita secondo un lungo piano inclinato e alla fine "in terris coelo, in coelo flumina traxit" e uno dei palazzi più belli del mondo ebbe l'acqua necessaria alla sua stessa sopravvivenza. La macchina così concepita e costruita doveva essere abbastanza costosa per quanto concerne la manutenzione, ma fu comunque giudicata un prodigio della meccanica, ma il lavoro di Juanelo a Toledo non finiva lì: sorse infatti ben presto la contestazione da parte del popolo privato dell'acqua a favore dell'Alcazar. Allora Jannello mise mano, era il 1575, alla seconda grande macchina idraulica della città che fu terminata ben sei anni più tardi e fu la sua ultima realizzazione. Vecchio e malato, creditore di una mezza fortuna che sarebbe stata saldata dalla Corona solo dopo la sua morte, firmò il testamento in favore della figlia Barbara Medea. Juanelo entrò nella storia dell'ingegneria idraulica proprio per aver costruito l'impianto che, come scrissero poeti e cantastorie, "portava le acque del Tago verso il cielo", ma anche nella leggenda. Ricordavano infatti che solo pochi anni prima un altro genio, Leonardo da Vinci, aveva scritto che "l'acqua per sua natura sempre scende e mai può andare verso l'alto", ma Juanelo, nella sua quasi infernale capacità di inventare meccanismi, era riuscito a smentirlo volgendo al contrario una delle leggi di natura che sembravano insuperabili. 

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