domenica 9 dicembre 2012

Il tesoro di Nerone


I frammenti del servizio in porfido rosso di Nerone

Quel gran pettegolo di Svetonio forse aveva ragione. Aveva ragione quando raccontava di come quel pazzo di Nerone, dopo aver dato fuoco a mezza Roma per costruirvi la sua Domus aurea, l’aveva poi infarcita di ogni sorta di preziosità artistiche, compreso un ineffabile servizio in porfido di cui si era persa già ai suoi tempi qualsiasi traccia. Suppellettili rarissime, realizzate in un materiale estremamente difficile da lavorare, uniche nella loro preziosità e degne per questo di arredare la sontuosa dimora imperiale. Ebbene tracce di quel servizio, quattro frammenti estremamente significativi, visto che un altro di identica fattura è conservato solo nei musei di Berlino, sono stati forse ritrovati in una stanza di quella che ormai viene definita dagli archeologi la “domus degli uccelli” di piazza Marconi. La domus degli uccelli presenta intatta un’unica stanza, appartenente al gruppo degli ambienti di rappresentanza, scampata miracolosamente all’incendio appiccato dai flaviani nell’autunno del 69 dopo Cristo: sulle sue pareti affrescate in azzurro, uno dei colori preferiti dal mitico Fabellus, il pittore di Nerone, campeggiano centinaia di volatili. Era sicuramente l’ambiente più lussuoso della villa che, a sua volta, occupava con il giardino la superficie destinata all’intera insula. La domus doveva essere arredata con mobili degni dei suoi abitanti: oltre agli oggetti che aiutano alla ricostruzione della vita di tutti i giorni ci sono oggetti di gran lusso che permettono di intravedere un tenore di vita davvero di altissimo livello. Lo scavo della stanza 8 ha restituito alcuni oggetti straordinari tra cui frammenti di due recipienti (un piatto e un vassoio forse per la toeletta) in porfido egizio, si tratta di reperti rarissimi che provengono normalmente da ambienti legati alla famiglia imperiale di cui ci sono pochissimi esemplari fuori contesto cioè non databili o collocabili cronologicamente. I pezzi di Cremona sono gli unici databili con precisione poiché si trovano sotto gli strati della distruzione del 69 d.C., nella casa di età augustea. Sempre da quella stanza proviene un frammento del panneggio di una statua a grandezza naturale di fattura raffinatissima. Il servizio in porfido potrebbe provenire proprio dalla dimora neroniana. Sarebbe stato Otone, sfortunato protagonista dell’anno funesto dei quattro imperatori, a portarle con sé da Roma, dopo aver ricevuto la corona imperiale dal Senato, nel quartiere generale di Brescello, dove il 16 aprile del 69, avuta notizia della sconfitta nella prima battaglia combattuta alle porte di Cremona, si suicidò. Il tesoro di Nerone, prelevato da Otone dalla domus aurea, per la quale era presumibilmente stato forgiato, sarebbe stato portato a Brescello e da qui, dopo il suicidio dell’imperatore sconfitto, da Vitellio nella villa di piazza Marconi, prima che questo, a sua volta, si recasse a Roma per ricevere l’incoronazione da parte del Senato. Che Otone potesse avere con sé parte del corredo imperiale è giustificato anche da un altro particolare. La notte in cui si suicidò bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici, consigliò i soldati di affrettarsi a fare atto di sottomissione a Vitellio, non volle dare ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, e, soprattutto, scrisse una lettera alla sorella ed un’altra a Statilia Messalina, vedova di Nerone, che aveva intenzione di sposare. Otone apparteneva ad una antica e nobile famiglia etrusca residente a Ferento in Etruria, interessante sito archeologico nei pressi di Viterbo. Sembrava inizialmente essere uno dei più incauti e stravaganti giovani che circondavano Nerone e questa legame, che poi si protrasse anche dopo il suicidio dell’imperatore, fu interrotta bruscamente nel 58 a causa di una donna. Poppea era stata presa al marito da Nerone per farne la sua amante. La decenza richiedeva che lei fosse maritata e così l’imperatore la diede in moglie al suo favorito Otone convinto che non avrebbe avuto problemi da questi. Ma Otone si innamorò di lei e, quando venne il momento, rifiutò di mandarla a Nerone. Dopo minacce e appelli dell’imperatore, il matrimonio fu annullato ed Otone mandato come governatore nella remota provincia di Lusitania. 

