domenica 18 novembre 2012

La battaglia fluviale del 1431 nel parcheggio della Coop


Il parcheggio della Coop in via del Sale un campo di battaglia. Non per le auto, beninteso, ma per le galee veneziani di oltre cinque secoli fa. La scoperta sensazionale è stata fatta da Giulio Grimozzi, già presidente del Laboratorio del Cotto, ed è frutto di una scrupolosa ricerca che, alle fonti storiche, ha affiancato i rilievi tecnici delle triangolazioni geometriche.
La battaglia ci cui parliamo è quella combattuta sul Po il 21 e 22 giugno 1431 quando 35 galee della Serenissima, giunte da Venezia per dar man forte al conte di Carmagnola che assediava Cremona, furono sgominate dalle navi dei Visconti nella più grande battaglia fluviale mai combattuta sul territorio nazionale. Spettatori i cremonesi che, meravigliati, osservavano la scena dall’alto delle torri e dei campanili. Ed è proprio quest’ultimo particolare che ha convinto Grimozzi ad approfondire la questione: nelle cronache dell’avvenimento si dice che i navigli veneziani avevano gettato l’ancora ad un “tiro di archibugio” dalle mura, quindi a circa 350 metri di distanza, tanti quanti erano consentiti dalla gittata dei proiettili utilizzati da questi prototipi dei nostri fucili.
Il problema era capire in quale punto esatto del Po si svolse lo scontro. Dai dati raccolti, osserva Grimozzi, si può desumere con buona certezza la posizione nello specchio d’acqua costituito dall’ansa che il fiume formava di fronte a Porta Po Vecchia, collocata all’inizio di via del Sale all’incrocio con via Cadore. Calcolata la gittata dei proiettili degli archibugi in 350 metri si arriva nell’area del parcheggio della Coop. La posizione è stata confermata valutando le linee di osservazione del popolo che, una volta salito sui campanili di Sant’Omobono, San Marcellino e San Pietro al Po, osservava lo scontro: le linee di osservazione di intersecano proprio in quel punto.
Oggi ci risulta difficile immaginare una battaglia di queste proporzioni. Non riusciamo a concepire come una flotta di una trentina di navi abbia potuto risalire il Po da Venezia fino alle mura di Cremona, ed i libri di storia, che narrano le gesta marinare della Repubblica veneta, non ci soccorrono in questo sforzo di immaginazione. La stessa conoscenza dei luoghi attuali non ci aiuta: dove dovrebbe esserci uno specchio d’acqua oggi c’è invece il parcheggio di un centro commerciale. Come è possibile?
Occorre ricordare che l’alveo del Po nel XV secolo non era irreggimentato e le sue sponde erano distanti anche quindici chilometri l’una dall’altra, in pratica dalle mura di Cremona a Monticelli d’Ongina e la sponda cremonese era quasi a ridosso della cinta muraria da ovest a sud-est al punto che le acque la lambivano per un lungo tratto da poche decine di metri dall’attuale via Milano fino a San Sigismondo. Mentre paludi e lanche separavano il corso vivo della corrente dalle sponde piacentine, le acque del Po lambivano la città oltre l’insula fluvialis, collocata  nei pressi dell’attuale piazza Cadorna. Data la larghezza dell’alveo e la portata del fiume che non doveva essere molto differente dall’attuale, la corrente del Po doveva essere prevalentemente di tipo lacustre e poteva consentire facilmente la navigazione a remi e persino a vela anche contro corrente, con fondali mediamente poco profondi ma tali da consentire le manovre delle galee anche in assetto da battaglia.
Quella mattina del 21 giugno 1431, dunque, le galee veneziane erano giunte sotto le mura di Cremona con una certa facilità, pensando di farne facile preda, stante la loro indiscussa capacità marinara.
Le galee veneziane erano imbarcazioni equipaggiate con circa 25-30 rematori di dimensioni ordinariamente comprese entro i 41 metri di lunghezza, per 6,50 di larghezza, 2,80 di  altezza con un metro di pescaggio e un dislocamento di circa 250 tonnellate, anche se si ha notizia di galee lunghe anche cinquanta metri. A prua vi era un castelletto chiamato “rambata”. a poppa il padiglione in cui era ricavato l’alloggio per gli ufficiali.
Galea veneziana del XV secolo
I rematori erano quasi tutti condannati (i galeotti) e l’equipaggio armato era prevalentemente costituito da marinai greci, turchi e albanesi che venivano pagati sulla base del numero di teste che presentavano alla fine di ogni combattimento per il conteggio e la riscossione del compenso.
Tuttavia persero la battaglia. I loro piani vennero vanificati probabilmente per colpa di un paio di errori di valutazione: il primo fu sicuramente la sottovalutazione della forza dell’avversario. Infatti Cremona disponeva di una marineria agguerrita e, soprattutto, di una secolare tradizione di navigazione che risaliva ai tempi delle Crociate, quando i cremonesi avevano inviato oltremare galee, dette Busa, con cento cavalieri ognuna. In pratica, calcolando che ogni cavaliere si tirava dietro scudieri, armigeri, stallieri, cavalli armi e vettovaglie, oltre ai 1500 artigiani citati da Francesco Robolotti, la flotta cremonese doveva essere numericamente di tutto rispetto. Un altro motivo della sconfitta va ricercato nell’atteggiamento del duca di Carmagnola.
Questi avrebbe dovuto attaccare la città da terra, cosicché Cremona si sarebbe trovata tra due fuochi, impegnata su due diversi fronti. Ma questo non avvenne, senza che il motivo sia stato chiarito.
