domenica 30 dicembre 2012

Il mito di Procne in casa Bodini



Era la casa dei Fodri, ma soprattutto è ora un gioiello artistico inaspettato, nascosto nel centro di Cremona. In via Beltrami 16 si era iniziato semplicemente con il rimuovere i controsoffitti dello studio al piano terreno. Oggi, alla conclusione dei lavori diretti da Giovanni Puerari, architetto e progettista dell’intervento, ci troviamo di fronte al salone di ricevimento di una dimora nobiliare dei primi anni del Cinquecento, ottenuto con la demolizione dei precedenti locali quattrocenteschi, l’innalzamento dei solai, la realizzazione di nuove finestre, l’inserimento di un porticato a colonne nel cortile, l’esecuzione di affreschi sulle pareti. Purtroppo, nonostante gli sforzi delle due restauratrici, Alberta Carena e Sandra Ragazzoni, incitate e sostenute dai proprietari, Anna Puerari Bodini e Angelo Bodini, poco si è salvato dalla distruzione, ma quel poco è di una bellezza straordinaria. Un artista ancora ignoto, ma sicuramente di mano felice e non estraneo alla temperie culturale di quegli anni, ha dipinto sulla parte superiore delle pareti del salone scene di chiaro stampo rinascimentale che si sono poi rivelate la raffigurazione del mito di Tereo e Procne così come riportato, nella ricostruzione offerta da Luca Lupatelli, nelle metamorfosi di Ovidio. Un soggetto raro, ma già raffigurato nel 1510-1511 da Sebastiano Del Piombo nelle parti superiori della sala di Galatea nella villa Farnesina di Roma, e, più tardi, verso la fine del secolo, ripreso in numerose incisioni. Il mito domina e pervade la parte alta del salone, mentre le zone sottostanti erano originariamente decorate con motivi architettonici con marmi e bugnati colorati fino a circa due metri e mezzo da terra, di cui restano però pochi frammenti. I protagonisti della vicenda si muovono su uno sfondo neutro, su un registro fortemente dinamico enfatizzato dai volti sgomenti, dall’ampia gestualità, dalle vesti gonfiate dal vento, ma non privi di eleganza sottolineata dalle ricche vesti e dalle acconciature femminili. La drammaticità della vicenda è  solo parzialmente temperata dalla compostezza manierata di qualche figura femminile, anche se poi basta la crudezza della testa di fanciullo mozzata mostrata al padre ignaro dalla madre ormai refrattaria a qualsiasi emozione, per riportarci all’efferatezza del dramma che si sta consumando, in una sequenza narrativa quasi cinematografica, davanti ai nostri occhi. Il mito è stato ricostruito grazie a quell’uomo dalla testa di uccello che altri non è se non Tereo. Ce ne parla Ovidio nelle Metamorfosi. Atene, assediata da non meglio specificati barbari, è stata liberata con l'aiuto di Tereo; in segno di riconoscenza, Pandione gli concede in sposa Procne, in un matrimonio in cui però a officiare non sono Giunone o Imeneo, ma le Eumenidi. Tereo e la moglie tornano dunque in Tracia, dove nasce il loro figlio Iti. Passano cinque anni felici, finché Procne prega Tereo di andare a Atene, a chiedere al vecchio Pandione di lasciare venire in Tracia Filomela, sua sorella, di cui sente grande mancanza. Tereo fa come chiede la moglie, ma appena vede Filomela ad Atene viene preso da una sconfinata passione per lei. Pandione non si accorge di nulla e permette a Filomela di lasciare Atene, sotto la promessa di un rapido ritorno, sebbene abbia dei presagi. I presagi sono ben motivati: appena sbarcati, Tereo porta in una stalla Filomela e la violenta. In preda alla disperazione, Filomela lamenta la sua condizione di anima ferita e colpevole contro la propria volontà, assicurando che rivelerà quanto è avvenuto agli uomini, ai monti, agli dèi. Tereo, preso da rabbia e paura, le mozza dunque la lingua con spada e tenaglia. Dopodiché si reca nuovamente da Procne, con la falsa notizia della morte di Filomela. Passa un anno e Filomela finalmente riesce ad ingegnarsi di scrivere su una tela la denuncia di quanto ha subito e a farla portare da una serva a Procne. Procne, scoperto il tutto, sfrutta la notte seguente, quella in cui la Tracia celebra i baccanali, per liberare la sorella. Quindi, in cerca di vendetta, si sfoga su Iti, cucinandolo per Tereo. Dopo che questi ha mangiato, ignaro di tutto, la carne di suo figlio, Filomela salta fuori sozza di sangue e gli tira in faccia il capo di Iti. Tereo si getta dunque dietro di loro, ma tutti e tre si trovano mutati in uccelli: Tereo in upupa, Filomela in rondine, Procne in usignolo.