Un altro personaggio chiave della vicenda è Cecina Alieno. Cecina Alieno era stato dapprima alleato di Servio Sulpicio Galba che, all’inizio del 68, aveva dato corso in Gallia alla prima ribellione contro Nerone. Il 19 giugno del 68 Nerone muore suicida, mentre in Spagna Galba recluta una nuova legione assegnata a Antonio Primo che, l’anno dopo, avrà un ruolo fondamentale nella distruzione di Cremona. Dopo aver ottenuto il titolo di Augusto Galba si dirige verso Roma, dove giunge in autunno. Nella capitale Galba non riesce a costruire attorno a sé un degno consenso e non riesce a consolidare neppure presso le legioni il suo potere, al punto che lo stesso Cecina suggerisce alle truppe a lui affidate di acclamare imperatore Aulo Vitellio, già comandante della regione militare del basso Reno e console nel 48.
A Roma la situazione precipita: il 15 gennaio del 69 Galba viene ucciso nel foro per mano del suo ex alleato Otone che ottiene subito l’investitura dal Senato dando origine ad una situazione paradossale. Gli imperatori sono a questo punto due: Aulo Vitellio impegnato in Gallia a reclutare un suo esercito; Otone, riconosciuto dal Senato, ma non dalle legioni della Britannia e del Reno, ed un terzo aspirante, quel Vespasiano che per il momento preferisce attendere defilato in Palestina lo svolgersi degli eventi. Ad Otone non rimane altro che cercare di difendere il suo titolo imperiale muovendo alla volta della Gallia Cisalpina, per affrontare da un lato l’esercito di Cecina Alieno e Fabio Valente, forte ormai di circa cinquantamila uomini fra legionari ed ausiliari, che si appresta a valicare il Gran San Bernardo per scendere nella Pianura Padana, e dall’altro per cercare di congiungersi con il resto delle truppe rimastegli fedeli nelle regioni danubiane. Muove dunque da Roma con circa 25.000 uomini e duemila gladiatori, con carriaggi e materiali con l’obiettivo di assestarsi lungo la sponda meridionale del Po, disponendosi a semicerchio tra Piacenza, all’incrocio tra la via Emilia e la Postumia, Brescello e Modena. E’ in questa fase che con ogni probabilità Otone, non confidando nella situazione, porta con sé parte del tesoro neroniano prelevato dalla domus aurea trascinandosi dietro anche quei senatori ritenuti inaffidabili che posizionerà poi nell’avamposto di Modena. Vitellio, dal canto suo, ha la preoccupazione di raggiungere il più presto Roma per impedire al suo avversario di rafforzarsi ed ottenere dal Senato quel riconoscimento che gli potrebbe consentire di gestire le risorse statali. Di fatto, però, bisogna prima assumere il controllo della Cisalpina, tappa obbligata per chiunque voglia dirigersi a Roma, cercando di impedire il ricongiungimento delle varie forze in campo. Cecina ha la fortuna di trovare la via più breve, favorito da una primavera precoce, che gli consente di giungere a Cremona, come detto, verso il 20 marzo. Vi si ferma e stabilisce la sua base operativa in un campo fortificato vicino alla città, fra la via Postumia e quella che conduce a Brescia. Per evitare di rimanere accerchiato tra le truppe di Otone che giungono a sud e quelle a lui fedeli provenienti dalle regioni del Danubio Cecina ai primi di aprile tenta di aprirsi un varco dando battaglia agli otoniani sulla Postumia, nei pressi della località chiamata Ad Castores, per la vicinanza ad un tempietto dedicato ai Dioscuri, ma la manovra si risolve in un massacro di ausiliari.