Di fatto il Carmagnola, fosse per ritardo o tradimento, finì i suoi giorni sul patibolo allestito in piazza san Marco dove fu decapitato con l’accusa di alto tradimento. Cremona, peraltro, poteva godere nello scontro di forze fresche, contrariamente ai veneziani giunti sotto alle sue mura dopo giorni di viaggio.
Le navi, dunque, si schierano in ordine di battaglia. Le donne cremonesi, temendo il peggio, si rifugiano nelle chiese e dove capita, ma soprattutto si prostrano in preghiera davanti alle reliquie dei santi protettori, a Sant’Eligio, dove riposa Sant’Omobono, e San Tommaso, che conserva le spoglie dei martiri Marcellino e Pietro. Mentre la città trema, temendo il saccheggio, la flotta veneziana si dispone su tre schiere: la prima, di dodici triremi agli ordini di Niccolò Trevisan, è quella più efficiente per armamento e valore di uomini. Su ogni galea prendono posto esperti capitani appartenenti alle famiglie più celebri del patriziato veneto: i Pesaro, i Soranzo, i Delfino e i Da Ponte. Robustissime catene legano tra di loro le navi per costituire un sicuro argine in previsione dell’attacco dei viscontei.
Altre quindici navi vengono disposte come copertura dei lati del cuneo centrale, mentre altre navi cariche di rifornimenti sono poste dietro ed attendono gli sviluppi dello scontro. Lo stesso criterio di disposizione tattica viene adottato dai viscontei: venti navi disposte a cuneo e altre venti più leggere ed adatte ad interventi di emergenza sulle ali. Il Piccinino, dopo aver dato coraggio ai suoi, dà il segnale dell’attacco. Da quel momento si combatte per quattro ore nell’afa del pomeriggio, tra lo strepito delle armi e il ribollìo dei flutti. In un primo momento i veneziani sembrano avere la meglio, ma all’imbrunire il combattimento viene sospeso quando cinque galee viscontee sono state incendiate e distrutte e tre veneziane catturate.
Tutto viene rimandato al giorno successivo, ma nella notte il Piccinino corre ai ripari e con il favore delle tenebre fa sbarcare i morti ed i feriti e li fa rimpiazzare con giovani cremonesi pronti a difendere la loro città costi quel che costi, mentre incombe il pericolo che intervengano le truppe di terra del Carmagnola.
Il conte di Carmagnola
Ma Niccolò Trevisan che guida la flotta veneta cambia improvvisamente strategia, disponendo le sue galee su due sole schiere. Alle prime luci dell’alba del 22 giugno, dopo una notte di veglia trascorsa in preghiera nelle chiese illuminate da ceri e torce e nel medicare i feriti nello scontro precedente, riprende la battaglia ancora più furente. Nello scontro vengono lanciati i proiettili più disparati: pietre, saette, dardi, torce infiammate, missili con pece e zolfo infuocati e anche vasetti colmi di calce viva, ma vengono utilizzati anche balestre, schioppetti e bombarde.
Mentre regna la confusione fulmineamente entrano in azione le due più potenti navi viscontee, guidate da Pasino degli Eustachi e da Pietrobono da Parma: due galee robustissime, lunghe quaranta metri e larghe più di sei, sospinte dalle braccia di 126 rematori disposti in gruppi di tre su ciascuno dei 46 remi e gli ultimi 21 per lato: come lanciate da una catapulta si fiondano contro il cuneo formato dalla flotta avversaria, schiantando tutto quanto incontrano nella loro corsa, remi, chiglie, catene. I mille soldati viscontei, ancora freschi, hanno ragione dei tremila combattenti veneziani stremati dalle lunghe lotte corpo a corpo, colpendoli con i terribili verettoni, delle lance corte e potenti. Le galee venete, sospinte a valle dalla corrente ormai abbandonate a se stesse prive di rematori e di remi, fracassati dalle prue nemiche, vengono ancora ripetutamente colpite ed affondate. Il resto della flotta viscontea, guidata da Giovanni Grimaldi, si infila tra la riva e l’ala sinistra della flotta veneta e le dà il colpo di grazia. Dopo dodici ore di combattimenti sul Po galleggiano i resti dell’armata veneziana.
Dopo aver atteso inutilmente l’arrivo del Carmagnola al capitano veneto non resta che dare il segnale della ritirata, dopo aver difeso strenuamente i resti della sua flotta,  solo quattro galee ormai impantanate nei bassi fondali. Lui stesso si dà alla fuga su una piccola barca travestito per non farsi riconoscere. Il resto della flotta, inseguito dai vincitori, trova rifugio a Pontelagoscuro. Sul campo rimangono i resti di 31 galee veneziane, ottomila tra morti, dispersi e prigionieri, catturate tutte le navi da carico ricche di rifornimenti e vettovaglie, e condotti in catene a Pavia i marinai libanesi, greci e dalmati.
E per tre giorni i cremonesi fecero festa per lo scampato pericolo. Rinunciando a dividersi il prezioso bottino di guerra, con una intera nave catturata stipata di vesti preziose, damaschi e spezie orientali, accesero luci intense sul Torrazzo, sul palazzo comunale e sulle torrette della Cattedrale.
E la gioia veniva anche a cancellare il ricordo di due precedenti sconfitte subite dai viscontei sulle stesse acque del Po nel 1426 e 1427. Ma era soprattutto felice il comandante pavese Pasino degli Eustachi che in quelle occasioni aveva dovuto inchinarsi alla maggiore esperienza dell’ammiraglio veneziano Francesco Bembo che aveva risalito il Po fino alla confluenza del Ticino, minacciando la stessa Pavia.

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