Il tema delle metamorfosi torna nel vicino studiolo, ma la rappresentazione, probabilmente per un cambio di mano, diventa più convenzionale. Se resta al momento ignoto il nome dell’artista, grazie alle ricerche archivistiche condotte da Gianantonio Pisati siamo oggi in grado però di conoscere i committenti. Si tratta dei fratelli Pietromaria, Baldassarre e Gerolamo Fodri, figli di Guglielmo. Nel 1476 Bartolomeo Fodri aveva lasciato in eredità il palazzo avito al secondogenito Benedetto, costringendo il primogenito Guglielmo, di fatto diseredato, a trasferirsi nella vicina di San Donato nel palazzo che, ristrutturato nel 1911, è diventato prima la sede della Camera di Commercio, poi delle Cooperative e della Confesercenti in via Beltrami 18. Ai primi del Cinquecento i figli di Guglielmo Giovanni, Baldassarre, Pietro Maria e Gerolamo si divisero il patrimonio paterno: il primo rimase nel palazzo di famiglia con la maggior parte delle sostanze, gli altri tre acquistarono il palazzo confinante, trasferendovisi stabilmente nel secondo decennio del secolo. In seguito alla morte dei fratelli Pietro Maria rimase a partire dal 1524-1525 unico proprietario dell’immobile. La nobile famiglia abitò qui ininterrottamente fino al 1559 ed è in questo lungo arco di tempo che va collocata la realizzazione degli affreschi del salone e del camerino attiguo. Un ciclo splendido e sconosciuto, che costituisce un’altra testimonianza del grande secolo del manierismo cremonese.
Il linguaggio formale è evidentemente quello del primo Cinquecento, nella monumentalità piena e risoluta perfettamente risolta nello svolgimento narrativo, con inflessioni cremonesi che affiorano in qualche esasperazione quasi disarticolata dei movimenti, in certe grafie insistite sui contorni, nei passaggi a volte bruschi del chiaroscuro. Elementi che si può provare a confrontare con certi fatti che ormai si cominciano a conoscere bene in città agli esordi del secolo, tra Galeazzo Campi e Alessandro Pampurino, o tra Tommaso Aleni e altri 'minori' come Bernardino Ricca e Lorenzo de Beci. Sembra infatti di poter incominciare a sistemare il nostro misterioso artista, per il quale manca qualsiasi appiglio documentario, nelle coordinate di fatti pittorici che a Cremona si dipanano tra la conoscenza di novità ormai moderne di assoluta importanza - Boccaccino, Gianfrancesco Bembo, Altobello - il cui palcoscenico principale è l'inizio della decorazione delle pareti all'interno del Duomo, e dall'altra parte una persistenza di formule ancora tradizionali che implicano una certa rigidità dei gesti e delle pose, come anche ad esempio una sorta di ripetizione di fisionomie standard, che ben si notano ricorrenti anche nel ciclo in questione.
Non è affatto agevole ovviamente proseguire su questo terreno e la frammentarietà del ciclo riscoperto, accentuata dal restauro incompleto, non facilita il discorso. Sembra emergere però come vena caratterizzante dell'autore di queste scene quella di un temperamento bizzarro e in un certo senso discontinuo, che non arriva a far supporre l'intervento di più personalità di artisti nel lavoro, ma si sviluppa in una molteplicità di soluzioni diverse che denota una certa curiosità quasi sperimentale, pur non se non sostenuta da una qualità sempre al massimo livello. Queste soluzioni hanno fatto pensare a Francesco Casella, un eccentrico poco noto la cui personalità è stata sostanzialmente ricostruita da Marco Tanzi a partire dalle due sole opere firmate: la pala del 1510 oggi al Museo Borgogna di Vercelli e l'altra del 1517, arrivata invece a Brera. Nei