Nel frattempo Otone giunge in prima linea prendendo posizione a Brescello, mentre il nucleo più forte del suo esercito si stabilisce dapprima fra Ostiglia e Verona, per intercettare i vitelliani in marcia sulla Postumia orientale, e poi nei pressi di Bedriaco. Ai primi di aprile giunge a Cremona anche l’esercito di Fabio Valente ed i vitelliani sono ormai pronti a dichiarare battaglia. A questo punto Otone, prendendo tutti di contropiede, decide di attaccare per primo, rimuovendo i due fidi generali che lo avevano sconsigliato, Suetonio Paolino e Mario Celso. La decisione è stata criticata dagli storici antichi ma probabilmente, come ha dimostrato Domenico Vera nel capitolo riservato all’anno più lungo nel primo volume della storia di Cremona dedicato all’età antica, la scelta di Otone derivava dal fatto che i vitelliani erano impegnati nella costruzione di un ponte di barche davanti a Cremona che se fosse stato ultimato in tempi brevi, avrebbe consentito agli avversari di imboccare la via Emilia dirigendosi direttamente a Roma. Ritornato a Brescello Otone decide in gran segreto di attaccare la mattina del 13 aprile, ma per non destare sospetti, decide di accamparsi poco lontano dalla Postumia, preferendo ripartire la mattina successiva. Ma l’effetto sorpresa non funziona. La colonna è troppo lenta a causa dei materiali trasportati, e quando arriva a 4 miglia da Cremona, dopo aver percorso venti chilometri sulla Postumia è ormai stremata. L’esercito è mal disposto e non riesce a muoversi con la necessaria velocità a causa delle salmerizie e del terreno, continuamente interrotto da filari di viti e da canali. Nonostante nelle truppe di Otone figurino la temibilissima legione XIII Gemina e la XIV Gemina, celebre per aver sedato la rivolta in Britannia, l’urto con i vitelliani è tremendo, grazie soprattutto all’intervento provvidenziale degli ausiliari Batavi guidati dal prefetto Alfeno Varo.
Cassio Dione racconta di quarantamila morti, ed anche se le stime potrebbero essere esagerate, di fatto ancora un mese dopo i campi erano cosparsi di cadaveri lasciati insepolti. Il giorno seguente iniziano le trattative di pace tra Cecina ed i generali otoniani, quasi tutti veterani collegati in qualche modo agli attuali vincitori attraverso servizi precedenti.
Nel frattempo le truppe sconfitte si arrendono, aprono gli accampamenti e consentono l’ingresso dei vitelliani. Otone, raggiunto dalla notizia a Brescello, si suicida come abbiamo visto il 16 aprile. E’ probabile a questo punto che quanto poteva costituire il bagaglio “imperiale” passasse al vincitore.
Vitellio, può dunque fare il proprio ingresso a Cremona verso la fine di maggio per assistere allo spettacolo gladiatorio che Cecina gli ha fatto allestire nell’anfiteatro, realizzato in legno nel giro di soli quaranta giorni per punizione dai legionari della XIII Gemina, irrisi dai cremonesi. Porta con sé il bottino sottratto a Otone, che può costituire un valido aiuto economico nel corso delle successive iniziative militari. 
Ma intanto il vento cambia e per Vitellio, che nel frattempo è entrato in Roma riconosciuto dal Senato, si prepara un nuovo scontro con i sostenitori di Vespasiano, che aveva preferito attendere in Giudea l’esito degli eventi della guerra civile. Riconosciuto imperatore ai primi di luglio ed ottenuto il sostegno delle due legioni d’Egitto, delle province orientali e delle legioni danubiane, Vespasiano elabora un piano di conquista dell’Italia che avrebbe previsto solo l’occupazione di Aquileia da parte delle legioni più vicine in attesa di rinforzi. Ma Antonio Primo, comandante della legione VII Galbiana decide di far da sè mettendosi d’accordo con Cecina, a cui lo legava da anni un rapporto d’amicizia. Agli inizi di settembre Primo si è già impadronito di alcuni centri strategici della Venezia orientale, come Aquileia, Concordia, Oderzo ed Altino, di Padova e di Este ed a fine mese, raggiunto dalla VII Galbiana e dalla XIII Gemina si sposta a Verona. Ai primi di ottobre viene raggiunto dalle altre legioni giunte dalla Mesia e può decidere di attaccare, soprattutto per giustificare la sua intraprendenza con Vespasiano. Nel frattempo Cecina aveva cercato di bloccare nella bassa veronese una nuova armata inviata da Vitellio, non ancora consapevole del suo tradimento. Ma, una volta scopertolo intorno al 20 ottobre, l’armata viene costretta a dirigersi a marce forzate da Ostiglia, dove era stata bloccata, a Cremona, occupata fin da settembre da truppe di cavalleria e da due legioni. Sotto le sue mura in breve si trovano ben 50.000 uomini armati che non possono essere alloggiati, dal momento che la città è già sovraffollata per la presenza di forestieri richiamati dalla fiera autunnale. I vitelliani, sorpresi dal tradimento, pur potendo attendere non lo fanno ed accettano la provocazione di Primo Antonio che aveva iniziato ad incendiare e devastare le campagne vicine, fermandosi a otto miglia dalla città. Verso di lui, che nel frattempo aveva richiamato altri armati da Bedriacum,  iniziano ad avanzare due legioni, la I Italica e la XXI Rapax, senza impedire, nonostante alcune scaramucce, che il grosso delle truppe flaviane si ricongiunga all’avanguardia con una marcia forzata di diciotto miglia. Intorno a Cremona si sta preparando una delle più sanguinose battaglie dell’antichità. Nel tardo pomeriggio del 24 ottobre le milizie di Primo vengono a conoscenza del ricongiungimento delle armate, prima condotte da Cecina, al resto dei vitelliani e questo le costringe ad avanzare di due miglia verso la città. Lo scontro avviene proprio sulla Postumia: una battaglia lunga, discontinua e sanguinosa, combattuta l’intera notte al chiaro della luna fino all’alba. Al mattino le ovazioni che le truppe siriane elevano al sorgere del sole secondo l’uso orientale, disorientano ancora di più i vitelliani che si rifugiano precipitosamente nell’accampamento attaccato su tre fronti da cinque legioni. Chi non riesce a rifugiarsi dentro le mura di Cremona viene massacrato senza pietà. Tacito ha riferito di numerose catapulte usate dai vitelliani durante la battaglia alle porte di Cremona e di una rovesciata dagli spalti sull’accampamento degli assedianti. Notizie che sono state poi puntualmente confermate dal ritrovamento di due lamine di bronzo, mescolate a ossa umane e crani fratturati, durante lavori di scavo nel 1887 fuori porta Venezia, nell’area corrispondente alla porta settentrionale dell’accampamento posta sulla strada per Brescia. La prima lamina si riferiva ad una catapulta della IV Macedonica e portava scritto l’anno della costruzione, il 45 dopo Cristo; l’altra si riferiva ad una macchina da guerra dei vitelliani fabbricata nel 56.

