lunedì 12 novembre 2012

Inventata a Cremona la prima lampadina Osram

La FR 900 (foto G. Lazzari)

Tutti conosciamo il marchio Osram, nato ufficialmente in Germania nel 1906 ad opera del barone austriaco Auer von Welsbach, divenuto celebre per aver brevettato la prima lampadina moderna con filamento in tungsteno. Su quella lampadina Auer, che fino ad allora era noto per essere fabbricatore di cucine e scaldabagni a gas, reticelle, lampade a gas, fornelli, ferri da stiro a stufe sempre a gas, costruì la sua fortuna. Ma pochi sanno che in realtà la prima lampadina moderna a filamento metallico è stata realizzata, prodotta e utilizzata a Cremona ben prima che Auer ne venisse a conoscenza.
Si chiamava proprio Osram, acronimo che non era il risultato dell’accostamento dei due termini osmio e wolframio, come poi venne elaborato a posteriori dopo il 1907, ma semplicemente la lettura al contrario, come avrebbe fatto Leonardo da Vinci,  del più comune termine “Marso”, che i cremonesi di allora conoscevano bene. Era infatti la palude formata dal Morbasco ai piedi di via Massarotti, dove in quei lontani anni, in un’oscura vetreria, si realizzava nel 1900 la prima lampadina della storia moderna. Un gruppo di geniali imprenditori cremonesi, il vetrario F.R., di cui purtroppo ricordiamo solo le iniziali, il farmacista Francesco Cavana, l’industriale Fortunato Arvedi, ne sono stati gli inventori. La vicenda, un vero e proprio giallo dai contorni dello spionaggio industriale, sarebbe stata relegata al silenzio, come in effetti è avvenuto per oltre un secolo, se un cocciuto cremonese, Gabriele Lazzari, non si fosse ostinato nel riportarla alla luce, ricostruendola nei minimi particolari in oltre quattro anni di ricerche. Ha raccolto un faldone di quattrocento pagine, con documenti, fotografie, riproduzioni, partendo da quella lampadina, rintracciata fortunosamente in una vecchia cassetta di legno, adagiata sopra una pila di giornali e vecchie riviste in una soffitta di via Carlo Speranza.
La lampadina è del tipo a incandescenza a filamento metallico, con bulbo in vetro  e impresso in trasparenza a smeriglio il marchio Osram. Sopra il contrassegno spicca lo stemma del Comune di Cremona con il motto della città “Fortitudo mea est in bracchio”. Scritte a mano libera con una penna sono le iniziali del costruttore, F.R., e la data di fabbricazione, il 12 novembre 1900. All’interno del bulbo, sul fondo circolare del vetro, sono scritti a mano con una penna dotata di pennino altri numeri. La virola è del tipo “Helios”, tedesco, ma mai adottato dalla Osram ufficiale fin dai suoi inizi. Sono elementi che hanno indotto Lazzari a ritenere la nostra lampadina incompatibile con il marchio “Osram” nella sua accezione classica. E dunque... Auer che quel marchio aveva registrato solo il 17 aprile 1906 a Berlino non poteva esserne il vero autore ma solo chi, anni dopo la sua invenzione, l’aveva registrata a suo nome. Non solo: il termine Osram non poteva essere l’acronimo di osmio e welframio, che nel 1900 ancora non erano nè conosciuti nè sperimentati con assiduità. La nostra lampadina, inoltre, era dotata di una soluzione tecnica come l’arcolaio che aveva permesso di soppiantare il filamento a carbone con quello metallico, introducendo il tungsteno e facendo fare alla lampadina quel salto di qualità che la farà resistere al tempo. Allora c’era solo una persona in grado di fare questo: Fortunato Arvedi.
Gabriele Lazzari nella sua ricerca si è imbattuto in un’anziana signora che ricorda come “lampadine di quel tipo venivano date dal Comune di Cremona in dotazione alle antiche latterie comunali dall’inizio del ‘900, ed alle farmacie comunali poi”. Una di queste lampadine, fabbricata qualche anno dopo, è conservata al museo civico di storia naturale.