nostri affreschi, secondo Giovanni Vaagussa, ricordano il Casella alcuni volti barbuti e corrucciati, caratterizzati anche dall'invadenza di alcuni elementi accessori, come le grosse corone sul capo. Certamente un Casella semmai più vicino alla seconda delle due pale d'altare, dove si sperimenta, in una scena movimentata coma la Lapidazione di Santo Stefano, una serie di gesti dinamici e concitati, di ascendenza nordica e dureriana in particolare, molto accentuati eppure un po' goffi nella eccessiva rigidità: qualcosa di simile a quanto accade ad esempio nella iterazione delle pose esagerate di Deucalione e Pirra, nella scena loro dedicata nella stanza più piccola.
Anche qualche altro elemento potrebbe far propendere per il poco noto Casella, come ad esempio il gusto per la ripetizione di personaggi perfettamente di profilo, quasi ritagliati sullo sfondo e che faticano un po' a trovare una vera tridimensionalità, apparendo come se fossero sagome piatte. Ma si potrebbe comunque notare negli affreschi ora riscoperti, in particolare nelle scene sulla voltina dello 'studiolo', una modernità ancora maggiore che accentua lo slancio dei movimenti e la torsione esasperata, quasi già manierista, di certe soluzioni anatomiche, come ad esempio nella figura di Giove che si infila il neonato nella carne viva della sua stessa coscia. Qualcosa che dovrebbe far pensare ad un Casella che ha già cominciato a ragionare sulle prime prove di Pordenone in Cattedrale, dunque tra il 1520 e il 1522: guardando per esempio il celebre profilo della Maddalena urlante pordenoniana preso a modello per la testa della donna che dovrebbe essere nelle intenzioni altrettanto stravolta come quella che regge in mano la testa mozza del figlio. E altri elementi potrebbero far pensare ad una visita a Mantova: una ipotesi che servirebbe a spiegare la curva del mantello gonfiato dal vento della figura femminile orante, sempre nel cosiddetto 'studiolo', secondo una soluzione che è prima antica e poi mantegnesca, ma che in verità potrebbe essere anche arrivata tramite qualche placchetta o incisione. Insomma si dovrebbe pensare ad un Casella attivo dopo il 1517, anno a partire dal quale, fino ad ora, non si avevano altre sue notizie; e che lavorerebbe qui approssimativamente attorno al 1520-25. Cioè in un momento che ormai non può prescindere dagli esordi di Giulio Campi, al quale in effetti potrebbero ben rimandare le soluzioni più fluide dei panneggi, rifluenti in pieghe ondulate, con alcune invenzioni come la manica vistosamente arrotolata, che era già nell'Allegoria della Vanità, oggi al Museo Poldi Pezzoli di Milano, che Giulio firmava e datava nel 1520.E proprio all’ambito di Bernardino Campi potrebbero riferirsi certe figure femminili e maschili che costiuscono dei veri e propri calchi dei prototipi che stava elaborando quell’artista. Il che sposterebbe i nostri affreschi verso la metà del secolo.

2 commenti:

  1. Buongiorno a chi legge, come si può vedere, porto il cognome Bodini, da parte di mio trisnonno, passato di mano in mano, ora custodisco un documento araldico, che nel secolo decimosesto portava il De dinanzi al cognome.
    Cosa assai curiosa, inerente Procne è che uno die poderi posseduti dalla famiglia Bodini, sia a Casalsizone ed Olmeneta, come a Cremona, una particolare proprietà di terra di molte pertiche chiamata l’Usignolo.
    Mi fa molto piacere, che vengano fatte scoperte artistiche riguardanti la famiglia Bodini e Cremona.
    Con riservatezza contattatemi.
    Distinti Saluti.
    Giovanni Francesco Bodini

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  2. La proprietà nel '500, che ha commissionato i dipinti, non ha nulla a che vedere con i proprietari attuali che hanno acquistato l'immobile nel secolo scorso. Le scoperte artistiche non riguardano la famiglia Bodini, che è solamente la proprietaria attuale dell' edificio e che niente ha a che fare con la costruzione o decorazione dello stesso.

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