Rimane da espugnare Cremona: alte mura da scalare, torri di pietra e porte di ferro. I vitelliani si sentono al sicuro, protetti anche dalla popolazione. In quel momento il prezioso vasellame proveniente dalla domus aurea è al riparo nella villa, posta al limite opposto della città rispetto a cui avviene la battaglia. Ma questo non basterà a risparmiarlo dalla distruzione.
I flaviani iniziano l’assalto incendiando dapprima le lussuose ville che si erano addossate da tempo alle mura e bersagliando con dardi dal tetto degli edifici più maestosi i difensori posti all’interno della città. Ma a pagare il prezzo più alto sono i civili. I militari, infatti, visto il mal partito, decidono di arrendersi mandando Cecina, prigioniero, a trattare con gli aggressori. Alla fine si accordano tutti quanti, dando il via al sacco di Cremona.
Di chi fu la vera responsabilità non è chiaro. Tacito insiste sul fatto che il popolo si sarebbe mescolato ai combattenti vitelliani, foraggiati dalle donne cremonesi uccise a loro volta nel combattimento che durò l’intera notte. Sull’astio che la XIII legione Gemina, costretta a costruire l’anfiteatro di Cecina, avrebbe provato nei confronti dei civili che a suo tempo li avevano derisi. Quasi a giustificare l’eccidio ricorda l’entusiasmo che i cremonesi avevano riservato a Vitellio vincitore in maggio, la gratitudine per lo spettacolo gladiatorio offerto da Cecina e l’oltraggio ai caduti otoniani, commilitoni dei vincitori attuali. Circolò anche la diceria che mentre Primo si trovava alle terme per lavarsi, lamentandosi per l’acqua tiepida, un servo avrebbe gridato che la temperatura sarebbe salita, intendendo come prossimo l’ordine di incendiare la città.
Plinio il Vecchio scrive però che lo stesso Primo aveva già promesso ai suoi il saccheggio dei Cremona, già ricca ed in quei giorni ancora più opulenta per la presenza di tanti visitatori della fiera autunnale. La verità storica è che oltre quarantamila soldati assetati di bottino entrarono in una città già divorata dagli incendi mettendola a sacco, penetrando nei templi e nelle case, appiccando nuovi incendi, uccidendo e violentando per quattro giorni di seguito fino a quando lo stesso Primo, consapevole dell’impopolarità che ne sarebbe derivata, decise di porre fine al saccheggio ed ordinò che fossero rilasciati i prigionieri, che nessuno voleva e che i soldati avevano iniziato a giustiziare.
Di quella grande e magnifica città rimase in piedi solo il tempio della dea Mefite, la protettrice delle paludi e dei loro miasmi pestilenziali.
Se dobbiamo prestare fede alle fonti i saccheggi di Roma ad opera di Teodorico nel 410 e di Genserico nel 455 risultano ben poca cosa paragonati alla distruzione di Cremona. E a nulla valse l’intervento di Vespasiano per favorirne la ricostruzione. Cremona non tornò mai più quella di un tempo.

Nessun commento:

Posta un commento