Fin dal 1725 esisteva nella zona compresa tra Porta Mosa e Largo Pagliari un laboratorio di vetreria, fondato dal veneziano Gaetano Dolfini, che il Grandi ricorda ancora esistente verso la metà dell’Ottocento. Da piccolo opificio l’attività venne trasformata in azienda dalla famiglia Mina, trasferendo la sede in via Aporti. Nel 1881 fu costituita una Snc denominata Martini-Rizzi & C. che nel 1887 assunse il nome di “Vetraria Cremonese” ed aveva come soci Pietro Rizzi, Fanny Mina, Teresina Cremonesi, Luciano Ferragni, Ernesto Cremonesi Ulisse Dongiovanni e Amtonio Gamba. L’anno successivo l’azienda cessò l’attività con il subentro di Carlo De Stefani che nel 1900, a sua volta, cedette l’impresa ad imprenditori milanesi che, il 4 novembre 1900 costituirono la ditta “Società Vetraria Cremonese”, con sede in via Morbasco, nei pressi di porta Po. Ne facevano parte Giuseppe Bellavita, Guido e Arturo Stabilini, Enrico Cadari che, il 25 aprile 1901, accettarono l’ingresso di tre nuovi soci milanesi: Achille Magnani, Giovannina Lucioni e Luigi Clerici. Fin dal 1889, peraltro, Carlo De Stefani aveva già specializzato l’azienda nel settore della illuminazione utilizzando il logo “Comune di Cremona”, presente sulle lampadine a filamento di carbone, di cui sono rintracciati esemplari fin dal 1886. La “Società Vetraria Cremonese”, come abbiamo visto si era trasferita nella zona del Morbasco. Si è potuto rilevare che la fabbrica sorgeva in via Massarotti, sulla riva del colatore, a circa 50 metri dall’incrocio con via Trebbia.
Una parte fu demolita per costruirvi la sede dell’Ufficio di collocamento mentre un’altra parte è stata per anni sede del marmista Galli. Demolita del tutto nel 2005, ospita oggi un piccolo residence. Il Morbasco, nel tratto compreso tra via Massarotti e piazza Cadorna formava due anse soggette ad allagamenti, dove i cremonesi erano soliti recarsi a pescare.
Nella lanca di porta Po sfociava anche la Cremonella. Con termine popolare la località veniva chiamata “marsòon”, decisamente appropriato in quanto vi scaricava le acque anche il Macello Pubblico. L’altra lanca, più piccola, situata qualche centinaio di metri a monte, veniva chiamata “marso”, sempre in considerazione del cattivo odore che emanava. I vecchi cremonesi chiamavano scherzosamente “montagne del Lugo” le montagnole di terra elevate artificialmente per arginare le due lanche. Con il termine “Marso” veniva identificata l’intera sponda sinistra sul Morbasco, compresa la recente vetreria, mente la sponda destra era soprannominata Montagnana, o cascina del Lugo. “Sulla sponda sinistra – spiega Lazzari – si erigeva il fabbricato della Vetraria Cremonese soprannominato Marso, affacciato sulla via Morbasco adiacente ai bastioni di porta Po. Pertanto, dovendo indicare graficamente a qualcuno su che sponda del Morbasco si trovi la via Morbasco, quindi davanti al Marso, chi lo fa dovrà leggerlo sulla piantina topografica al contrario, da destra verso sinistra, cioè OSRAM. Così effettivamente doveva apparire a chi transitava sulla via Morbasco, o al postino addetto alla consegna postale destinata alla vetreria, che cercava quell’ubicazione sulla cartina. Come se dovesse leggerne un’insegna esposta sul tetto esterno della vetreria, rivolta verso l’interno del cortile, da dove, una volta entrati nel vialetto di passaggio verso l’ingresso, bastava girarsi per leggere Marso, quello che all’esterno appariva Osram”.
Nel frattempo nel 1888 era nata la “Sturla & C. Società di Elettricità” di cui era stato nominato amministratore il farmacista Francesco Cavana, presidente immobiliare membro del collegio sindacale della Banca Mutua Popolare, che era riuscito a farsi rinnovare per tre anni dal Comune la concessione per la realizzazione di installazioni elettriche “nella parte più popolosa e importante della città, allo scopo di distribuire energia per uso pubblico e privato, per l’illuminazione e la forza motrice”.  Tra le prime installazioni elettriche vi furono la stessa casa del Cavana, il caffè Soresini, il Garibaldi, la pagoda dei giardini pubblici di piazza Roma e i ritrovi mondani più esclusivi del centro. Al Cavana venne rinnovata la concessione anche nel 1890, grazie ai buoni auspici del sindaco Ferragni, nonostante l’amministrazione preferisse adottare ancora il gas per l’illuminazione delle strade e delle piazze, limitando l’uso dell’elettricità ai sobborghi o alle zone più buie, stante gli alti costi dell’energia elettrica. Ma la “Società Cremonese di Elettricità” era destinata ad avere vita breve. 
Erano gli anni in cui in Comune si iniziava a studiare la possibilità di produrre energia elettrica in proprio. L’ingegnere Giuseppe Vacchelli, ad esempio, intendeva applicare una dinamo ad una ruota di mulino posta in mezzo a due grosse barche ancorate nel corso di un fiume, e nel 1900 progettò una centrale elettrica a Mirabello Ciria, con cui il Comune si assicurò l’acquisto di energia a prezzo conveniente, sperimentando la realizzazione di cabine di trasformazione per ridurre la caduta di tensione provocata dal superamento di lunghe distanze. La linea venne completata nel 1903 nell’amministrazione comunale si fece strada l’idea di un organismo istituzionale di tipo pubblico che potesse sostitursi al privato nella distribuzione dell’energia elettrica. In breve la Società Elettrica di Cavana fu liquidata sfruttando una discutibile regola di procedura che prevedeva la possibilità di concludere una transazione senza riunire il consiglio comunale. La società fu acquisita dal Comune per 25.000 lire. Il Cavana, costretto a cedere la propria azienda al Comune, decretò in questo modo anche la fine della vetreria che fabbricava la famosa lampadina FR 900 OSRAM.  Erano “indubbiamente più durature delle Comune-Cremona al carbonio, ma nell’immediato poco capite ed accettate – osserva Lazzari – data la forte differenza di prestazioni luminose rispetto alle abituali in fibra vegetale. Per il momentaneo errato impiego della FR 900 il malcontento da parte del Comune e degli stessi cittadini aumentava, invece di diminuire. Lamentavano, date la luce difforme e gli ingannevoli giochi d’ombra prodotti dalle FR 900, di non riuscire a distinguere bene a distanza nell’oscurità delle nottate, le insidiose buche, gli immancabili dislivelli nel cuore cittadino, del selciato lastricato...Non si può definire un bell’esordio, quello della nostra prima lampadina a filamento metallico con arcolaio, se pur presentando soluzioni e caratteristiche d’avanguardia richiedeva in effetti un diverso tipo di distribuzione più folta e omogenea, per potere essere usata e utilizzata al meglio”. Nel 1904 Francesco Cavana entra a far parte della Vetraria Cremonese come socio amministratore, ma nel corso dello stesso anno ne decreta la chiusura.
“Se pur tecnicamente più valida e duratura – commenta ancora Lazzari – la FR 900 non aveva le caratteristiche compatibili con la primitiva tipologia impiantistica ancora in uso, nè risorse economiche proprie, o finanziamenti necessari per conquistarsi l’attenzione. I nostri ingenuamente pensavano che per vendere bastava avere un nuovo prodotto. Decretavano però in questo modo un altrettanto immediato, quanto rapido e mai pubblicamente risaputo declino, lo dimostra il fatto che la conoscenza e diffusone della nostra FR 900 non riuscì mai a varcare le mura della città di Cremona. Il Comune stesso, pur riconoscendo al Cavana il diritto di monopolizzare la FR 900 col suo stemma in esclusiva, al posto di impiegarle aumentando il numero delle lampadine accese sul territorio, ne prese le distanze liquidandole; le ritennero un lusso che non ci si poteva permettere. Preferì mantenere quelle ad arco, più costose in tutti i sensi e incrementare i becchi a gas di Auer. Pur dopo aver sperimentato i pregi della nuova illuminazione, specialmente durante le sontuose feste da ballo e di carnevale al teatro Ponchielli, magistralmente illuminate da grandiose piantane e lampadari equipaggiati proprio con le nostre lampadine, da sempre fabbricate in loco, uniche, impareggiabili nel loro genere”.

2 commenti:

  1. Ma chi era quel Fortunato Arvedi? Mi fa pensare a un nostro contemporaneo! C'è un legame di parentela?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Era lo zio del cav. Giovanni Arvedi ed aveva un laboratorio in via Milano. Era l'unico che riusciva a lavorare il tungsteno con un laminatoio senza romperlo

      Elimina